Il federalismo fiscale è da ieri legge. Si avvicina la realizzazione di un disegno che ha avuto in Sardegna la culla culturale più importante del secolo scorso, a dispetto della incomprensione, quando non dell’aperta opposizione, di troppi vecchi partiti, soprattutto della sinistra sarda. La Repubblica federale è, insomma, più vicina. Certo, se il Pd avesse avuto più coraggio e trasformato in approvazione la sua astensione, il processo ora cominciato avrebbe avuto importanza maggiore. Ma non nascondo il mio apprezzamento per il suo gesto.
Ci sarà tempo per parlare degli effetti sull’economia della Sardegna che il federalismo fiscale avrà. Ora mi preme considerare due aspetti della riforma costituzionale che ieri al Senato abbiamo approvato. Il primo riguarda la qualità che le classi dirigenti (tutte, non solo la politica) dovranno mostrare di avere di fronte alla sfida che sono chiamate ad affrontare. Il secondo riguarda le opportunità che la nazione sarda avrà di esercitare il suo diritto ad autodeterminarsi.
Il giorno del 28 aprile, Die de sa Sardigna, sia la presidente del Consiglio regionale sia quello della Regione, parlando davanti al Parlamento dei sardi hanno mostrato che una nuova qualità di classe politica non solo è possibile, ma c’è. Sono stati due discorsi di altissimo profilo culturale e istituzionale, in cui il richiamo al popolo sardo e alla sua nazione ha scansato il rischio della retorica e si è fatto progetto. Non sarà certo il livore di certa cattiva stampa, in parte insofferente per il richiamo ad una autonomia di pensiero, in parte decisamente contraria, a togliere valore al disegno di nuova specialità illustrato da Lombardo e da Cappellacci. Progetto che, del resto, è quello con cui il Pdl e i suoi alleati si sono presentati al voto di febbraio.
Ma, dicevo, il federalismo fiscale, non a caso voluto fortemente dal Pdl insieme alla Lega, è anche apertura ad opportunità nuove per la Sardegna. Il richiamo al fatto che questa in corso deve essere una legislatura costituente esce dal rituale consueto ad ogni inizio di legislatura e si fa impegno fondato. Sostenendo con decisione e con passione l’iniziativa del Comitato per lo Statuto, il centro destra sardo ha già indicato quale strada vuole seguire per la riscrittura dello Statuto speciale: la conquista di un reale autogoverno che, all’interno della Repubblica italiana e dell’Unione europea, garantisca alla Sardegna tutti i poteri e tutte le competenze di cui ha bisogno. Non solo: il cammino per la acquisizione di questi poteri necessari non deve essere percorso solo dalla politica istituzionale, ma dal popolo sardo chiamato a discutere del suo futuro.
Personalmente ho già fatto mia la proposta del Comitato e la ho presentata al Senato, oltre a pubblicarla sul mio sito. Le alte parole ascoltate il giorno della festa del popolo sardo nel Parlamento da esso eletto mi confortano in questa scelta.
giovedì 30 aprile 2009
martedì 28 aprile 2009
L'immotivato panico per l'aviaria non insegna nulla?
La vicenda dell’influenza aviaria e del “terrorismo mediatico” che l’accompagnò sembra non aver insegnato granché. I mea culpa che la stampa di mezzo mondo recitò per aver seminato panico e allarmismi ingiustificati sembrarono allora sinceri: “Non sarà più commessa una leggerezza del genere”.
E invece già si cominciano a intravedere i primi segnali di spettacolarizzazione della nuova “peste mondiale”, quella influenza suina che già fa evocare la terribile parola: pandemia. Anche le misure precauzionali adottate dalle autorità sanitarie mondiali, invece di spingere alla cautela, inducono alla titolazione a grandi caratteri: “Sale a livello 4 l’allarme” o anche “Febbre suina arrivata in Europa”. E, per indurre al panico chi legge, ecco anche: “In allerta Nuova Zelanda e Australia”. Insomma, riassume un altro titolo: “L’Oms: a un passo dalla pandemia”. La sigla è quella della Organizzazione mondiale della sanità, l’organizzazione globale che vigila sulla nostra salute e una giusta precauzione, che segnala come l’attenzione è grande, si trasforma in invito al panico.
Da medico e da parlamentare avverto quale china pericolosa sta per percorrere il sistema mediatico non solo sardo e europeo. Sono del tutto consapevole di quanto difficile sia per i media (i mediatori, cioè, fra chi vuol sapere e chi sa) sottoporre le notizie a verifica scientifica prima di metterle in una pagina o di diffonderle per radio, televisione, internet. Se ci fosse, però, memoria del mal fatto, tale per esplicite ammissione e autocritica, l’esperienza della influenza aviaria dovrebbe suggerire il massimo dello sforzo.
Allora il procurato panico non solo stressò milioni e milioni di persone ma comportò la distruzione di migliaia di tonnellate di polli e la disoccupazione per un numero enorme di persone. Per evitarlo sarebbe stata sufficiente una informazione corretta e sottoposta al vaglio del rigore scientifico e, spesso, al solo buon senso. Si sapeva, allora come oggi per i suini, che non esisteva alcun pericolo nel consumo delle carni. Eppure su giornali e per televisione le notizie spesso parlarono di individui morti o gravemente infermi “per aver mangiato pollo”.
I media sono ancora in tempo per non diffondere panico e per informare correttamente, raccontando, certo, quel che accade, ma accompagnando sempre le notizie con i giudizi di virologhi e scienziati. Basterebbe, anche, dar maggior rilievo alle rassicurazioni di autorità, come l’Oms, il presidente Obama, i ministri europei della sanità, riflettendo su un dato incontrovertibile: queste autorità non hanno alcun interesse a far abbassare il livello di guardia delle persone a cui si rivolgono.
Per ora, invece, le dichiarazioni di Obama sono contenute in piccoli titoletti sotto grandi titoli allarmistici che suggeriscono: Obama è tenuto a rassicurare il mondo, ma la realtà è decisamente preoccupante.
E invece già si cominciano a intravedere i primi segnali di spettacolarizzazione della nuova “peste mondiale”, quella influenza suina che già fa evocare la terribile parola: pandemia. Anche le misure precauzionali adottate dalle autorità sanitarie mondiali, invece di spingere alla cautela, inducono alla titolazione a grandi caratteri: “Sale a livello 4 l’allarme” o anche “Febbre suina arrivata in Europa”. E, per indurre al panico chi legge, ecco anche: “In allerta Nuova Zelanda e Australia”. Insomma, riassume un altro titolo: “L’Oms: a un passo dalla pandemia”. La sigla è quella della Organizzazione mondiale della sanità, l’organizzazione globale che vigila sulla nostra salute e una giusta precauzione, che segnala come l’attenzione è grande, si trasforma in invito al panico.
Da medico e da parlamentare avverto quale china pericolosa sta per percorrere il sistema mediatico non solo sardo e europeo. Sono del tutto consapevole di quanto difficile sia per i media (i mediatori, cioè, fra chi vuol sapere e chi sa) sottoporre le notizie a verifica scientifica prima di metterle in una pagina o di diffonderle per radio, televisione, internet. Se ci fosse, però, memoria del mal fatto, tale per esplicite ammissione e autocritica, l’esperienza della influenza aviaria dovrebbe suggerire il massimo dello sforzo.
Allora il procurato panico non solo stressò milioni e milioni di persone ma comportò la distruzione di migliaia di tonnellate di polli e la disoccupazione per un numero enorme di persone. Per evitarlo sarebbe stata sufficiente una informazione corretta e sottoposta al vaglio del rigore scientifico e, spesso, al solo buon senso. Si sapeva, allora come oggi per i suini, che non esisteva alcun pericolo nel consumo delle carni. Eppure su giornali e per televisione le notizie spesso parlarono di individui morti o gravemente infermi “per aver mangiato pollo”.
I media sono ancora in tempo per non diffondere panico e per informare correttamente, raccontando, certo, quel che accade, ma accompagnando sempre le notizie con i giudizi di virologhi e scienziati. Basterebbe, anche, dar maggior rilievo alle rassicurazioni di autorità, come l’Oms, il presidente Obama, i ministri europei della sanità, riflettendo su un dato incontrovertibile: queste autorità non hanno alcun interesse a far abbassare il livello di guardia delle persone a cui si rivolgono.
Per ora, invece, le dichiarazioni di Obama sono contenute in piccoli titoletti sotto grandi titoli allarmistici che suggeriscono: Obama è tenuto a rassicurare il mondo, ma la realtà è decisamente preoccupante.
lunedì 27 aprile 2009
La svolta di Franceschini: bene, ma per ora solo mormorii
In un suo editoriale di questa mattina su L’Unione, Raimondo Cubeddu si augura che la ritrovata “concordia sulla Resistenza si trasformi in una forza morale e politica per guardare la riforma costituzionale con animo propositivo”. È l’augurio che, credo, tutti dovremmo fare. Dopo il discorso sulla Resistenza fatto da Berlusconi a Onna, ci sono i primi timidi segnali che l’opposizione, almeno la più responsabile, vuole imboccare la strada che porta verso la fine di una perdente pratica del muro contro muro.
Il primo segnale di svolta sta nel riconoscimento da parte di Dario Franceschini che il centro sinistra ha “fatto l’errore piccolo di cambiare a maggioranza il Titolo V della Costituzione”. Perdoniamo pure l’aggettivo “piccolo” usato per definire un brutto pasticciaccio, come testimonia la miriade di conflitti tra Regioni e Stato: piccolo o grande, l’importante è che sia riconosciuto come errore.
Il secondo segnale è l’appello di Franceschini a procedere alla riforma della Costituzione in concordia fra maggioranza e opposizione. Il problema sta nella raccomandazione al capo del governo: “Dica che si potrà modificare soltanto con l’accordo degli avversari”. In uno Stato normale, in cui l’opposizione legittima preliminarmente, senza se e senza ma, chi vince le elezioni e governa, una tale raccomandazione non avrebbe motivo di essere rivolta. Sarebbe al più un ribadire una cosa scontata.
Purtroppo, i segnali di cambiamento sono troppo deboli e soprattutto contrastati. La lotta per il potere all’interno del Pd comporta, infatti, il rischio che Franceschini rappresenti solo una parte del suo schieramento, forse la più accorta ma, altrettanto forse, non la maggioritaria. Già si intravede questo rischio: l’aspirante al trono, Bersani, ha contestato, per esempio, l’apprezzamento che il segretario ha fatto del discorso del primo ministro: quella di Berlusconi è, dice l’ex ministro ombra del Pd, “una giravolta”. Altri contestano più radicalmente: Franceschini non doveva invitare Berlusconi a celebrare il 25 aprile.
Il mondo che desidererei è quello in cui, nella distinzione dei ruoli decretata dagli elettori, opposizione e maggioranza si riconoscano e, sulle grandi scelte, agiscano in concordia, come succede nelle democrazie mature. Il mondo reale, temo, è diverso. In questa realtà reale, l’opposizione sembra si voglia ricavare uno spazio di interdizione: basterà che dica no alla riforma costituzionale e la riforma non si fa.
Vista da qui, dalla Sardegna, una tale potestà riconosciuta ai Bersani sarebbe letale per la scrittura di un nuovo Statuto di autonomia speciale. Tutti sanno che il nostro Statuto ha rango costituzionale e che la sua approvazione incide sulla Costituzione, la riforma. Assumere per fatto acquisito i primi mormorii di cambio di atteggiamento lanciati da Francescini, sarebbe sbagliato. Un impegno a riformare la Costituzione “soltanto” d’accordo con gli avversari necessità di ben altri segnali da parte dell’opposizione. Per esempio il semplice riconoscimento che la Costituzione repubblicana non è, come le Tavole di Mosé, divina, ma un prodotto umano di una determinata epoca storica, oggi decisamente cambiata.
Il primo segnale di svolta sta nel riconoscimento da parte di Dario Franceschini che il centro sinistra ha “fatto l’errore piccolo di cambiare a maggioranza il Titolo V della Costituzione”. Perdoniamo pure l’aggettivo “piccolo” usato per definire un brutto pasticciaccio, come testimonia la miriade di conflitti tra Regioni e Stato: piccolo o grande, l’importante è che sia riconosciuto come errore.
Il secondo segnale è l’appello di Franceschini a procedere alla riforma della Costituzione in concordia fra maggioranza e opposizione. Il problema sta nella raccomandazione al capo del governo: “Dica che si potrà modificare soltanto con l’accordo degli avversari”. In uno Stato normale, in cui l’opposizione legittima preliminarmente, senza se e senza ma, chi vince le elezioni e governa, una tale raccomandazione non avrebbe motivo di essere rivolta. Sarebbe al più un ribadire una cosa scontata.
Purtroppo, i segnali di cambiamento sono troppo deboli e soprattutto contrastati. La lotta per il potere all’interno del Pd comporta, infatti, il rischio che Franceschini rappresenti solo una parte del suo schieramento, forse la più accorta ma, altrettanto forse, non la maggioritaria. Già si intravede questo rischio: l’aspirante al trono, Bersani, ha contestato, per esempio, l’apprezzamento che il segretario ha fatto del discorso del primo ministro: quella di Berlusconi è, dice l’ex ministro ombra del Pd, “una giravolta”. Altri contestano più radicalmente: Franceschini non doveva invitare Berlusconi a celebrare il 25 aprile.
Il mondo che desidererei è quello in cui, nella distinzione dei ruoli decretata dagli elettori, opposizione e maggioranza si riconoscano e, sulle grandi scelte, agiscano in concordia, come succede nelle democrazie mature. Il mondo reale, temo, è diverso. In questa realtà reale, l’opposizione sembra si voglia ricavare uno spazio di interdizione: basterà che dica no alla riforma costituzionale e la riforma non si fa.
Vista da qui, dalla Sardegna, una tale potestà riconosciuta ai Bersani sarebbe letale per la scrittura di un nuovo Statuto di autonomia speciale. Tutti sanno che il nostro Statuto ha rango costituzionale e che la sua approvazione incide sulla Costituzione, la riforma. Assumere per fatto acquisito i primi mormorii di cambio di atteggiamento lanciati da Francescini, sarebbe sbagliato. Un impegno a riformare la Costituzione “soltanto” d’accordo con gli avversari necessità di ben altri segnali da parte dell’opposizione. Per esempio il semplice riconoscimento che la Costituzione repubblicana non è, come le Tavole di Mosé, divina, ma un prodotto umano di una determinata epoca storica, oggi decisamente cambiata.
venerdì 24 aprile 2009
In Val d'Aosta i maestri aumentano, in Sardegna no. Chi sa perché?
Nella provincia di Nuoro – annuncia un sindacato della scuola – l’anno venturo perderanno il posto 146 insegnanti elementari. Nella Valle d’Aosta – annuncia invece il sindacato autonomo Savt-ècole – ci sarà un incremento di posti di lavoro nelle scuole, da quella dell’infanzia a quella secondaria, una trentina in tutto. Il numero degli abitanti dei due territori è praticamente lo stesso, entrambi sono montuosi, hanno comunicazioni interne non facilissime, sono fatti di piccoli comuni. Anche un altro dato li accomuna: gli abitanti sono bilingui.
La differenza sta nel fatto che il sindacato valdostano è conscio di operare in una società bilingue, quelli sardi (in questo caso si tratta della Gilda, ma gli altri sindacati non sono diversi) no. Il Savt-ècole nell’annunciare che da loro non ci saranno tagli, evoca la salvaguardia dell’insegnamento bilingue, insieme a quella delle scuole di montagna. La Gilda nuorese “il problema delle strade, lo spopolamento, il lavoro”, disagi che sono propri a tutti i territori montani della Penisola. Neppure un barlume di idea che la peculiarità da prospettare per evitare i tagli sia il bilinguismo in atto e che l’insegnamento del e in sardo (assolutamente legale se solo lo si volesse impartire) avrebbe lo stesso effetto ottenuto nella Vallée.
Ma si sa, gridare contro il Governo, è molto più facile che rimboccarsi le maniche e proporre una cosa di assoluto buon senso. Hanno mai presentato la Gilda e gli altri sindacati della scuola un progetto di radicamento dell’occupazione di maestri e professori sulla situazione di bilinguismo? Questo esiste di fatto (e basta fermarsi un momento davanti a una scuola prima e dopo le lezioni), ma, in più, ha un riconoscimento in una legge dello Stato, la 482. Esistono, insomma, le condizioni per attuare quella legge e per rivendicare, quindi, la specialità della situazione sarda, con la conseguenza ovvia di conservare anche posti di lavoro di maestri e professori specializzati nell’insegnamento del sardo.
Il governo continua a ribadire che nessuno perderà il posto, che la riduzione delle cattedre non equivale a riduzione di posti di lavoro. Ed ha allo studio provvedimenti per ridurre al massimo il disagio per i precari, illusi dalla sinistra che la scuola avrebbe continuato ad essere uno sipendificio, indipendentemente dai costi economici e a prescindere dal calo di popolazione scolastica. Se, in Sardegna, certi sindacati si rendessero conto di dove operano, probabilmente sarebbero riusciti a coniugare necessità generali e bisogni locali. Rifarsi ai disagi derivanti dalle strade, dai monti, dai piccoli paesi serve a nulla.
La differenza sta nel fatto che il sindacato valdostano è conscio di operare in una società bilingue, quelli sardi (in questo caso si tratta della Gilda, ma gli altri sindacati non sono diversi) no. Il Savt-ècole nell’annunciare che da loro non ci saranno tagli, evoca la salvaguardia dell’insegnamento bilingue, insieme a quella delle scuole di montagna. La Gilda nuorese “il problema delle strade, lo spopolamento, il lavoro”, disagi che sono propri a tutti i territori montani della Penisola. Neppure un barlume di idea che la peculiarità da prospettare per evitare i tagli sia il bilinguismo in atto e che l’insegnamento del e in sardo (assolutamente legale se solo lo si volesse impartire) avrebbe lo stesso effetto ottenuto nella Vallée.
Ma si sa, gridare contro il Governo, è molto più facile che rimboccarsi le maniche e proporre una cosa di assoluto buon senso. Hanno mai presentato la Gilda e gli altri sindacati della scuola un progetto di radicamento dell’occupazione di maestri e professori sulla situazione di bilinguismo? Questo esiste di fatto (e basta fermarsi un momento davanti a una scuola prima e dopo le lezioni), ma, in più, ha un riconoscimento in una legge dello Stato, la 482. Esistono, insomma, le condizioni per attuare quella legge e per rivendicare, quindi, la specialità della situazione sarda, con la conseguenza ovvia di conservare anche posti di lavoro di maestri e professori specializzati nell’insegnamento del sardo.
Il governo continua a ribadire che nessuno perderà il posto, che la riduzione delle cattedre non equivale a riduzione di posti di lavoro. Ed ha allo studio provvedimenti per ridurre al massimo il disagio per i precari, illusi dalla sinistra che la scuola avrebbe continuato ad essere uno sipendificio, indipendentemente dai costi economici e a prescindere dal calo di popolazione scolastica. Se, in Sardegna, certi sindacati si rendessero conto di dove operano, probabilmente sarebbero riusciti a coniugare necessità generali e bisogni locali. Rifarsi ai disagi derivanti dalle strade, dai monti, dai piccoli paesi serve a nulla.
giovedì 23 aprile 2009
G8: una decisione incomprensibile
L’improvvisa decisione del Governo di spostare il G8 dalla Sardegna all’Abruzzo è davvero incomprensibile, non fosse altro per il fatto che mancano poco più di due mesi all’evento. Non è certo in discussione il sentimento di partecipata solidarietà con gli abruzzesi, che del resto i sardi hanno dimostrato ampiamente di avere in queste due settimane.
La inopportunità dello spostamento, ove fosse confermato, sta nel rischio che le aspettative suscitate nei sardi dal G8 in termini di immagine, servizi e crescita economica siano vanificate. Confido ancora che il provvedimento del Governo vada nel senso di una compartecipazione della Sardegna e dell’Abruzzo all’importante avvenimento internazionale. La cancellazione pura e semplice della Maddalena sarebbe colta come abiura ad una parola data e lacerazione di un patto che il Pdl e il suo leader hanno stretto con la grande maggioranza degli elettori sardi.
La inopportunità dello spostamento, ove fosse confermato, sta nel rischio che le aspettative suscitate nei sardi dal G8 in termini di immagine, servizi e crescita economica siano vanificate. Confido ancora che il provvedimento del Governo vada nel senso di una compartecipazione della Sardegna e dell’Abruzzo all’importante avvenimento internazionale. La cancellazione pura e semplice della Maddalena sarebbe colta come abiura ad una parola data e lacerazione di un patto che il Pdl e il suo leader hanno stretto con la grande maggioranza degli elettori sardi.
mercoledì 22 aprile 2009
Porto Torres: lo Stato non può essere sempre la soluzione
L’Eni afferma di aver riallineato al mercato i prezzi delle materie prime, l’imprenditore trevigiano che ha rilevato il Petrolchimico di Porto Torres sostiene che questi nuovi prezzi sono per lui insostenibili. E la questione della grande fabbrica chimica ritorna drammaticamente all’ordine del giorno della politica e, soprattutto, dei dipendenti e delle loro famiglie. Lo spettro della disoccupazione e della desertificazione industriale si agita di nuovo, insomma, sul nord della nostra Isola.
Il governo italiano e la giunta regionale faranno tutto il possibile per evitare questa sciagura. Sanno entrambi che sullo sfondo del rimpallo di responsabilità ci sono esseri umani che non solo non vogliono rassegnarsi a un futuro di disoccupazione, ma che non portano alcuna responsabilità di scelte politiche errate. La scelta di una monocultura petrolchimica non era ineluttabile. A renderla possibile e poi reale concorse un dannoso impasto di ideologia industrialista, estremismo operaista, debolezza autonomista delle nostre classi dirigenti, di tutte, non solo di quella politica. E, a ombrello di tutto questo, la insana idea che lo Stato potesse per sempre sostituirsi al mercato.
Secondo i vertici dell’Eni (che ha quasi raddoppiato il prezzo del dicloretano usato anche a Porto Torres) questa decisione era inevitabile visto che il prezzo all’epoca concordato con l’ex proprietario della fabbrica, era frutto di un accordo “politico” e non economico. Chi, come una parte del centrosinistra e del sindacato ad esso vicino, va oggi dicendo che va rilanciata la chimica in Sardegna, gioca con i sentimenti e le speranze di migliaia di persone.
Se anche la politica dovesse allontanare nell’immediato il disastro di Porto Torres, le ragioni del mercato non sarebbero per questo vinte. Ci sono strumenti economici, come la Zona franca, che avrebbero potuto favorire l’abbattimento di molti costi industriali. “Sarebbe un regalo fatto ai padroni” tuonava il Pci contro il progetto di Zona franca che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso interessò tutta la società sarda. E anche il passato governo regionale, che pure aveva la possibilità di creare nove Zone franche, non fece alcunché di serio in questa direzione.
In questo lungo periodo di crisi del Petrolchimico di Porto Torres, i promotori della mobilitazione popolare, sacrosanta naturalmente e alla quale ho aderito con convinzione, si sono limitati a chiedere l’intervento dello Stato e del Governo. Non vorrei avessero la convinzione che il Governo potesse ritagliare questa fetta di Sardegna dai meccanismi del mercato. E magari ripetere, antistoricamente, le scelte che intorno agli anni Settanta furono fatte a Porto Torres, ad Assemini, a Ottana e Bolotana, nel Sarcidano, nella Valle del Sologo.
Il governo italiano e la giunta regionale faranno tutto il possibile per evitare questa sciagura. Sanno entrambi che sullo sfondo del rimpallo di responsabilità ci sono esseri umani che non solo non vogliono rassegnarsi a un futuro di disoccupazione, ma che non portano alcuna responsabilità di scelte politiche errate. La scelta di una monocultura petrolchimica non era ineluttabile. A renderla possibile e poi reale concorse un dannoso impasto di ideologia industrialista, estremismo operaista, debolezza autonomista delle nostre classi dirigenti, di tutte, non solo di quella politica. E, a ombrello di tutto questo, la insana idea che lo Stato potesse per sempre sostituirsi al mercato.
Secondo i vertici dell’Eni (che ha quasi raddoppiato il prezzo del dicloretano usato anche a Porto Torres) questa decisione era inevitabile visto che il prezzo all’epoca concordato con l’ex proprietario della fabbrica, era frutto di un accordo “politico” e non economico. Chi, come una parte del centrosinistra e del sindacato ad esso vicino, va oggi dicendo che va rilanciata la chimica in Sardegna, gioca con i sentimenti e le speranze di migliaia di persone.
Se anche la politica dovesse allontanare nell’immediato il disastro di Porto Torres, le ragioni del mercato non sarebbero per questo vinte. Ci sono strumenti economici, come la Zona franca, che avrebbero potuto favorire l’abbattimento di molti costi industriali. “Sarebbe un regalo fatto ai padroni” tuonava il Pci contro il progetto di Zona franca che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso interessò tutta la società sarda. E anche il passato governo regionale, che pure aveva la possibilità di creare nove Zone franche, non fece alcunché di serio in questa direzione.
In questo lungo periodo di crisi del Petrolchimico di Porto Torres, i promotori della mobilitazione popolare, sacrosanta naturalmente e alla quale ho aderito con convinzione, si sono limitati a chiedere l’intervento dello Stato e del Governo. Non vorrei avessero la convinzione che il Governo potesse ritagliare questa fetta di Sardegna dai meccanismi del mercato. E magari ripetere, antistoricamente, le scelte che intorno agli anni Settanta furono fatte a Porto Torres, ad Assemini, a Ottana e Bolotana, nel Sarcidano, nella Valle del Sologo.
lunedì 20 aprile 2009
Caro Brunetta, la specialità non si misura con l'economia
Dobbiamo al ministro Brunetta un lucido e coraggioso disegno di ammodernamento dell’amministrazione pubblica. Sono convintissimo che la società italiana sarà, al termine di questo processo di razionalizzazione, più efficiente e democratica, una casa comune dalle pareti di vetro. Ma l’amico Brunetta sbaglia nel pensare applicabili alle specialità regionali gli stessi criteri organizzativi e contabili usati, mi auguro con successo crescente, al resto della pubblica amministrazione, senza per questo mettere in discussione la Costituzione.
C’è, intorno al concetto di specialità, un equivoco di matrice prevalentemente comunista. Secondo tale cultura, le cinque regioni riconosciute speciali dalla Costituzione, deriverebbero la loro peculiarità da ragioni economiche e geopolitiche. Così, la Sardegna è speciale per via del suo differenziale di sviluppo rispetto al Continente; la Sicilia per stroncare il rischio separatista presente ancora negli anni della Costituente; il Sud Tirolo perché la sua autonomia deriva da obblighi internazionali; il Trentino per bilanciare in senso italiano, e all’interno di una regione “inventata”, la forte autonomia altoatesina imposta dal’Onu e garantita dall’Austria; la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia per la vicinanza rispettivamente con la Francia e la Yugoslavia che volevano tutelate le minoranze francofona, slovena e croata.
Insomma, la cultura comunista non concepiva e non permetteva il riconoscimento di specialità fondate sui caratteri nazionali e culturali della Sardegna, della Valle d’Aosta, del Friuli e del Sud Tirolo, sedi di lingua diverse da quella italiana. Nei primi tre casi solo imparentate con la lingua dello Stato, nel quarto caso neppure questo. Vale la pena ricordare ai molti smemorati la dura lotta del Pci in Sardegna contro l’autonomia dell’Isola nei primi anni dopo la guerra.
Nel pregiudizio di tanta parte della sinistra di matrice comunista e socialista, la lingua è solo un epifenomeno, qualcosa che non ha valore in sé e che vale solo se legata ai fenomeni economici e, al più, culturali. Tant’è che a fare compagnia all’amico Brunetta nella sua campagna contro la vetustà delle regioni speciali, è una parte importante della intelligentsia di sinistra. Ieri lo ha riconosciuto Andrea Pubusa, costituzionalista e intellettuale di spicco della sinistra sarda. La posizione del ministro, ha detto alla Nuova Sardegna, esiste “anche negli ambienti giuridici democratici”.
Gli elementi fondanti della specialità sarda (e anche delle altre regioni differenziate) continuerà ad esistere anche dopo che il gap di sviluppo dovesse essere superato. Lingua, cultura, storia, identità sono elementi ancora più forti della insularità, riconosciuta come dato incontrovertibile di svantaggio. Paradossalmente, i fondamenti della specialità sarda rimarrebbero anche nel fantascientifico caso di un ponte con la Penisola che facesse finire l’insularità della Sardegna.
Fino a quando, però, tali elementi non saranno riconosciuti nel nuovo Statuto sardo, la specialità della nostra autonomia sarà inevitabilmente soggetta agli assalti degli inguaribili economicisti e, l’amico Brunetta ci ricorda, non solo di essi. Di qui l’urgenza che la Sardegna si doti di un nuovo Statuto speciale che superi e si lasci alle spalle le tentazioni di ridurre lingua, cultura, identità, storia a sovrastrutture superflue e, comunque, ininfluenti nella definizione di specialità.
C’è, intorno al concetto di specialità, un equivoco di matrice prevalentemente comunista. Secondo tale cultura, le cinque regioni riconosciute speciali dalla Costituzione, deriverebbero la loro peculiarità da ragioni economiche e geopolitiche. Così, la Sardegna è speciale per via del suo differenziale di sviluppo rispetto al Continente; la Sicilia per stroncare il rischio separatista presente ancora negli anni della Costituente; il Sud Tirolo perché la sua autonomia deriva da obblighi internazionali; il Trentino per bilanciare in senso italiano, e all’interno di una regione “inventata”, la forte autonomia altoatesina imposta dal’Onu e garantita dall’Austria; la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia per la vicinanza rispettivamente con la Francia e la Yugoslavia che volevano tutelate le minoranze francofona, slovena e croata.
Insomma, la cultura comunista non concepiva e non permetteva il riconoscimento di specialità fondate sui caratteri nazionali e culturali della Sardegna, della Valle d’Aosta, del Friuli e del Sud Tirolo, sedi di lingua diverse da quella italiana. Nei primi tre casi solo imparentate con la lingua dello Stato, nel quarto caso neppure questo. Vale la pena ricordare ai molti smemorati la dura lotta del Pci in Sardegna contro l’autonomia dell’Isola nei primi anni dopo la guerra.
Nel pregiudizio di tanta parte della sinistra di matrice comunista e socialista, la lingua è solo un epifenomeno, qualcosa che non ha valore in sé e che vale solo se legata ai fenomeni economici e, al più, culturali. Tant’è che a fare compagnia all’amico Brunetta nella sua campagna contro la vetustà delle regioni speciali, è una parte importante della intelligentsia di sinistra. Ieri lo ha riconosciuto Andrea Pubusa, costituzionalista e intellettuale di spicco della sinistra sarda. La posizione del ministro, ha detto alla Nuova Sardegna, esiste “anche negli ambienti giuridici democratici”.
Gli elementi fondanti della specialità sarda (e anche delle altre regioni differenziate) continuerà ad esistere anche dopo che il gap di sviluppo dovesse essere superato. Lingua, cultura, storia, identità sono elementi ancora più forti della insularità, riconosciuta come dato incontrovertibile di svantaggio. Paradossalmente, i fondamenti della specialità sarda rimarrebbero anche nel fantascientifico caso di un ponte con la Penisola che facesse finire l’insularità della Sardegna.
Fino a quando, però, tali elementi non saranno riconosciuti nel nuovo Statuto sardo, la specialità della nostra autonomia sarà inevitabilmente soggetta agli assalti degli inguaribili economicisti e, l’amico Brunetta ci ricorda, non solo di essi. Di qui l’urgenza che la Sardegna si doti di un nuovo Statuto speciale che superi e si lasci alle spalle le tentazioni di ridurre lingua, cultura, identità, storia a sovrastrutture superflue e, comunque, ininfluenti nella definizione di specialità.
sabato 18 aprile 2009
Un piano del lavoro in cultura
È possibile mettere insieme la lotta alla disoccupazione e sviluppo della cultura? Io credo di sì, credo, insomma, che sia profondamente errato pensare che in una economia moderna si possa pensare alla cultura solo una volta sistemati i conti più urgenti. Pensare così e agire di conseguenza è il frutto di un’antica, e un po’ avvilente, filosofia industrialista, secondo cui è solo la produzione materiale a guidare tutti i processi.
I risultati, qui in Sardegna, sono sotto gli occhi di tutti: un’enorme mole di investimenti pubblici e privati ha creato una struttura industriale incapace di marciare in assenza di ulteriori contributi pubblici. Ha ragione il presidente Cappellacci, quando in un’intervista per il sito della Cgil, afferma: «Se avessi la bacchetta magica cancellerei le ciminiere del Sulcis, a patto di poterle rimpiazzare immediatamente con un progetto alternativo». Del resto è quanto io stesso, in questo blog, vado sostenendo da tempo, pensando che proprio in momenti di crisi acuta vale la pena di disegnare un nuovo modello di sviluppo legato alla nostra terra.
È all’interno di questo modello che io vedo possibile coniugare sviluppo dell’occupazione e sviluppo della cultura. Noi viviamo in un’Isola che possiede un patrimonio di beni culturali davvero impressionante, lascito dei nostri antichi dal Neolitico ad avantieri. Diecimila nuraghi, pozzi sacri, tombe dei giganti, monumenti ipogeici, città abitate e sviluppate dai fenici, vestigia romane e bizantine, chiese romaniche, pisane, lombarde, catalane, borghi medioevali di indicibile bellezza, resti della grande civiltà giudicale e via così elencando.
Si tratta di un immenso patrimonio largamente sconosciuto non solo fuori della Sardegna, ma spesso agli stessi sardi. I flussi turistici, per il momento marginali, ci dicono che una accorta politica di promozione potrebbe trasformare questa marginalità in occasione di importante crescita economica. Uno sviluppo che, dettaglio non da poco, non comporta consumo del territorio né rischio di inquinamenti né investimenti dall’incerto futuro.
Che cosa fare? Un’idea, un po’ keynesiana, potrebbe essere quella di trasformare i cosiddetti Lavoratori socialmente utili in operai addetti al recupero dei lasciti dei nostri antichi, naturalmente sotto la guida di archeologi, restauratori ed altri tecnici qualificati. La Regione spenderà, come ha sempre fatto nel passato, una mole di denaro non indifferente: è un atto di solidarietà pubblica che, a volte, rischia, però, di essere fine a se stesso e la cui pubblica utilità è spesso più nominalistico che altro. Questo denaro può essere meglio e più produttivamente speso nell’apertura dei cantieri che dicevo.
Si dirà che non è sufficiente ad un’opera di ripristino in grado di invogliare masse di visitatori, e questo è vero. Sono necessari altri investimenti (nel reclutamento di tecnici e studiosi, per esempio), ma questi non solo produrranno ricchezza e posti di lavoro, ma saranno ripagati da beni duraturi, fruibili da generazioni di turisti esterni ed interni. Potrebbe essere, questo, un primo tassello di quel progetto di sviluppo, alternativo ad una industrializzazione forzata e slegata dalla Sardegna che, lo vediamo sotto i nostri occhi, ha prodotto più disastri di quanti benefici abbia portato.
I risultati, qui in Sardegna, sono sotto gli occhi di tutti: un’enorme mole di investimenti pubblici e privati ha creato una struttura industriale incapace di marciare in assenza di ulteriori contributi pubblici. Ha ragione il presidente Cappellacci, quando in un’intervista per il sito della Cgil, afferma: «Se avessi la bacchetta magica cancellerei le ciminiere del Sulcis, a patto di poterle rimpiazzare immediatamente con un progetto alternativo». Del resto è quanto io stesso, in questo blog, vado sostenendo da tempo, pensando che proprio in momenti di crisi acuta vale la pena di disegnare un nuovo modello di sviluppo legato alla nostra terra.
È all’interno di questo modello che io vedo possibile coniugare sviluppo dell’occupazione e sviluppo della cultura. Noi viviamo in un’Isola che possiede un patrimonio di beni culturali davvero impressionante, lascito dei nostri antichi dal Neolitico ad avantieri. Diecimila nuraghi, pozzi sacri, tombe dei giganti, monumenti ipogeici, città abitate e sviluppate dai fenici, vestigia romane e bizantine, chiese romaniche, pisane, lombarde, catalane, borghi medioevali di indicibile bellezza, resti della grande civiltà giudicale e via così elencando.
Si tratta di un immenso patrimonio largamente sconosciuto non solo fuori della Sardegna, ma spesso agli stessi sardi. I flussi turistici, per il momento marginali, ci dicono che una accorta politica di promozione potrebbe trasformare questa marginalità in occasione di importante crescita economica. Uno sviluppo che, dettaglio non da poco, non comporta consumo del territorio né rischio di inquinamenti né investimenti dall’incerto futuro.
Che cosa fare? Un’idea, un po’ keynesiana, potrebbe essere quella di trasformare i cosiddetti Lavoratori socialmente utili in operai addetti al recupero dei lasciti dei nostri antichi, naturalmente sotto la guida di archeologi, restauratori ed altri tecnici qualificati. La Regione spenderà, come ha sempre fatto nel passato, una mole di denaro non indifferente: è un atto di solidarietà pubblica che, a volte, rischia, però, di essere fine a se stesso e la cui pubblica utilità è spesso più nominalistico che altro. Questo denaro può essere meglio e più produttivamente speso nell’apertura dei cantieri che dicevo.
Si dirà che non è sufficiente ad un’opera di ripristino in grado di invogliare masse di visitatori, e questo è vero. Sono necessari altri investimenti (nel reclutamento di tecnici e studiosi, per esempio), ma questi non solo produrranno ricchezza e posti di lavoro, ma saranno ripagati da beni duraturi, fruibili da generazioni di turisti esterni ed interni. Potrebbe essere, questo, un primo tassello di quel progetto di sviluppo, alternativo ad una industrializzazione forzata e slegata dalla Sardegna che, lo vediamo sotto i nostri occhi, ha prodotto più disastri di quanti benefici abbia portato.
venerdì 17 aprile 2009
Parco dell'Asinara, ma è la legge che va cambiata
La sinistra sassarese è in questi giorni alle prese con uno degli effetti di una delle leggi più centraliste che la sinistra italiana sia mai riuscita a produrre: la legge 394 sui parchi naturali. Il sindaco di Porto Torres e la presidente della Provincia di Sassari sono, infatti, in ambasce perché il Parco dell’Asinara è commissariato e, immancabilmente, se la prendono con il Governo Berlusconi. E già che ci sono, con il presidente della Sardegna Cappellacci.
Il primo, come si sa, si sta trastullando con alcune bagatelle come il terremoto dell’Aquila, il secondo perde il suo tempo dietro a una crisi economica che alla sua dimensione globale aggiunge la pesante eredità dei guasti provocati dalla passata giunta di centrosinistra. Ma, si sa: quando c’è da attaccare gli avversari, ogni scusa è buona.
Il Parco dell’Asinara, unito dalla legge di Edo Ronchi a quello del Gennargentu (proprio così), nacque nel 1997 sulla base di un marchingegno che lo scorporò da quello montano, dopo che l’allora presidente della giunta regionale, Palomba, firmò l’intesa con lo Stato. Il Parco del Gennargentu non è mai nato, ed è ormai sepolto, per la forte opposizione delle comunità interessate, contrarie alla 394 soprattutto perché essa affidava le gestione del territorio al governo centrale e cancellava i diritti di autogoverno dei comuni e delle loro popolazioni.
Dimenticando questo piccolo dettaglio della 394, voluta a Roma dalla sinistra e imposta in Sardegna da un presidente che tenne in nessun conto i comuni, il sindaco di PortoTorres sollecita la definizione “dell’organigramma dirigenziale” del Parco. È un suo diritto, naturalmente. Ma non si limita a questo: «Credo che sia giunto il momento di affidare la guida del parco a un rappresentante del territorio e per “territorio” intendo la città di Porto Torres. Non mi interessa a quale schieramento possa appartenere il futuro presidente del consiglio direttivo del Parco nazionale dell’Asinara: poco importa che sia di destra, di sinistra, di centro ma è importante che sia portotorrese. Questo perché sarebbe a conoscenza delle esigenze e delle aspettative della città mentre sarebbe controproducente un presidente nuovamente calato dall’alto».
Ma “un presidente calato dall’alto” è proprio quel che prevede la legge che la sua parte politica ha fortemente voluto e imposto. “Il Presidente è nominato con decreto del Ministro dell'ambiente”, dice infatti l’articolo 9 della Legge 394. Un legge che va assolutamente modificata, anche per rispetto del processo federale in atto nella Repubblica. È quello che proporrò con un mio disegno di legge entro breve tempo.
Il primo, come si sa, si sta trastullando con alcune bagatelle come il terremoto dell’Aquila, il secondo perde il suo tempo dietro a una crisi economica che alla sua dimensione globale aggiunge la pesante eredità dei guasti provocati dalla passata giunta di centrosinistra. Ma, si sa: quando c’è da attaccare gli avversari, ogni scusa è buona.
Il Parco dell’Asinara, unito dalla legge di Edo Ronchi a quello del Gennargentu (proprio così), nacque nel 1997 sulla base di un marchingegno che lo scorporò da quello montano, dopo che l’allora presidente della giunta regionale, Palomba, firmò l’intesa con lo Stato. Il Parco del Gennargentu non è mai nato, ed è ormai sepolto, per la forte opposizione delle comunità interessate, contrarie alla 394 soprattutto perché essa affidava le gestione del territorio al governo centrale e cancellava i diritti di autogoverno dei comuni e delle loro popolazioni.
Dimenticando questo piccolo dettaglio della 394, voluta a Roma dalla sinistra e imposta in Sardegna da un presidente che tenne in nessun conto i comuni, il sindaco di PortoTorres sollecita la definizione “dell’organigramma dirigenziale” del Parco. È un suo diritto, naturalmente. Ma non si limita a questo: «Credo che sia giunto il momento di affidare la guida del parco a un rappresentante del territorio e per “territorio” intendo la città di Porto Torres. Non mi interessa a quale schieramento possa appartenere il futuro presidente del consiglio direttivo del Parco nazionale dell’Asinara: poco importa che sia di destra, di sinistra, di centro ma è importante che sia portotorrese. Questo perché sarebbe a conoscenza delle esigenze e delle aspettative della città mentre sarebbe controproducente un presidente nuovamente calato dall’alto».
Ma “un presidente calato dall’alto” è proprio quel che prevede la legge che la sua parte politica ha fortemente voluto e imposto. “Il Presidente è nominato con decreto del Ministro dell'ambiente”, dice infatti l’articolo 9 della Legge 394. Un legge che va assolutamente modificata, anche per rispetto del processo federale in atto nella Repubblica. È quello che proporrò con un mio disegno di legge entro breve tempo.
mercoledì 15 aprile 2009
Tuvuxeddu: lo stupore degli indignati
Anche la questione di Tuvixeddu può essere risolta, è sufficiente restituire alla politica la sua funzione di mediatrice fra interessi diversi. Si sa di che si tratta: la passata giunta di centrosinistra aveva complicato tutto, imponendo una soluzione che non ha resistito ad una serie di ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, i quali, infatti, l’hanno bocciata. Il tutto con, per contorno, la condanna della Regione e di noi contribuenti a pagare le spese.
Capita, adesso, che il presidente della Commissione bilancio del Consiglio regionale, Paolo Maninchedda, abbia proposto che la Regione acquisti l’area di Tuvixeddu e che essa passi, insomma, dalla politica dell’inutile imposizione a quella della proposta.
Insieme al suo partito, il Psd’az,, l’amico Maninchedda aveva dovuto sopportare insulti che andavano dal “fascista” al “traditore” al “servo dei cementificatori” che, nell’immaginario della sinistra e dei suoi reggicoda, avrebbero governato il centrodestra. La prova di tale servaggio? Il fatto che anche lui aveva aspramente criticato la maniera poco legale e molto approssimativa con cui la Giunta di centrosinistra aveva pensato di affrontare la questione della salvaguardia di Tuvixeddu, imponendo l’insostenibile e cercando di “punire la proprietà privata”.
Gli avversari dei migliori, politicamente e persino antropologicamente parlando, non possono che essere i peggiori: quelli che cementificheranno le coste e permetteranno la distruzione di Tuvixeddu. Un quotidiano vicino al centrosinistra dà conto oggi della sua sorpresa per il fatto che il centrodestra sia diverso da quello che esso ha dipinto in tutta la campagna elettorale: “Colpo di scena in commissione” titola infatti. Come dire: “Questo proprio non ce l’aspettavamo”. Dello stesso tono anche le prime reazioni degli indignati in servizio permanente effettivo: è come se qualcuno abbia loro rotto un giocattolo con cui pensavano di potersi svagare per tutta la campagna elettorale che hanno cominciato la stessa notte del 17 febbraio.
Capita, adesso, che il presidente della Commissione bilancio del Consiglio regionale, Paolo Maninchedda, abbia proposto che la Regione acquisti l’area di Tuvixeddu e che essa passi, insomma, dalla politica dell’inutile imposizione a quella della proposta.
Insieme al suo partito, il Psd’az,, l’amico Maninchedda aveva dovuto sopportare insulti che andavano dal “fascista” al “traditore” al “servo dei cementificatori” che, nell’immaginario della sinistra e dei suoi reggicoda, avrebbero governato il centrodestra. La prova di tale servaggio? Il fatto che anche lui aveva aspramente criticato la maniera poco legale e molto approssimativa con cui la Giunta di centrosinistra aveva pensato di affrontare la questione della salvaguardia di Tuvixeddu, imponendo l’insostenibile e cercando di “punire la proprietà privata”.
Gli avversari dei migliori, politicamente e persino antropologicamente parlando, non possono che essere i peggiori: quelli che cementificheranno le coste e permetteranno la distruzione di Tuvixeddu. Un quotidiano vicino al centrosinistra dà conto oggi della sua sorpresa per il fatto che il centrodestra sia diverso da quello che esso ha dipinto in tutta la campagna elettorale: “Colpo di scena in commissione” titola infatti. Come dire: “Questo proprio non ce l’aspettavamo”. Dello stesso tono anche le prime reazioni degli indignati in servizio permanente effettivo: è come se qualcuno abbia loro rotto un giocattolo con cui pensavano di potersi svagare per tutta la campagna elettorale che hanno cominciato la stessa notte del 17 febbraio.
martedì 14 aprile 2009
Enrico Letta e la cattadrale da costruire
La bella metafora della costruzione della Cattedrale come capacità di pensare al futuro, usata nel suo saggio “Costruire una cattedrale”, appunto, serve ad Enrico Letta per criticare la realizzazione del suo partito, il Pd. A volte, anche gli avversari hanno buone idee; e questa lo è e non solo per un partito che sta pagando i suoi errori con un lento scivolamento verso la residualità.
La cattedrale, sostiene, è l’immagine delle imprese di lunga durata che attendono oggi la politica, l’economia e la finanza: bisogna andare oltre il «presentismo», l’agire solo per il presente senza disegni di prospettiva. C’è, in questa visione, il pericolo di ogni attesa, quasi messianica, delle magnifiche sorti e progressive del futuro che non può non essere in vista del “Sole dell’avvenire”.
Un rischio che, con il suo appello al suo partito a “unire i moderati e i progressisti”, Letta vuole naturalmente scansare per mirare – come dice oggi in una sua intervista con La Nuova Sardegna – ad una politica di lungo respiro: “Volevamo fare una cattedrale ma non ci siamo preoccupati della roccia su cui poggiarla, cioè i contenuti”. Ciò detto, e riconoscendo la suggestione dell’immagine, va aggiunto che allo stato attuale dell’ideologia di sinistra dominante nel pd, il suo è più che altro un sogno.
Nel saggio di Letta, si legge anche questa considerazione con la quale è difficile non concordare: “Il nostro Paese sembra credere così poco nel suo futuro da mettere a repentaglio uno degli elementi che costituiscono lo Stato: la popolazione. Da più di un decennio l’Italia oscilla su e giù, intorno alla soglia di rischio. Siamo da tempo, e strutturalmente, sotto i due figli per donna. Vale a dire sotto la quota base di mantenimento della popolazione”. Non avrei saputo dire meglio di così.
Ma chi, se non larga parte della sinistra che egli frequenta, è da tempo immemorabile immersa in una visione molto ideologica di controllo delle nascite? Chi, se non quella parte, si getta lancia in resta contro le parole della Chiesa, la quale sostiene che dall’aumento della popolazione non vengono pericoli? E che, semmai, il pericolo viene dalla concentrazione della ricchezza? Una politica che tenda ad arrestare la crisi delle nascite e ad invertire la tendenza sarebbe (anzi, è) del tutto condivisibile.
Ma Enrico Letta ha cominciato a riflettere a queste cose solo recentemente, da quando si trova all’opposizione? Perché non mi pare che quanto è stato al governo si sia dato molto da fare. Comunque d’accordo: è necessario porre rimedio agli effetti delle politiche laiciste. Dubito fortemente, però, che strumento efficace ed utile sia il Partito democratico. A meno che, liberandosi degli imponenti residui post-comunisti e laicisti, non si trasformi in un moderno partito europeo, a-ideologico, riformista e davvero moderato.
Cosa che – del resto Letta implicitamente lo riconosce – oggi non è. Di qui, credo, la risposta che egli dà al giornalista che gli chiede: “Il centrosinistra rischia di essere una minoranza strutturale?”. «Credo che lo sia già. A rischio è la stessa sopravvivenza” è la risposta.
La cattedrale, sostiene, è l’immagine delle imprese di lunga durata che attendono oggi la politica, l’economia e la finanza: bisogna andare oltre il «presentismo», l’agire solo per il presente senza disegni di prospettiva. C’è, in questa visione, il pericolo di ogni attesa, quasi messianica, delle magnifiche sorti e progressive del futuro che non può non essere in vista del “Sole dell’avvenire”.
Un rischio che, con il suo appello al suo partito a “unire i moderati e i progressisti”, Letta vuole naturalmente scansare per mirare – come dice oggi in una sua intervista con La Nuova Sardegna – ad una politica di lungo respiro: “Volevamo fare una cattedrale ma non ci siamo preoccupati della roccia su cui poggiarla, cioè i contenuti”. Ciò detto, e riconoscendo la suggestione dell’immagine, va aggiunto che allo stato attuale dell’ideologia di sinistra dominante nel pd, il suo è più che altro un sogno.
Nel saggio di Letta, si legge anche questa considerazione con la quale è difficile non concordare: “Il nostro Paese sembra credere così poco nel suo futuro da mettere a repentaglio uno degli elementi che costituiscono lo Stato: la popolazione. Da più di un decennio l’Italia oscilla su e giù, intorno alla soglia di rischio. Siamo da tempo, e strutturalmente, sotto i due figli per donna. Vale a dire sotto la quota base di mantenimento della popolazione”. Non avrei saputo dire meglio di così.
Ma chi, se non larga parte della sinistra che egli frequenta, è da tempo immemorabile immersa in una visione molto ideologica di controllo delle nascite? Chi, se non quella parte, si getta lancia in resta contro le parole della Chiesa, la quale sostiene che dall’aumento della popolazione non vengono pericoli? E che, semmai, il pericolo viene dalla concentrazione della ricchezza? Una politica che tenda ad arrestare la crisi delle nascite e ad invertire la tendenza sarebbe (anzi, è) del tutto condivisibile.
Ma Enrico Letta ha cominciato a riflettere a queste cose solo recentemente, da quando si trova all’opposizione? Perché non mi pare che quanto è stato al governo si sia dato molto da fare. Comunque d’accordo: è necessario porre rimedio agli effetti delle politiche laiciste. Dubito fortemente, però, che strumento efficace ed utile sia il Partito democratico. A meno che, liberandosi degli imponenti residui post-comunisti e laicisti, non si trasformi in un moderno partito europeo, a-ideologico, riformista e davvero moderato.
Cosa che – del resto Letta implicitamente lo riconosce – oggi non è. Di qui, credo, la risposta che egli dà al giornalista che gli chiede: “Il centrosinistra rischia di essere una minoranza strutturale?”. «Credo che lo sia già. A rischio è la stessa sopravvivenza” è la risposta.
sabato 11 aprile 2009
Anche l'Union Valdotaine alleata con il Pdl
La notizia non ha avuto granché rilievo sulla stampa, ma dopo il Partito sardo un altro partito autonomista ha deciso che la sua azione politica si dispiega meglio in alleanza con il Pdl. È di ieri la notizia che alle prossime elezioni europee l’Union Valdotaine sarà alleata con il centro-destra. Così come il più antico partito in Sardegna e come la SVP nel Sud Tirolo, l’Union è il movimento con la più solida tradizione autonomista nella Repubblica italiana.
Storicamente alleato con la sinistra e con il centrosinistra, ha rivendicato il suo non essere né di sinistra né di destra e di badare agli interessi del popolo valdostano. Il che ha probabilmente indotto il Pci prima e i suoi eredi dopo a dare per acquisito che le mouvement era ormai “roba sua”. Altrove, in Europa, quello dell’Union è stato l’atteggiamento di partiti come la catalana Convergencia i unió che ha appoggiato governi socialisti e governi popolari secondo le convenienze della Catalogna, o di partiti come il Partito nazionalista basco.
La possibilità che la Vallée sia rappresentata nel Parlamento europeo risponde, ovviamente, agli interessi di quella regione autonoma, che tale si proclamò ancor prima che si riunisse la Costituente, la quale poi riconobbe il fatto. Gli strilli al tradimento che qui e là si leggono nei blog e nei siti controllati dalla sinistra non solo denunciano un atteggiamento proprietario – più o meno lo stesso manifestato in Sardegna dopo la scelta del Psd’az – ma mostrano una proterva incapacità a porsi una molto semplice domanda: “Che cosa c’è nella sinistra che rende la sua vicinanza sempre più ostica ai movimenti autonomisti?”.
Storicamente alleato con la sinistra e con il centrosinistra, ha rivendicato il suo non essere né di sinistra né di destra e di badare agli interessi del popolo valdostano. Il che ha probabilmente indotto il Pci prima e i suoi eredi dopo a dare per acquisito che le mouvement era ormai “roba sua”. Altrove, in Europa, quello dell’Union è stato l’atteggiamento di partiti come la catalana Convergencia i unió che ha appoggiato governi socialisti e governi popolari secondo le convenienze della Catalogna, o di partiti come il Partito nazionalista basco.
La possibilità che la Vallée sia rappresentata nel Parlamento europeo risponde, ovviamente, agli interessi di quella regione autonoma, che tale si proclamò ancor prima che si riunisse la Costituente, la quale poi riconobbe il fatto. Gli strilli al tradimento che qui e là si leggono nei blog e nei siti controllati dalla sinistra non solo denunciano un atteggiamento proprietario – più o meno lo stesso manifestato in Sardegna dopo la scelta del Psd’az – ma mostrano una proterva incapacità a porsi una molto semplice domanda: “Che cosa c’è nella sinistra che rende la sua vicinanza sempre più ostica ai movimenti autonomisti?”.
giovedì 9 aprile 2009
La necropoli di Tuvixeddu e gli agitprop
Gli ultimi strascichi di campagna elettorale, a quasi due mesi dal voto, riguardano il preteso assalto alla necropoli punica di Tuvixeddu. C’è chi, vittima inconsapevole di una disinformazione manovrata, cerca di capire le cose e agitprop che pensano di poter continuare, appunto, con l’agitazione e la propaganda. Bersaglio di tale lavaggio del cervello è la volontà che i nuovi governanti della Sardegna avrebbero di cancellare un lascito storico enorme, attraverso la sua cementificazione.
Dietro c’è l’abusato furore ideologico degli antropologicamente migliori (la sinistra) contro gli antropologicamente predestinati al malaffare (tutti gli altri). Quale interesse possano avere “gli altri” a distruggere un patrimonio culturale come la necropoli di Tuvixeddu è un dettaglio insignificante per “i migliori”. Fa il paio, questo atteggiamento prevenuto e pregiudiziale, con lo scenario apocalittico disegnato dagli sconfitti l’indomani del cambio di governo: le coste massacrate dal cemento, l’Isola sede di quattro centrali nucleari, l’abbandono dei beni culturali e altre nefandezze simili.
Per Tuvixeddu, lo scatenarsi dell’indignazione nasconde, in realtà, la necessità e la fretta di nascondere scheletri nell’armadio del centrosinistra. Scheletri che diverse inchieste della magistratura tenta di scoprire. Nessuna condanna preventiva, naturalmente, né la sicurezza che gli errori politici del governo regionale di centrosinistra abbiano rilevanza penale. Contrariamente ai furenti difensori di Tuvixeddu, personalmente continuo ad essere garantista e a pensare che sia onere della magistratura appurare se reati sono stati commessi.
Ma non c’è dubbio che il passato governo regionale abbia anche in questo campo commesso gravi errori che, chi sa per quanto, continueremo a pagare. Non in termini di distruzione della necropoli (una sciocchezza, posto che la tutela dei beni culturali ha leggi da rispettare), ma in termini di credibilità della politica.
Anche i suoi atti, per quanto giusti si ritengano, sono soggetti alla legge che, a dispetto di quanto la giunta precedente ha creduto, non è una variabile dipendente da chi governa. Anche le azioni di salvaguardia di Tuvixeddu (ammesso che i dubbi del centrosinistra e dei suoi corifei fossero fondati) dovevano seguire i dettami della legge. Chi si sentiva antropologicamente migliore, e per definizione nel giusto, ha pensato di mirare a quel che riteneva la sostanza delle cose, liberandosi delle pastoie della legge. Tar, Consiglio di Stato, uomini di legge non sono, come era loro dovere, entrati nel merito: hanno solo sancito che l’operato della giunta di centrosinistra è stato illegittimo. Ecco perché Legambiente, Italia Nostra, Cagliari Social Forum, Wwf, assessori del passato governo di centrosinistra e quanti altri anche recentemente hanno manifestato in piazza per “la salvezza di Tuvixeddu” dovrebbero chieder conto alla giunta precedente degli errori di presunzione fatti negli anni scorsi.
Si liberi il campo da queste inutili agitazione e propaganda, si ascoltino le ragioni di tutti, imprese incluse, e non sarà difficile trovare la soluzione migliore per la salvezza della grande e importante necropoli punica.
Dietro c’è l’abusato furore ideologico degli antropologicamente migliori (la sinistra) contro gli antropologicamente predestinati al malaffare (tutti gli altri). Quale interesse possano avere “gli altri” a distruggere un patrimonio culturale come la necropoli di Tuvixeddu è un dettaglio insignificante per “i migliori”. Fa il paio, questo atteggiamento prevenuto e pregiudiziale, con lo scenario apocalittico disegnato dagli sconfitti l’indomani del cambio di governo: le coste massacrate dal cemento, l’Isola sede di quattro centrali nucleari, l’abbandono dei beni culturali e altre nefandezze simili.
Per Tuvixeddu, lo scatenarsi dell’indignazione nasconde, in realtà, la necessità e la fretta di nascondere scheletri nell’armadio del centrosinistra. Scheletri che diverse inchieste della magistratura tenta di scoprire. Nessuna condanna preventiva, naturalmente, né la sicurezza che gli errori politici del governo regionale di centrosinistra abbiano rilevanza penale. Contrariamente ai furenti difensori di Tuvixeddu, personalmente continuo ad essere garantista e a pensare che sia onere della magistratura appurare se reati sono stati commessi.
Ma non c’è dubbio che il passato governo regionale abbia anche in questo campo commesso gravi errori che, chi sa per quanto, continueremo a pagare. Non in termini di distruzione della necropoli (una sciocchezza, posto che la tutela dei beni culturali ha leggi da rispettare), ma in termini di credibilità della politica.
Anche i suoi atti, per quanto giusti si ritengano, sono soggetti alla legge che, a dispetto di quanto la giunta precedente ha creduto, non è una variabile dipendente da chi governa. Anche le azioni di salvaguardia di Tuvixeddu (ammesso che i dubbi del centrosinistra e dei suoi corifei fossero fondati) dovevano seguire i dettami della legge. Chi si sentiva antropologicamente migliore, e per definizione nel giusto, ha pensato di mirare a quel che riteneva la sostanza delle cose, liberandosi delle pastoie della legge. Tar, Consiglio di Stato, uomini di legge non sono, come era loro dovere, entrati nel merito: hanno solo sancito che l’operato della giunta di centrosinistra è stato illegittimo. Ecco perché Legambiente, Italia Nostra, Cagliari Social Forum, Wwf, assessori del passato governo di centrosinistra e quanti altri anche recentemente hanno manifestato in piazza per “la salvezza di Tuvixeddu” dovrebbero chieder conto alla giunta precedente degli errori di presunzione fatti negli anni scorsi.
Si liberi il campo da queste inutili agitazione e propaganda, si ascoltino le ragioni di tutti, imprese incluse, e non sarà difficile trovare la soluzione migliore per la salvezza della grande e importante necropoli punica.
mercoledì 8 aprile 2009
"Su Re" di Columbu e i Pilato regionali
Tra poco, Giovani Columbu riprenderà a girare il suo Su Re, un film su Gesù ambientato in Sardegna e parlato in sardo. Figlio di un sardo come Michele Columbu, Giovanni ha tirato fuori il meglio del carattere dei suoi concittadini, il coraggio di dire di no alla sicurezza dei soldi quando assortiti a condizioni non accettabili, la tenacia testarda quanto basta, l’inventiva. In altre parole quell’impasto di valori che si chiama balentia.
La Chiesa sarda, amministratori sensibili, cittadini disposti a mettere del loro hanno capito e fatto proprio il progetto del regista di Arcipelaghi, uno dei film più straordinari che abbiano mai parlato della nostra Isola. Quel che è mancato è l’aiuto della Regione, che per altri registi è stata prodiga di denaro, cooproducendo un film di Mereu e uno sceneggiato scritto da Fois.
Che cosa, in questa vicenda davvero poco edificante, abbia giocato a sfavore di un’impresa come quella di Columbu, non è facile capire. Se il fatto che il film sia parlato in sardo, se quello che Giovanni Columbu non si sente – e non è – un “intellettuale organico”, se il fatto che egli vuole raccontare una storia sarda senza concedere agli stereotipi di Sardegna che hanno fatto e fanno la fortuna di alcuni, chi lo sa?
Resta il fatto che, mi auguro, Su Re alla fine sarà girato. Più per forza di volontà che per aiuti della mano pubblica, larga di maniche quando vuole. Probabilmente sarebbe il caso, ora, di invertire la tendenza a premiare gli amici di partito.
La Chiesa sarda, amministratori sensibili, cittadini disposti a mettere del loro hanno capito e fatto proprio il progetto del regista di Arcipelaghi, uno dei film più straordinari che abbiano mai parlato della nostra Isola. Quel che è mancato è l’aiuto della Regione, che per altri registi è stata prodiga di denaro, cooproducendo un film di Mereu e uno sceneggiato scritto da Fois.
Che cosa, in questa vicenda davvero poco edificante, abbia giocato a sfavore di un’impresa come quella di Columbu, non è facile capire. Se il fatto che il film sia parlato in sardo, se quello che Giovanni Columbu non si sente – e non è – un “intellettuale organico”, se il fatto che egli vuole raccontare una storia sarda senza concedere agli stereotipi di Sardegna che hanno fatto e fanno la fortuna di alcuni, chi lo sa?
Resta il fatto che, mi auguro, Su Re alla fine sarà girato. Più per forza di volontà che per aiuti della mano pubblica, larga di maniche quando vuole. Probabilmente sarebbe il caso, ora, di invertire la tendenza a premiare gli amici di partito.
martedì 7 aprile 2009
Lo stemma sardo a pretesto di una polemichetta
Lo stemma della Sardegna, adottato 56 anni fa, può piacere o non essere di nostro gusto, ma è qualcosa che accompagna la nostra storia fin dal 1324. Una polemica politica e mediatica di bassissima lega ha accompagnato, e ancora oggi accompagna, la decisione del governo sardo si ripristinarlo come segno distintivo della Regione, della massima istituzione della Sardegna, cioè. La bandiera sarda, ovviamente, non c’entra: continua ad essere quella che fu definita e adottata dal Consiglio regionale nel 1999.
Che di polemichetta strumentale si tratti è immediatamente lampante, visto che per contrastare la decisione si fa ricorso alla disinformazione e alla mala fede. I critici più fegatosi, infatti, non si limitano, come è loro diritto, a dire che a loro lo stemma del 1952 non piace e che, nel caso, preferirebbero uno stemma che richiami esplicitamente la bandiera sarda. Ricorrono alla mala fede per asserire che la Regione ha abolito la bandiera sarda. “Una delle prime delibere firmate” scrive un quotidiano telematico “prevede la sostituzione della bandiera sarda”.
La cosa è palesemente falsa. Ma c’è chi non bada a spese, né si preoccupa del ridicolo, pur di sostenere una tesi campata per aria. Una legge, come quella sulla bandiera sarda, può essere abolita con un’altra legge, non con una delibera di Giunta. È quello che fece nel 2005 la giunta di centrosinistra, cancellando lo stemma adottato nel 1952 con decreto del presidente della Repubblica e inserendo come logo della Regione la bandiera della Sardegna. Il centro sinistra era cosciente della illegittimità del provvedimento, tant’è che, prima della delibera, la Giunta varò un disegno di legge ad hoc. Peccato che questo ddl, a quel che si ricava dal sito del Consiglio regionale, non fu mai trasformato in legge.
Queste cose, naturalmente, sono scritte nella delibera del 24 marzo 2009. L’immagine della bandiera fu adottato “quale simbolo sostitutivo dello stemma pur non essendo intervenuta alcuna modifica normativa che abbia sancito la sostituzione di detto simbolo con quello della bandiera”. Una lettura non prevenuta della delibera avrebbe evitato una polemica molto pretestuosa e assai poco fondata. O meglio, fondata solo su una rabbiosa voglia di rivincita con tutti i mezzi, quelli dell’ignoranza dei fatti in primo luogo.
Dove stia lo scandalo della riadozione di uno stemma, è difficile capire. Non solo molti stati hanno accanto alla propria bandiera anche uno stemma, come è il caso dell’Italia. Ma anche nazionalità dello stato spagnolo hanno stemma e bandiera, come capita nel Paese basco che ha uno stemma istituzionale (nella foto in alto) e la propria bandiera, la Ikuriña (nella foto qui sotto). Ma, asseriscono, i critici prevenuti, nello stemma (che è poi quello del Regno di Sardegna nel 1600) i mori hanno gli occhi bendati. Gli studiosi sostengono che quel segno bianco sugli occhi è dovuto alla difficoltà incontrata dagli stampatori di agire con precisione.
Si può, naturalmente, intervenire sullo stemma del 1952 e spostare la benda dei Quattro mori sulla fronte, come è nella nostra bandiera. Ma per farlo bisogna agire secondo legge, non secondo una approssimativa delibera di Giunta.
Che di polemichetta strumentale si tratti è immediatamente lampante, visto che per contrastare la decisione si fa ricorso alla disinformazione e alla mala fede. I critici più fegatosi, infatti, non si limitano, come è loro diritto, a dire che a loro lo stemma del 1952 non piace e che, nel caso, preferirebbero uno stemma che richiami esplicitamente la bandiera sarda. Ricorrono alla mala fede per asserire che la Regione ha abolito la bandiera sarda. “Una delle prime delibere firmate” scrive un quotidiano telematico “prevede la sostituzione della bandiera sarda”.
La cosa è palesemente falsa. Ma c’è chi non bada a spese, né si preoccupa del ridicolo, pur di sostenere una tesi campata per aria. Una legge, come quella sulla bandiera sarda, può essere abolita con un’altra legge, non con una delibera di Giunta. È quello che fece nel 2005 la giunta di centrosinistra, cancellando lo stemma adottato nel 1952 con decreto del presidente della Repubblica e inserendo come logo della Regione la bandiera della Sardegna. Il centro sinistra era cosciente della illegittimità del provvedimento, tant’è che, prima della delibera, la Giunta varò un disegno di legge ad hoc. Peccato che questo ddl, a quel che si ricava dal sito del Consiglio regionale, non fu mai trasformato in legge.
Queste cose, naturalmente, sono scritte nella delibera del 24 marzo 2009. L’immagine della bandiera fu adottato “quale simbolo sostitutivo dello stemma pur non essendo intervenuta alcuna modifica normativa che abbia sancito la sostituzione di detto simbolo con quello della bandiera”. Una lettura non prevenuta della delibera avrebbe evitato una polemica molto pretestuosa e assai poco fondata. O meglio, fondata solo su una rabbiosa voglia di rivincita con tutti i mezzi, quelli dell’ignoranza dei fatti in primo luogo.
Dove stia lo scandalo della riadozione di uno stemma, è difficile capire. Non solo molti stati hanno accanto alla propria bandiera anche uno stemma, come è il caso dell’Italia. Ma anche nazionalità dello stato spagnolo hanno stemma e bandiera, come capita nel Paese basco che ha uno stemma istituzionale (nella foto in alto) e la propria bandiera, la Ikuriña (nella foto qui sotto). Ma, asseriscono, i critici prevenuti, nello stemma (che è poi quello del Regno di Sardegna nel 1600) i mori hanno gli occhi bendati. Gli studiosi sostengono che quel segno bianco sugli occhi è dovuto alla difficoltà incontrata dagli stampatori di agire con precisione.
Si può, naturalmente, intervenire sullo stemma del 1952 e spostare la benda dei Quattro mori sulla fronte, come è nella nostra bandiera. Ma per farlo bisogna agire secondo legge, non secondo una approssimativa delibera di Giunta.
venerdì 3 aprile 2009
G8, furori ideologici e cultura del popolo sardo
Mettiamo che i Caruso, gli Angeletti e gli altri vati duri e puri dell’antiglobalizzazione ottengano ciò che chiedono: la disdetta del G8 della Maddalena. Come la metterebbero con i disoccupati sardi che hanno trovato lavoro grazie all’incontro internazionale, gli operai impegnati nelle costruzioni, i lavoratori che continueranno ad essere occupati nelle attività promosse alla Maddalena e dintorni? Loro che si fanno vanto di essere dalla parte di chi lavora e di chi il lavoro lo cerca?
Quando l’ideologia non bada a spese e il cervello lascia il predominio alle viscere può capitare di tutto: anche che ci si impegni a danneggiare gravemente coloro che si dice di voler proteggere. La storia del fondamentalismo è densa di contraddizioni del genere: Stalin massacrò i kulaki per proteggerli dai cattivi influssi della ideologia borghese, i talebani assassinano i loro connazionali per evitar loro di cadere preda dell’occidentalismo, i Roberspierre cercarono di sterminare gli abitanti della Vandea che non avevano capito quanto grande e liberatoria fossero gli ideali giacobini.
Naturalmente, lì si trattò di una tragedia immane, qui di piccolo cabotaggio politico, per di più teso a conquistare qualche consenso fra i disperati. Liberissimi di manifestare la loro opposizione al G8, va da sé, purché in maniera pacifica e rispettosa di chi non la pensa come loro. Con essi è impresa disperata ragionare sul fatto che gli aborriti vertici internazionali, come il G20 conclusosi ieri a Londra, a volte segnano svolte epocali. Dopo gli impegni presi dai leader dei venti paesi più ricchi, il mondo non sarà più quello di ieri e la minaccia della crisi incombente meno inarrestabile. Non si tratta di dettagli. Con chi è mosso da pulsioni viscerali, pur riconoscendo loro il diritto di farlo, il dialogo è, se non impossibile, decisamente difficile.
C’è, però, nelle minacce di sabotaggio del G8 da parte dei noglobal meno riflessivi, quelli che non vogliono limitare la protesta a un legittimo dissenso, qualcosa che incide pesantemente sulla cultura del popolo sardo e, soprattutto, sul suo diritto ad essere ospitale. È nel nostro costume ospitare. Non è un dettaglio che nella nostra lingua istràngiu voglia dire, insieme, straniero e ospite. I grandi della Terra sono nostri ospiti perché ad invitarli sono stati il presidente uscente della Sardegna e quello appena eletto. Come sempre capita nella nostra cultura, l’ospite è sempre gradito, e lo è ancora di più se con sé porta doni. Come faranno i grandi della Terra, portando alla Sardegna il bene prezioso del suo riconoscimento, la sua visibilità internazionale, la considerazione della sua cultura millenaria.
Non sono ospiti graditi i prepotenti che vorrebbero imporci la loro concezione del mondo; sgraditi perché arroganti e perché pronti a calpestare il nostro diritto ad ospitare chi viene in pace e da amico. Non abbiamo mai chiesto il permesso di poter esercitare questo nostro diritto, non lo faremo neppure in questa occasione.
Quando l’ideologia non bada a spese e il cervello lascia il predominio alle viscere può capitare di tutto: anche che ci si impegni a danneggiare gravemente coloro che si dice di voler proteggere. La storia del fondamentalismo è densa di contraddizioni del genere: Stalin massacrò i kulaki per proteggerli dai cattivi influssi della ideologia borghese, i talebani assassinano i loro connazionali per evitar loro di cadere preda dell’occidentalismo, i Roberspierre cercarono di sterminare gli abitanti della Vandea che non avevano capito quanto grande e liberatoria fossero gli ideali giacobini.
Naturalmente, lì si trattò di una tragedia immane, qui di piccolo cabotaggio politico, per di più teso a conquistare qualche consenso fra i disperati. Liberissimi di manifestare la loro opposizione al G8, va da sé, purché in maniera pacifica e rispettosa di chi non la pensa come loro. Con essi è impresa disperata ragionare sul fatto che gli aborriti vertici internazionali, come il G20 conclusosi ieri a Londra, a volte segnano svolte epocali. Dopo gli impegni presi dai leader dei venti paesi più ricchi, il mondo non sarà più quello di ieri e la minaccia della crisi incombente meno inarrestabile. Non si tratta di dettagli. Con chi è mosso da pulsioni viscerali, pur riconoscendo loro il diritto di farlo, il dialogo è, se non impossibile, decisamente difficile.
C’è, però, nelle minacce di sabotaggio del G8 da parte dei noglobal meno riflessivi, quelli che non vogliono limitare la protesta a un legittimo dissenso, qualcosa che incide pesantemente sulla cultura del popolo sardo e, soprattutto, sul suo diritto ad essere ospitale. È nel nostro costume ospitare. Non è un dettaglio che nella nostra lingua istràngiu voglia dire, insieme, straniero e ospite. I grandi della Terra sono nostri ospiti perché ad invitarli sono stati il presidente uscente della Sardegna e quello appena eletto. Come sempre capita nella nostra cultura, l’ospite è sempre gradito, e lo è ancora di più se con sé porta doni. Come faranno i grandi della Terra, portando alla Sardegna il bene prezioso del suo riconoscimento, la sua visibilità internazionale, la considerazione della sua cultura millenaria.
Non sono ospiti graditi i prepotenti che vorrebbero imporci la loro concezione del mondo; sgraditi perché arroganti e perché pronti a calpestare il nostro diritto ad ospitare chi viene in pace e da amico. Non abbiamo mai chiesto il permesso di poter esercitare questo nostro diritto, non lo faremo neppure in questa occasione.
giovedì 2 aprile 2009
Quella gatta frettolosa del Pd
La gatta frettolosa, si sa, fece i gattini ciechi. Lo stesso sta capitando al segretario de Pd con il decreto sulla casa: frettoloso come è stato nello strillargli contro, si trova ora a dover gestire figli che hanno perso il senso dell’orientamento. Leggendo oggi le dichiarazioni del sindaco di Carbonia, Tore Cherchi, che a nome dell’Associazione dei comuni sardi ha approvato il provvedimento governativo, c’è da rimanere sconcertati. Lo stesso capita leggendo le prese di posizione dei presidenti delle regioni di centro sinistra, alcuni dei quali, per la verità, avevano colto con imbarazzo la levata di scudi pregiudiziale e prevenuta dell’on. Franceschini.
È comprensibile che sindaci e presidenti regionali siano stati per alcune settimane combattuti fra fedeltà al partito e fedeltà alle comunità che amministrano e governano, e che conoscono molto meglio di Franceschini. La scelta per il sì è oggi motivata, a loro dire, dall’aver ottenuto dei miglioramenti che erano già nella logica delle cose e, soprattutto, nell’inizio del percorso scelto dal governo: concordare con gli enti locali e con le regioni il testo definitivo.
Salvo ai prevenuti e a chi dell’indignazione a priori contro Berlusconi fa una ragione di esistenza, era chiaro a tutti che il Governo non avrebbe potuto, ammesso l’avesse voluto, fare come la Costituzione se non esistesse. I pregiudizi non hanno vinto assolutamente nulla: tutto è andato come previsto, con il governo dello Stato che concorda con i comuni e con le regioni misure che incidono sui poteri e le competenze di tutte le componenti della Repubblica, come vuole la Costituzione che, non casualmente, parla di “principio di leale collaborazione”.
Se il Pd e la sua alleata Idv si convincessero finalmente che nessuno, certo non il governo della Repubblica, ha alcun interesse ad attentare alla Costituzione, e imparassero a svolgere con serietà il loro ruolo di apposizione democratica, ne guadagnerebbero le istituzioni, la politica e, in definitiva, i cittadini.
È comprensibile che sindaci e presidenti regionali siano stati per alcune settimane combattuti fra fedeltà al partito e fedeltà alle comunità che amministrano e governano, e che conoscono molto meglio di Franceschini. La scelta per il sì è oggi motivata, a loro dire, dall’aver ottenuto dei miglioramenti che erano già nella logica delle cose e, soprattutto, nell’inizio del percorso scelto dal governo: concordare con gli enti locali e con le regioni il testo definitivo.
Salvo ai prevenuti e a chi dell’indignazione a priori contro Berlusconi fa una ragione di esistenza, era chiaro a tutti che il Governo non avrebbe potuto, ammesso l’avesse voluto, fare come la Costituzione se non esistesse. I pregiudizi non hanno vinto assolutamente nulla: tutto è andato come previsto, con il governo dello Stato che concorda con i comuni e con le regioni misure che incidono sui poteri e le competenze di tutte le componenti della Repubblica, come vuole la Costituzione che, non casualmente, parla di “principio di leale collaborazione”.
Se il Pd e la sua alleata Idv si convincessero finalmente che nessuno, certo non il governo della Repubblica, ha alcun interesse ad attentare alla Costituzione, e imparassero a svolgere con serietà il loro ruolo di apposizione democratica, ne guadagnerebbero le istituzioni, la politica e, in definitiva, i cittadini.
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