Una classe dirigente che si rispetti, sia quella politica sia quella imprenditoriale sia quella sindacale e insieme ad esse l’intellettualità sarda, deve saper cogliere la crisi in atto (e ancor più quella che si preannuncia) per cambiare completamente registro. Dalla crisi si può uscire immaginando e progettando tutti insieme un modello di sviluppo nuovo ed originale. Starei per dire un nuovo modello di civiltà che punti al massimo grado di prosperità per la Sardegna.
Purtroppo, da quel qui e là si legge, la dura lezione che questo modello di industrializzazione ci ha dato, non sembra in grado di far cambiare idea a chi non sa uscire dal conosciuto e anzi insiste a sognare e a subire una reindustrializzazione purché sia, paracadutata senza che nei territori designati esistano vocazione e condizioni di mercato. Un modello di civiltà per la Sardegna che non sia tributario della buona sorte, dei contributi racimolati qua e là, della disponibilità di imprenditori a creare fragili posti di lavoro pagati con denaro pubblico, non può non fondarsi sulle risorse materiali ed immateriali dell’Isola.
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