mercoledì 23 dicembre 2009

Auguri per un anno senza più veleni

Auguri a tutti i lettori del mio blog, ma proprio a tutti. Agli avversari che mi onorano della loro attenzione, a chi qualche volta trova condivisibile quanto scrivo e a chi, invece, non lo condivide mai. Agli amici, tantissimi, che mi leggono e non intervengono, forse pensando che la condivisione non solleciti, di per sé, l'interlocuzione.
C'è in giro, in Sardegna ma non solo, un clima diverso, più disteso fra chi governa e chi si oppone. C'è voluta l'aggressione a Berlusconi, perché gran parte dell'opposizione e, perché no?, di parte della maggioranza, comprendessero come lo scontro per lo scontro e l'avvelenamento della politica inevitabilmente portasse alla violenza. Forse, come ha detto il presidente del Consiglio, il suo dolore non è stato invano. Gli avversari, se questo clima continuerà a dare buoni frutti, gli avversari torneranno ad essere avversari e non nemici.
C'è però un problema e sta in chi, per cinismo e per calcoli elettorali, da questo clima si vuol tirare fuori. C'è chi ha fatto i conti (ne ho avuto notizia da un dibattito fra giornalisti su La7): l'area di chi non si rassegna alla civiltà dei rapporti politici è del 25 per cento del corpo elettorale. Ed è lì che il dipietrismo vuol pescare consensi alzando costantemente il livello dell'estremismo per ora solo parolaio. Si tratta di un fenomeno assai ben conosciuto dalla scienza politica: ha prodotto negli anni il poujadismo e i fenomeni Le Pen, British National Party, il Jobbik ungherese, l'austriaco Joerg Haider, l'Ataka bulgaro, etc. Tutti straordinariamente capaci di solleticare le pulsioni giustizialiste di alcuni strati delle popolazioni.
Di Pietro sa come utilizzare elettoralmente questa voglia di forca, anche se poi, tartufescamente, si indigna con un suo compagno di partito che di dice pronto a scagliare contro Berlusconi tante statuette quanti operai saranno licenziati a Termini Imerese. Suoi fans hanno lanciato una raccolta di firme sotto una denuncia alla Procura di Milano facendo propria l'infame sospetto che il primo ministro abbia organizzato l'aggressione. Un giornalista del gruppo editoriale autore della campagna mediatica contro il premier ha avocato qualche giorno fa lo spettro dell'incendio del Reichstad, organizzato dai nazisti per far vincere Hitler.
Questa e non altre è una emergenza democratica, purtroppo sottovalutata dal maggiore partito d'opposizione. Ma lo è. In Francia, quando Le Pen superò di voti il Partito socialista, entrando in ballottaggio con Chirac, i socialisti non ci pensarono più di un momento prima di invitare i propri elettori a far convergere i loro voti sul candidato gollista, consentendo la sconfitta di Le Pen. Capirono, ovviamente, che l'unità repubblicana era indispensabile per battere chi avrebbe trascinato la Francia in una pericolosa avventura totalitaria.
Non ostante tutto, ho fatto i miei auguri ai colleghi amici di Di Pietro. Molti li hanno accettati e contraccambiati, ma altri li hanno rifiutati senza rendersi conto del danno che facevano non a me ma a loro stessi.

venerdì 18 dicembre 2009

La Sassari-Olbia in dirittura d'arrivo. Continuiamo a vigilare

La questione della Sassari-Olbia ha dunque avuto una importante svolta con la messa a disposizione dei primi 162 milioni di euro e con la conseguente decisione di usare per la sua costruzione le modalità accelerate previste per il G8 ed impiegate nella ricostruzione in Abruzzo. Gli altri 470 milioni, stanziati, seguiranno per il completamento, dice una persona attendibile come Bertolaso, entro il 2014. Si tratta di un primo successo – non totale – di una grande mobilitazione popolare unitaria e della determinazione con cui, senza inutili strilli e agitazioni, il governo sardo ha seguito la vicenda.
L'opposizione, politica e mediatica (spesso interdipendenti, e questo non fa bene ai media), dopo aver allarmato l'opinione pubblica con toni esasperati, oggi è costretta a cimentarsi in quel in cui riesce meglio: cercare il pelo nell'uovo, rispolverare gli slogan sessantottini del “tutto e subito”. L'importante primo successo di una battaglia in cui istituzioni e cittadini si sono trovati uniti e in cui l'opposizione è stata non domina ma comprimaria è, così, svilito sull'altare degli stereotipi: le battaglie sono vinte solo se a guidarle sono i migliori, l'opposizione si deve opporre sempre e comunque. Che peccato, intaccare il grande clima di unità per piccoli calcoli.
Più interessante, e da me pienamente condiviso, è l'atteggiamento vigile del movimento che intorno alla Sassari-Olbia si è creato e sviluppato: un misto di soddisfazione per il primo risultato raggiunto e di richiamo a non abbassare la guardia. Il presidio a Enas, dove per diciotto giorni ha stazionato il camper dei due consiglieri del Pdl, Gigi Carbini e Pietro Luciano, e dove per tredici giorni hanno fatto lo sciopero della fame, è stato smantellato. Contemporaneamente si è deciso che la mobilitazione continuerà. È giusto che così sia.
Si è sentito ieri qualcuno lamentarsi perché la Sicilia ha ottenuto di più nella riunione del Cipe. A parte che va considerato che altre regioni hanno ottenuto meno della Sardegna, hanno idea, i critici, dell'unità che i siciliani riescono a raggiungere quando sono in gioco gli interessi della loro terra? E hanno, soprattutto, idea di quale immagine dia la politica sarda quando, di fronte a un risultato ottenuto grazie anche all'unità popolare, c'è ci si agita per distruggere l'unità raggiunta? Per piccoli calcoli di bottega, si sono chieste le dimissioni del presidente della Regione. Pensano, costoro, che una classe politica che in viaggio si comporta come i capponi di Renzo sia credibile nelle giuste rivendicazioni del popolo sardo?

giovedì 17 dicembre 2009

Una lucida follia politica che spinge alla violenza

“Sì alla politica, No alla violenza” è il titolo dell'incontro che ho organizzato per sabato prossimo nel THotel di Cagliari, in via dei Giudicati. Cominciamo alle 9.30 e al dibattito parteciperanno il presidente della Regione Ugo Cappellacci e il magistrato Mario Marchetti, oltre a me.
C'è un urgente bisogno, soprattutto dopo l'aggressione subita da Silvio Berlusconi, di guardarci in faccia, cittadini, politici, magistrati, giornalisti non solo per chiederci perché si sia arrivati a questo punto di degrado, ma soprattutto per capire come uscire da questa spirale che sembra incontrollabile. Che sia un dovere della politica arrestarla ed uscire dal processo di imbarbarimento è ovvio ed urgente. Ma è un dovere anche dei cittadini contribuire al contrasto dei preoccupanti segni di barbarie che si sono visti in Internet subito dopo il ferimento del presidente del Consiglio. Si è cominciato con l'apologia dell'aggressione, si è continuato con l'invito a fare una sottoscrizione per assoldare un killer e queste istigazioni hanno suscitato reazioni altrettanto becere con dichiarazioni di odio nei confronti di Di Pietro fino a chiedere la firma sotto un proclama astioso contro i sardi conterranei di Tartaglia. Una spirale che neppure l'amministratore di Facebook può bloccare se non con la cancellazione dei messaggi più violenti. Né basta, a salvare la coscienza individuale, il dire che siamo tutti vittime del clima avvelenato.
È proprio questo clima che va bonificato. C'è chi, come l'ambasciatore Sergio Romano, facendo proprio il senso più profondo degli appelli del presidente della Repubblica, afferma che è necessario non chiedersi chi ha cominciato ma decidere interrompere istantaneamente l'escalation della violenza verbale. Personalmente sono d'accordo: fermiamoci prima che sia troppo tardi. E cominciamo dalle reciproche legittimazioni, dal riconoscimento che la minoranza ha il diritto di opporsi e la maggioranza diritto di governare.
Ci sono, in giro, barlumi di risipiscenza nell'incontro fra Silvio Lai e Ugo Cappellacci, ce ne sono nella visita di Bersani a Berlusconi. Ho già scritto su questo blog che dalla Sardegna potrebbe partire un benefico contaggio per la politica italiana e bisogna lavorare seriamente perché ciò avvenga.
C'è, però, un problema, per ora di limitate dimensioni ma destinato a crescere con la chiamata a raccolta nel futuro, come è capitato altrove in Europa, degli istinti forcaioli che purtroppo ancora perdurano in alcuni strati della popolazione. Istinti che trovano nelle parole di Antonio Di Pietro un terreno di coltura e, al contrario, in quelle di Napolitano un inopportuno richiamo a ragionare con la mente e non con i visceri. Ieri mi è capitato di sentire Di Pietro evocare due periodi della storia non solo italiana: la Sacra alleanza e il Comitato di liberazione nazionale.
Immaginando che il capo del giustizialismo conosca bene ciò che evoca, credo egli sappia bene che la Santa Alleanza passa per essere il momento più importante della restaurazione del potere assoluto. E credo, anche, che sappia come il Cnl sia stato il governo della società italiana uscita dalla Resistenza al fascismo e al nazismo. Temo che egli sia assolutamente cosciente del senso delle sue parole e che voglia da un lato, con la Santa Alleanza, restaurare il potere suo e di quanti considera suoi pari, e dall'altro, con un Comitato di liberazione nazionale, guidare una guerra contro il nemico. Martedì fa ho citato il preoccupante accostamento, fatto da un giornalista del gruppo editoriale La Repubblica-L'Espresso, fra l'aggressione a Berlusconi e l'incendio del Reichstad che, com'è noto, aprì la strada al nazismo. Un ottimo terreno, questo del pericolo nazista, per innescare una guerra di liberazione.
Siamo, si comprende, ad una pericolosa e lucida follia politica. Questa sì da contrastare con una alleanza fra le forze politiche democratiche che, al di là dei contrasti legittimi, contrastino la deriva dipietrista, violenta al momento solo a parole, ma non si sa fino a quando. E' bene che chi crede alla democrazia non sottovaluti questo pericolo.

martedì 15 dicembre 2009

Altro che abbassare i toni, c'è chi evoca il Reichstad e il nazismo

L'appello del presidente della Repubblica a tutti i cittadini, “e quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia”, è parola che dovrebbe essere accolta per arrestare la violenza e per radicare la pacifica convivenza. Dovrebbe, ma non lo è. Non lo è da chi continua a pensare a scorciatoie per rovesciare la decisione degli elettori. C'è, in quel campo, chi va diritto allo stomaco degli eversori e c'è chi, invece, mette a disposizione della “causa” la propria capacità di usare le parole con abilità dialettica e richiami più o meno colti.
A questa categoria appartiene l'ex redattore di La Repubblica ed ex direttore di L'Unità Mino Fuccillo che oggi pubblica su La Nuova Sardegna un editoriale di apparente condanna dell'aggressione a Berlusconi. Fuccilo evoca, a proposito del ferimento del premier “un «Piccolo Reichstag», il primo anello della spirale”. A chi non ricorda o non sa che cosa sia stato “il Reichstag”, questa frase dice ben poco. Chi ricorda o sa, proverà, come ho provato io, la sensazione di trovarsi di fronte ad una delle infamie più gravi sentite in queste ore.
L'incendio che il 27 febbraio 1933 distrusse il Parlamento tedesco, il Reichstag appunto, è considerato da tutti gli storici l'evento cruciale per la vittoria del nazismo. Gran parte degli storici pensa che a bruciarlo fu un mezzo matto (poi decapitato) su ordine dei nazisti che invano dettero poi la colpa ai comunisti di Dimitrov. Certo, Fuccillo non si spinge ad affermare esplicitamente che complici dello psicolabile aggressore di Berlusconi sono stati uomini vicini al premier. Ma tartufescamente lo suggerisce alle élites colte del suo schieramento, che sanno dell'incendio del Reichstad e che sono state abbondantemente indottrinate, in quindici anni, sulla volontà di Berlusconi di instaurare un regime autoritario.
Del resto, tutto l'editoriale sulla Nuova da questa sciocchezza parte. Berlusconi “già prima del sangue era convinto e tentato da una «democrazia autoritaria» forgiata nel suo nome. E che ora potrebbe trovare un altro segno di «legittimità», appunto il suo sangue”. C'è solo da sperare – è il succo del vaneggiamento – che il presidente del Consiglio non approfitti dell'aggressione per completare il suo disegno.
Manca, ma temo sia implicita, la chiamata alle armi per rovesciare il tiranno fascista. La libertà di stampa è un bene assoluto in una democrazia come la nostra. Ne sono convintissimo, senza se e senza ma, come oggi si dice. Quel che non capisco è che differenza ci sia, a parte l'eleganza della scrittura, tra articoli siffatti e le migliaia di post che in Facebook vorrebbero “santo subito” l'aggressore di Berlusconi e morto l'aggredito.

lunedì 14 dicembre 2009

Parta dalla Sardegna un contagio di civiltà

“È stata oltrepassata una soglia” è il commento quasi unanime di fronte all'aggressione a Berlusconi. Quasi unanime e non solo per l'ovvia reazione di Di Pietro, pronto a passare dalle forche metaforiche a quelle fisicamente erette (a proposito, amico Palomba, come fai a stare insieme a simili persone?).
Penso piuttosto al clima fetido che ha avvolto nell'odio decine di migliaia di persone che in Facebook e nelle lettere ai giornali esprimono complice solidarietà all'aggressore, un povero psicolabile eletto maitre à penser. E penso anche al quotidiano-partito che ha fomentato l'odio politico e personale contro Berlusconi: accanto a poche parole di presa di distanza dall'aggressione, La Repubblica dà evidenza oggi ad un ennesimo gossip inglese riguardante il presidente del Consiglio, quasi a segnalare che Berlusconi, insomma, l'astio se lo sia carcato. Che vergogna.
Questo odio chiama odio in senso contrario in altri commenti di chi sostiene il premier e tutte insieme questi pronunciamenti dipingono a tinte fosche il futuro della coesistenza pacifica in Italia, tanto che a me sembra non destituito di fondamento l'allarme lanciato dagli osservatori più attenti: siamo vicini ad una guerra civile. Quando si leggono gli inviti di Di Pietro alla piazza perché si rovesci il governo, quando si legge del comunista Paolo Ferrero che, dopo una riunione a Cagliari con altri comunisti e con i Rosso mori, dice di Berlusconi: “Non può che essere definito fascista”, allora ci si rende conto perché una persona fragile di mente possa ferire il “mostro”.
Nei giorni scorsi, il presidente Cappellacci e il leader Pd Silvio Lai hanno preso a dialogare, segno che il bene comune della Sardegna ha, almeno nelle intenzioni, la meglio, dopo i continui tentativi della sinistra di deligittimare chi è stato eletto dal popolo sardo. E già si sono sentiti aleggiare le prime prese di distanza perché non del dialogo fra maggioranza e opposizione la Sardegna avrebbe bisogno. Certo, non basta una sana dialettica fra opposizione e maggioranza, è necessario il dialogo fra la politica e le forze sociali, imprenditoriali, culturali. Ma è preliminare a tutto disinquinare i pozzi avvelenati.
Non voglio farmi illusioni, ma se per una volta nella nostra storia autonomista fosse la Sardegna a contagiare beneficamente la politica in tutta Italia, si attuerebbe il sogno di normalità, caldeggiata dalle forze politiche e culturali più avvertite. E si aprirebbe la strada per la emarginazione e la sconfitta di chi sogna invece lo scontro fisico, nell'illusione che la violenza abbia la meglio sulla democrazia, sistema nel quale sono gli elettori a decidere chi governa e chi no fino alle elezioni successive. Un sistema, anche, in cui è il Parlamento a fare le leggi che tutti, magistrati compresi, devono osservare. Anche se incidono sui propri privilegi e sui propri furori ideologici.

mercoledì 9 dicembre 2009

Niente di nuovo sul nucleare, salvo un allarmismo interessato

Non c'è niente di nuovo sul fronte del nucleare in Sardegna. C'è una cartina del Cnen del 1979 in cui si piazzavano le aree idonee ad ospitare centrali nucleari; una dichiarazione dell'amministratore delegato dell'Enel in cui si afferma che l'Enel ha individuato i siti in cui questa azienda li costruirebbe; il fatto che il governo deciderà a febbraio quali saranno i siti. A tutto questo, ampiamente conosciuto, si aggiungono le solite indignazioni perché il governo, il quale ha detto che la scelta sarà fatta entro il 15 febbraio, tiene “ancora top secret” il suo dossier.
Di ieri due notizie: la prima è che il Veneto vorrebbe ospitare la prima centrale, la seconda consiste nell'allarme del presidente dei Verdi, Benelli, che avrebbe saputo come nell'elenco dell'Enel ci sono otto siti, fra i quali Oristano. Tralascio la considerazione, che dovrebbe essere scontata, secondo la quale, come non decise il Cnen 30 anni fa così oggi non decide l'Enel cui spettano compiti diversi da quello di decidere dove fare le centrali. Sembrano dettagli, soprattutto a chi pensa a quanto ci potrà guadagnare dalla propaganda, ma dettagli non sono.
Non c'è solo il fatto che sarà il governo a decidere quel che è sua competenza decidere, ma anche quello, sostanziale, che in Sardegna c'è una decisa ed unanime contrarietà. C'è un impegno del governo regionale ad opporsi alla istallazione di una o più centrali nucleari e c'è in atto un notevole movimento che, spogliato di ideologismi e di tentazioni sempre e comunque antigovernative, è una garanzia del fatto che l'unità è possibile e, anzi, decisiva. Io rispetto, e l'ho diverse volte detto, la decisione autonoma delle regioni, come il Veneto, di ospitare una centrale nucleare e mi auguro sarà rispettata la decisione della Sardegna di non farlo.
Per quanto mi riguarda, sarò al fianco della Regione e dei sardi che non vogliono la centrale nucleare nell'Isola. Non sarò affatto con i fondamentalismi di chi già dichiara di non volere il nucleare ovunque nel territorio della Repubblica. Come tutti i dogmatismi anche questo è infantile, ingiustificato, antiscientifico e, soprattutto, profondamente offensivo delle autonomie regionali.
Salvo scoprire, un giorno, che l'allarmismo, come già è successo in Sardegna, si crei a tavolino per poi ascriversi la vittoria contro un disegno che mai c'è stato.

martedì 8 dicembre 2009

Vigiliamo per la Sassari-Olbia, ma Dio ci liberi dagli agit-prop

L'unità di intenti e di mobilitazione per la Olbia-Sassari sta per raggiungere il suo obiettivo, se venerdì prossimo il Cipe darà il suo via libera come ha assicurato il presidente del Consiglio. È un risultato importante che, al di là dell'importantissimo obiettivo, dà un segnale di che cosa possa l'unione dei cittadini e dei loro rappresentanti a tutti i livelli e senza distinzione di colore politico. Forse c'è anche l'annuncio che i sardi stanno imparando la lezione che viene loro dai fratelli siciliani i quali, di fronte alle grandi questioni, smettono di fare come i capponi di Renzo. Una lezione, per varcare i confini dello Stato, viene anche da altre nazionalità europee.
È anche giusto, come affermano di voler fare i protagonisti della mobilitazione di queste ultime settimane, non abbassare la guardia. La promessa di Berlusconi non è fatta a cuor leggero, ma il Cipe, come dice la sigla, è un comitato interministeriale, composto, cioè, di tanti ministri. Li ricordo a chi già lo sa e ne informo chi non lo sa: il Ministro dell'economia e delle finanze; quello degli affari esteri e quelli dello sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro, salute e politiche sociali, per le politiche agricole e forestali, dell'ambiente e tutela del territorio e del mare, per i beni e attività culturali, dell'istruzione, università e ricerca, per le politiche europee, per i rapporti con le Regioni, per il Turismo. Insieme a loro ne fa parte anche il Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province Autonome, l'emiliano Vasco Errani.
Chi fa politica e non propaganda, sa che ognuno di questi componenti potrebbe avvertire gli altri che, strada facendo, si sono aperte altre urgenze e battersi perché siano queste ad essere risolte prioritariamente. È già successo nel passato e questo rende indispensabile che i sardi non si distraggano e continuino a vigilare fino al momento in cui la Sassari-Olbia non abbia avuto il via libera.
Che ci sia, nell'opposizione, qualcuno tentato di remare contro per evitare che l'azione del governo tagli l'erba sotto gli agit-prop, è cosa purtroppo normale: fa parte di una certa concezione della politica lontana dall'imperativo del bene comune. Ci sono, così, ancora oggi che c'è l'impegno di Berlusconi, personaggi che giocano al rilancio e altri che non nascondono il timore che, davvero, venerdì il Cipe approvi questa benedetta delibera.
Mi è capitato di leggere questo, oggi, su un quotidiano che si fa portavoce dell'opposizione: “ Come nei migliori giochi di prestigio, con un colpo di scena i soldi riappaiono. La Sassari-Olbia si farà subito. I fondi arriveranno nella prossima riunione del Cipe. La nuova promessa arriva da Silvio Berlusconi, l’uomo che li aveva portati via. Il premier sabota la madre di tutte le battaglie, quella per la 4 corsie...”. Si può esprimere meglio di così la rabbia per vedersi portar via un prezioso strumento di propaganda?

lunedì 7 dicembre 2009

I rifiuti pericolosi di una industrializzazione sbagliata

Quando si parla di produzione di rifiuti pericolosi da parte dell'industria sarda, tutti sappiamo che, detta alla grossa, si tratta di numeri importanti. È quando si passa dalla sensazione alle cifre che ci si rende conto di quanto disinvolta sia stata l'industrializzazione nei decenni passati. Soprattutto nelle aree, come il Sulcis, in cui più acuta si è fatta in questi ultimi tempi la crisi. La Sardegna, dice l'Istat, produce 220.969 di tonnellate di rifiuti pericolosi, quelli non pericolosi sono 4.100.000 tonellate. Ogni cento chili di rifiuti prodotti nell'Isola, qualcosa più di 5 chili sono pericolosi.
Sono di per sé numeri rilevanti, che diventano inquietanti se letti così come si ricava dall'Istat. L'istituto di statistica segnala i parametri per fare un raffronto: in tutta Italia il 90 per cento dei rifiuti recuperati è rappresentato da quelli non pericolosi, in Sardegna “la quota di rifiuti speciali non pericolosi scende al 58,7 per cento a fronte del 41,3% di rifiuti pericolosi recuperati soprattutto nella produzione di metalli”. E dove si producono metalli, se non nel Sulcis? È lì, scrive il mio amico Mario Carboni, dove sono state impiantate “le ultime industrie coloniali;” ed è da lì che vorrebbero fuggire lasciando a casa migliaia di lavoratori e senza futuro le loro famiglie, dopo aver inquinato tutto ciò che c'era da inquinare.
Un altro caro amico mi racconta di aver visto su un quotidiano brasiliano molti anni fa una pagina pubblicitaria con la quale il governatore del Mato Grosso invitava le industrie straniere a installarsi in quel poverissimo stato, assicurando loro che non sarebbe stato lì a sottilizzare sull'impatto ambientale delle future fabbriche. È chiaro che ad ispirare il governatore era lo stato di disperazione dei suoi cittadini che avrebbero preferito morire, il più tardi possibile, avvelenati ma, per la vita concessa, a stomaco pieno.
La spaventosa crisi delle miniere che si è abbattuta prevalentemente sul Sulcis (ma anche all'Argentiera, a Gadoni, a Lula), assortita ad un dottrinarismo industrialista che ha confuso le menti della politica e del sindacato in quegli anni, ha comportato un abbassamento di attenzione sia nei confronti dell'industrializzazione proposta sia per quanto riguarda la certezza del rispetto ambientale. Certo, non ci fu la spregiudicata faccia tosta del governatore brasiliano, ma, questa sì, una negazione ostinata degli effetti inquinanti dei fumi d'acciaio, per esempio, e dei fanghi rossi.
Adesso migliaia di lavoratori e con essi le forze politiche, i sindacati, le amministrazioni e le istituzioni regionali fanno quel che è doveroso fare: difendere i posti di lavoro. Qualche partito e qualche sindacalista non riesce ad esimersi dall'utilizzare la disperazione della gente per fini propagandistici (si pensi solo all'allarme creato all'Alcoa, servendosi di una informazione falsa), ma queste sono le piccinerie di chi pensa che l'esibizione muscolare sia meglio del dialogo.
I dati preoccupanti forniti dall'Istat credo dovrebbero convincere tutti che da questo modello di sviluppo (che sviluppo non è, ma faticosa difesa dell'esistente) bisogna quanto prima passare ad un nuovo ed altro modello. Battersi con la massima unità possibile per salvare i posti di lavoro è un imperativo per tutti, ma la stessa unitarietà dovrà da subito essere raggiunta per progettare un modello di civiltà condiviso.

domenica 6 dicembre 2009

Giovanni Pusceddu: come fondare lo sviluppo sulla cultura

Mentre altrove, si pensava come inserire il proprio paese nella catena dello “sviluppo industriale” costasse quel che costasse, il sindaco di Villanovaforru pensava a come rendere la cultura e l'identità motore di un altro tipo di sviluppo economico. Ieri Giovanni Pusceddu se ne è andato, una trentina di anni dopo che il suo paese, destinato allo spopolamento, al degrado e a un lenta agonia, ha ripreso a vivere e a svilupparsi, grazie a un complesso nuragico di straordinaria bellezza.
Chi ha conosciuto Villanovaforru agli inizi degli anni Settanta, prima che il grande nuraghe di Genna Mara fosse stato scavato, stenta a riconoscerlo oggi, con il suo Museo, i suoi ristoranti, l'albergo, i B&B. E con attività, come il laboratorio di restauro, che allora, quando il paese perdeva censimento dopo censimento un centinaio di abitanti non erano pensabili. Quel che pareva una inarrestabile emorragia si è bloccata e da vent'anni il numero degli abitanti è stabile. Migliaia di visitatori del nuraghe e del Museo (e degli altri beni culturali del paese) portano ora ricchezza e occasioni di lavoro.
Questa intuizione di Giovanni Pusceddu e soprattutto i risultati dati dagli investimenti su cultura e identità hanno lentamente contagiato un'altra ventina di paesi, consorziati nell'altra sua creatura: Sa corona arrubina”. I risultati di questa volontà di puntare sulla cultura per innescare crescita economica stanno, per esempio, nei 150 mila visitatori della mostra sui dinosauri, e poi quelli che hanno visitato le mostre successive: sui pittori spagnoli, Leonardo, gli egiziani, i precolombiani, gli etruschi, i mammut.
Ecco un esempio di quanto da tempo vado sostenendo su questo blog: abbiamo bisogno di un modello di sviluppo diverso da quello fino ad oggi conosciuto nella nostra Isola. Certo sarebbe puerile cercare di copiare l'esempio di Villanovaforru e, che so?, ripetere questo schema ovunque esistano emergenze archeologiche. L'esempio di Pusceddu va colto nel suo significato più profondo: la Sardegna è terra di mille occasioni di sviluppo economico fondato sulla sua peculiarità. Sta alla nostra intelligenza farle emergere ed utilizzare sia nel campo del turismo culturale sia in quello della organizzazione dell'industria intorno alle nostre risorse, particolarmente quelle agroalimentari.
La grande crisi che ha colto in pieno l'industrializzazione della Sardegna, con la miriade di drammi individuali che vanno trasformandosi in dramma collettivo, non ci consente di pensare che i governi sardo e dello Stato, e insieme ad essi l'Europa, possano da un momento all'altro tirar fuori una bacchetta magica. Sta ad essi impedire la desertificazione industriale della Sardegna, con la riconversione e, soprattutto, con la salvezza dei posti di lavoro esistenti. A tutti noi, nel massimo di unità possibile, batterci perché ciò avvenga, ma contemporaneamente spetta mettere in moto tutte le nostre intelligenze per fare in modo che lo sviluppo futuro sia autocentrato, fundato cioè sulle nostre risorse ambientali, culturali, linguistiche e umane.

Nella foto: il complesso di Genna Mara

venerdì 4 dicembre 2009

I precari stabilizzati? Certo, ma non per fedeltà di partito

È legittimo che il governo dello Stato impugni leggi regionali che a suo parere travalichino le competenze attribuite dagli statuti e dalla Costituzione. Lo prevede proprio quest'ultima. Ciò non toglie che provo profondo dispiacere quando questo capita perché, di qualsiasi colore sia il governo, così prevale una cultura accentratrice, poco consona con il processo in atto di creazione di una repubblica federale. È il rammarico che ho provato davanti alla decisione di impugnare la legge del Consiglio regionale sulla stabilizzazione dei precari.
Pur contando che la Consulta dia ragione al Consiglio regionale, se e quando l'impugnazione governativa arrivi, credo sia opportuno che gli enti locali, e fra questi la Provincia di Cagliari, si servano di questa decisione del Governo per riflettere su due aspetti della questione.
Il primo è che è necessario utilizzare al meglio le competenze di alta qualità che esistono e che oggi, se penso alla Provincia di Cagliari, sono mortificate per la non nascosta urgenza di utilizzare la questione dei precari per fini elettorali.
Il secondo aspetto è che la selezione dei precari da stabilizzare deve abbandonare il costume clientelare che ha largamente caratterizzato i primi passi fatti da molti enti locali e imboccare la strada della scelta sulla base del merito e delle capacità. Sono caratteristiche, queste, che, anche nella Provincia di Cagliari , sono presenti nella generalità dei candidati alla stabilizzazione e non solo nei prescelti per merito di partito.

mercoledì 2 dicembre 2009

Un "fuori onda" inquietante: il caso e il disegno

La pubblicazione di frasi dette quando si pensa che i microfoni siano spenti suona – dice oggi un commentatore – un furto di buonafede. Sto parlando, si sarà capito, dell'ultimo “scandalo mediatico” che ha avuto come protagonisti il presidente della Camera Gianfranco Fini e il procuratore Nicola Trifuoggi, conosciuto ai più perché 25 anni fa tentò di bloccare le trasmissioni di Fininvest.
La vicenda può essere letta in diverse maniere: come “furto della buona fede” e quindi prendersela con la stampa che, invece, secondo me ha fatto il suo lavoro; come un normale ribadire da parte di Fini della persino banale considerazione che il governo deve rispetto agli altri poteri dello Stato; come presa di distanza da parte di Fini dal partito che ha contribuito a fondare; ed altro ancora. Tutte cose, comunque, che riguardano i rapporti politici fra il presidente della Camera, il governo, la maggioranza che lo ha eletto a quell'alta carica e il presidente del Consiglio.
Non sono cero indifferente a questo ingarbugliarsi della situazione e, per mio stile di vita, provo sconcerto per le frasi di Fini contro Berlusconi, così come per quelle pronunciate dal procuratore della Repubblica: Berlusconi "è nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l'imperatore romano". Sta parlando, sia pure “fuori onda”, del presidente del Consiglio scelto dalla maggioranza degli elettori con il presidente della Camera, senza che questi almeno prenda le distanze da un giudizio offensivo di un uomo e dimostrazione di quanto poco ci si curi del rispetto per altri poteri dello Stato.
Ma non è questo, o non è solo questo, che mi sconcerta. Fin qui si sta in uno scambio di opinioni, per inappropriate che siano dati i ruoli dei protagonisti, fra due che non sanno di essere registrati. Quel che sconcerta è lo scambio di informazioni giudiziarie su una torbida vicenda che vede al suo centro un pentito e le sue “rivelazioni” che dovrebbero essere coperte dal segreto. Nella trascrizione del video che da ieri circola in Internet, si legge, detto da Fini: “Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza ... speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da... perché è una bomba atomica". Va ancora più in là il presidente della Camera: "Si perché non sarebbe solo un errore giudiziario, è una tale bomba che... lei lo saprà .. Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli Interni, e di ... (Berlusconi?)... uno è vice presidente del CSM e l'altro è il Presidente del Consiglio...". Il procuratore conferma quanto sa, non è dato sapere perché, Fini: "Pare che basti, no?".
Certo, è importante che Fini abbia richiamato la necessità che le dichiarazioni del pentito siano controllate con “scrupolo”. Ed è importante che questo scrupolo sia stato assicurato dal procuratore suo interlocutore. Così, immagino, sarà fatto sino a concludere, come lo stesso Fini si è premurato di dire telefondando a una rete televisiva, che “Berlusconi non c'entra con la mafia”. Ma un conto saranno le risultanze delle indagini, altro conto è il bailame politico che si è sollevato. Sarà un caso che ad autorizzare la diffusione del video sia stato il presidente del “Premio Paolo Borsellino” e a farsi carico di diffonderlo per prima sia stata La Repubblica?

martedì 1 dicembre 2009

Assemblea del popolo sardo: un buon inizio anche se...

Forse c'è stato un surplus di enfasi nel definire “Assemblea del popolo sardo” quella che si è svolta ieri a Cagliari. Ma l'iniziativa di tre dei sindacati sardi, Cgil, Cisl e Uil, costituisce una svolta importante per l'aver saputo legare strettamente i temi del lavoro e dello sviluppo economico a quelli della riforma istituzionale più rilevante: quella dello Statuto speciale. E di questa svolta si deve dare atto ai tre sindacati.
Di fronte a ciò, diventa piccola cosa la contestazione scatenata da un gruppetto per l'assenza del presidente della Regione a letto con l'influenza, fischi che, invece, stando al titolo in prima pagina su un quotidiano, sarebbero l'avvenimento principale. Misteri del giornalismo militante. La coscienza che chiave di volta del possibile sviluppo sia la riscrittura dello Statuto, scontata per me, non lo è per tutti. Sia all'interno dei partiti sia all'interno delle forze sociali sia dentro il mondo della cultura sarda, assente non so se perché non invitato o se perché da troppo tempo si è estraniato dal dibattito sullo Statuto e da quello sui temi dell'identità.
Sintomo di questa assenza è, a ben vedere, lo scarso rilievo che i media hanno dato ai contenuti dell'assemblea, preferendo sottolineare i momenti di frizione (i fischi a Cappellacci e la protesta della presidente del Consiglio perché il parlamento sardo non è stato coinvolto) a quelli della unitarietà dei propositi riformatori. È come se, nei media ma anche altrove, non si comprenda a pieno la presa di distanza dei sindacati dall'economicismo quale unico contenitore dei processi sociali.
Fatto sta che la “Assemblea del popolo sardo” è stato un momento alto di proposizione di un cammino istituzionale, economico e sociale. Non solo, ma anche di rivendicazione del ruolo che il popolo sardo deve avere nella riscrittura della nostra carta fondamentale. Una riscrittura, si è sentito spesso dire, e non una semplice perifrasi dello Statuto esistente, fatta con qualche aggiustatina qua e là. Le fondamenta per un dibattito che coinvolga il popolo sardo e il suo Parlamento, a cui spetta l'ultima parola, sono state poste. A proposito del nostro Parlamento capisco e condivido le preoccupazioni espresse dalla presidente Lombardo: è stato un grave errore escludere dall'assemblea la massima istituzione della Sardegna anche per la considerazione che ad essa spetterà approvare lo Statuto.
Tutti abbiamo la consapevolezza che questo dibattito non sarà facile né piano: troppi conservatorismi politici, sindacali, culturali si sono messi e si metteranno di traverso. C'è un giacobinismo politico che permea la politica, ma ce ne è anche sindacale, accademico, imprenditoriale, culturale di quanti temono che uno Statuto davvero speciale comporti l'abbattimento di inutili sacche di centralismo. Non si può essere autonomi dallo Stato se poi ad una sua concezione centralista si voglia far ricorso per conservare privilegi e stereotipi organizzativi.
Il tempo ci dirà quanto si vorrà davvero per un nuovo Statuto. Quanto nel dibattito che si vuole aprire nel e con il popolo sardo, prevarranno la voglia di novità o il sicuro riparo della conservazione o anche il gattopardismo. Il problema è che non abbiamo moltissimo tempo e che rischiamo di dover subire uno Statuto concesso dallo Stato anziché conquistarcene uno a nostra misura.

giovedì 26 novembre 2009

Lo Statuto una perdita di tempo? Ma quando mai

In un suo editoriale su L'Unione sarda di oggi, il professor Beniamino Moro svolge un ragionamento sul futuro dell'autonomia sarda assai difficilmente condivisibile anche da chi, come me, ho dell'amico Moro un'altissima considerazione e stima. Tre sono i cardini del suo articolo.
1.Una corrente del pensiero politico ritiene che le ragioni dell'autonomia speciale “accordata” siano venute meno. Anche la Sardegna non è riuscita a approfittare della specialità per promuovere lo sviluppo economico, ma ha utilizzato le risorse pubbliche “per sostenere le clientele politiche e per acquisire il consenso elettorale”. Moro, per la verità, ritiene “discutibile” questa tesi.
2.Il “federalismo fiscale” è il quadro entro cui, necessariamente, deve muoversi ogni progetto di riforma dello Statuto che non potrà credibilmente prevedere competenze diverse da quelle previste nella legge costituzionale sul “federalismo fiscale”.
3.Piuttosto che “distorcere l'attenzione” con il discutere di specialità e di strumenti (la Costituente) per rafforzarla, è meglio puntare al “vero obiettivo” che è lo sviluppo economico regionale.
Augurandomi di aver riassunto correttamente il pensiero dell'amico Moro, devo dichiarare il mio stupore per il fatto che un così insigne intellettuale sardo possa dar credito, sia pure critico, a ipotesi di revoca della specialità sarda. L'utilizzo delle risorse pubbliche per clientelismo e per cattura del consenso è un male endemico nella vita politica della Repubblica. Tanto che oggi il governo si trova a dover combattere contro un debito pubblico tanto grande da rendere difficile reperire risorse per lo sviluppo. Eppure ai critici della specialità verrebbe mai in mente di proporre la revoca della sovranità dello Stato.
A quelle suggestioni di cancellazione della specialità si arriva per via di una profonda incomprensione delle sue ragioni. La Sardegna, ma lo status è simile per le altre regioni speciali, è peculiare non tanto per motivi economici e geografici (l'insularità) quanto per ragioni culturali, storiche, linguistiche che ne fanno una Nazione distinta da quella italiana, entrambe parte della Repubblica. Questa sua condizione permarrebbe non solo nel caso in cui le classi dirigenti fossero esecrabili, ma anche in quello in cui la Sardegna diventasse prospera, sviluppata e ricchissima.
Lo sviluppo economico della nostra Terra e uno Statuto di reale autogoverno sono strettamente legati e interdipendenti. Più competenze e poteri avrà la Regione più avanzato sarà lo sviluppo della Sardegna e, come dimostra per esempio l'esperienza catalana, più accentuato sarà lo sviluppo maggiori dovranno essere i poteri per rendere più governabile lo sviluppo stesso. Noi sardi, ma non solo noi dentro la Repubblica italiana, paghiamo lo scotto di essere sotto la cappa opprimente di quell'economicismo che pervade anche culture politiche che dovrebbero portarcene fuori. Il più rapidamente possibile.
Ma, dice il professor Moro, tutto deve accadere sotto l'egida della legge sul “federalismo fiscale”. Chi lo ha detto? Forse che la legge 42 ha abrogato la previsione costituzionale secondo cui la Sardegna e le altre regioni speciali “dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”? Il “federalismo fiscale” è solo un primo passo per il federalismo tout court e con un nuovo Statuto speciale, la Sardegna è in grado di accompanare la realizzazione di un progetto che in Sardegna, ma non solo, ha profonde radici politiche e culturali. Io ho fatto mia la proposta del Comitato per lo Statuto e ho depositato da tempo in Senato un ddl a proposito.
Sia la proposta del Comitato sia il mio disegno di legge sono, come tutte le cose umane, discutibili e migliorabili. Ma ci sono, sono documenti che sono in grado di far uscire la discussione dalla nebulosa delle cose evanescenti. Perché non discuterne?

mercoledì 25 novembre 2009

Ma Stato e Regione non possono fare da salarifici

Con sfiducia nei partiti che la politica non riesce a rovesciare almeno in apertura di credito, sulla mia pagina in Facebook un amico mi ricorda crisi occupazionali dimenticate (la Valriso) dai più e nella mente di chi, come lui, ne paga ancora le conseguenze. Questa dannazione della memoria è la logica conseguenza di una azione politica costretta a star dietro alle ultime emergenze e, per molti motivi, poco incline ad avere in mente disegni strategici di nuovi modelli di sviluppo. L'attuale governo regionale, con il suo Piano regionale di sviluppo, inverte questa tendenza alla rincorsa dell'emergenza, ma certo non basta a produrre di per sé un cambio di mentalità.
Troppo deboli sono, ancora, i segnali che la politica, le forze sociali e la cultura autonomista danno di aver compreso la necessità di utilizzare la crisi industriale attuale e futura per affontare il nucleo del problema. Per prendere atto che il modello industriale esistente è in agonia, ci vuole un coraggio che solo pochi hanno, pochi e guardati con sospetto. La tentazione è quella di pensare che dall'agonia si potrà uscire con una ripresa di vita e che i drammi di migliaia di persone potranno essere risolti o con operazioni dirigistiche o con la messa a busta paga statale/regionale di chi rischia la disoccupazione.
Gli aiuti di Stato sono vietati dall'Unione europea, la politica può regolare il mercato ma non abolirne le leggi (lo si chieda ai cittadini ex sovietici o a quelli cinesi che cosa ne pensano dello statalismo in economia); non resta se non trovare meccanismi che accompagnino, senza eutanasia, l'agonia di questo sbagliato sistema industriale che in Sardegna provoca emergenze su emergenze. E che impegna enormi risorse, distraendole da impieghi capaci di creare prosperità per il milione e seicento mila sardi. Come rintracciare i meccanismi economici, politici e culturali capaci di far uscire la Sardegna dalla “cultura dell'emergenza” io non lo so, e del resto un disegno del genere può essere il frutto solo di un grande e partecipato dibattito a cui anche io potrò partecipare con le mie proposte.
La “cultura dell'emergenza” provoca irragionevoli e a volte paradossali conseguenze che, se pur fondate su ragioni di disperazione, non smettono di essere tali. Si leggono qua e là esempi di tale irragionevolezza. Da quello del sindacalista che, contrario ai parchi eolici, li vorrebbe solo se utili ad alimentare un'industria energivora come quella di Portovesme a quello del sindaco di Orgosolo che appoggia l'occupazione del suo comune da parte di 20 membri di una cooperativa senza lavoro. Detta così, sembrerebbe persino giusto e opportuno. Il fatto è che cooperatori e sindaco protestano perché la Regione non avrebbe previsto in Finanziaria quel che resta del magnieloquente “Progetto Supramonte”, voluto dal governo Soru come grande disegno economico per i paesi dei supramonti, e ridotto a cantiere forestale per accompagnare alla pensione una ventina di soci della cooperativa voluta negli anni Settanta dal Pci.
Io non so se, in realtà, la Finanziaria regionale abbia revocato il provvedimento di Soru, fra l'altro molto controverso all'interno della comunità. Ma questa protesta strumentale la dice lunga sul desiderio di una certa cultura politica di trasformare la Regione in un salarificio. Superfluo dire, credo, che i venti cooperatori di Orgosolo hanno tutta la mia solidarietà, come l'hanno, del resto, i lavoratori dell'Alcoa, quelli di Ottana e di tutte le altre aree di crisi. E come l'hanno anche i giovani intellettuali, impiegati negli uffici comunali della lingua sarda, a rischio di disoccupazione senza che a loro favore si levino i sindacati, i sindaci e, purtroppo, la politica. Rischiano di essere dei disoccupati figlio di un dio minore, non coperti dalla “cultura dell'emergenza”.

Nella foto: il Supramonte di Orgosolo

martedì 24 novembre 2009

Disastro industriale e cinismo politico

Il dramma vissuto da migliaia di lavoratori sardi dà la stura non solo ai comportamenti virtuosi di chi cerca di trovare soluzioni difficilissime (inutile pensare a ricette a portata di mano) ma anche ad atteggiamenti assolutamente cinici. Questi ultimi mirano a mettere in difficoltà i governi di Roma e di Cagliari giocando sull'esasperazione di chi vede incombere perdita di lavoro e un futuro più che incerto.
Non tutti sono come quel tal ex parlamentare comunista che propone soluzioni sovietiche (sia lo Stato a comprarsi l'Alcoa), ma in troppi sperano che a Roma e Cagliari non si riesca a trovare vie d'uscita dalla crisi. Sarebbe, per loro, una carta da giocare nell'opposizione ai governi Barlusconi e Cappellacci. E siccome la speranza va assistita e aiutata ad avverarsi, eccoli soffiare sulle braci già incandescenti. C'è chi cerca solo visibilità personale e chi, invece, programma di “sollevare il livello dello scontro”, immaginando spallate per far cadere i due governi.
È una situazione molto pesante, in cui la normale aspra dialettica fra opposizione e maggioranza, invece di ricomporsi in vista di un bene comune (la salvezza delle aziende e dei lavoratori), decide di trasformarsi in scontro frontale: e pazienza se a farne le spese saranno i lavoratori e le loro famiglie. Tutti sanno che la questione del prezzo dell'energia per l'Alcoa non è di quelle che possono essere risolte a Roma o a Cagliari, che l'Unione europea è rigida in materia di “aiuti di stato” e che la riduzione dei costi per le fabbriche energivore è problema che incide su meccanismi di mercato i quali possono essere regolati, ma non sconvolti: non lo si fa neppure in Cina.
A questo si aggiunge, sempre per Alcoa, il fatto che sulla soluzione trovata a Roma si è abbattuto il diverso pensiero della casa madre statunitense. Lo si sa, ma si fa finta che questi problemi possano essere risolti con un solo atto di volontà del governo italiano, quasi che una formula magica potesse interrompere in Italia la mondializzazione dei processi economici.
Solo un grande moto del popolo sardo, unito su obiettivi immediati e altri di prospettiva, potrebbe raggiungere risultati importanti. Ha ragione il responsabile della Cgil di Sassari, Rudas, quando, evocando questo moto popolare unitario, ha sottolineato la necessità di superare “le anacronistiche divisioni sindacali e partitiche. Abbiamo bisogno di uno scatto di orgoglio alto, di un vero e proprio moto popolare. È arrivato il momento, ancora una volta, di fare i conti con la nostra storia”. Questa è una prospettiva molto seria e meditata. Io ci sto.

venerdì 20 novembre 2009

D'Alema vittima dei suoi

L'Europa – è commento condiviso sui quotidiani italiani – ha scelto “un basso profilo” nel darsi un commissario permanente e un ministro degli esteri. A parte un sentore non proprio gradevole di provincialismo (fra l'italiano D'Alema e la inglese signora Nessuno, si è scelta questa), è pur vero che si è teso a non scegliere personalità di alta caratura per la difficoltà di trovarrne una condivisa. È già successo nella storia e non solo nella politica, salvo poi rendersi conto che persone appartentemente oscure e sconosciute avevano in serbo grandi capacità. Non darei, perciò, per scontato che Herman Van Rompuy e Catherine Ashton si rivelino, nel futuro, di “basso profilo”.
Quel che sconcerta, pur comprendendo che la nomina dei due abbia dovuto rispondere ad equilibri politici internazionali, è che ad affondare Massimo D'Alema siano stati i suoi compagni di schieramento e che lo abbiano fatto anche con motivazioni allucinanti. “D'Alema” ha detto Martin Schulz, capo gruppo dei socialisti europei “è un eccellente candidato, ma ha un problema, è il candidato di un governo non socialista”. Se questa è la visione che a sinistra si ha dell'Unione europea, c'è ben poco da sperare: pur di offendere il governo italiano non si bada a spese, neppure a bocciare un uomo del proprio schieramento.
Il Pd e la sua stampa hanno diffuso in Europa un'immagine disastrosa del governo Berlusconi e soprattutto del presidente del Consiglio, un'immagine fondata su gossip, su pettegolezzi ininfluenti, su pregiudizi tratti dagli atti di accanimento giudiziario di magistrati politicizzati e su altro ciarpame diffuso a piene mani. È persino comprensibile, anche se non giustificabile in politici europei che dovrebbero ragionare con la testa e non con i visceri, che questa campagna antiberlusconiana abbia prodotto effetti come quello di ieri. Verrebbe da dire che chi è causa del proprio male...
Ma non c'è di che gioire: anche per responsabilità dei suoi compagni di partito italiani, D'Alema non sarà ministro degli esteri europeo e l'Europa non si avvarrà dell'esperienza di un uomo cui tutti, me compreso, riconoscono competenza non comune.

giovedì 19 novembre 2009

Qualcosa sullo Statuto, eppur si muove

Lentamente qualcosa si muove intorno alla adozione di un nuovo Statuto di autonomia e anche dall'opposizione vengono segnali di disponibilità ad affrontare la questione con “un approccio non strumentale o giocato sulle divisioni della maggioranza” come avverte oggi l'ex presidente del Consiglio regionale, Giacomo Spissu. Meglio sarebbe, naturalmente, che questo atteggiamento non strumentale si manifestasse con continuità e che, per esempio, ieri, durante la riunione del Parlamento sardo a Nuoro, il Pd non avesse accusato di insensibilità il presidente della Regione. Pur sapendo che Cappellacci non poteva essere contemporaneamente a Nuoro e a Roma dove firmava l'accordo per l'Alcoa, qualcuno si è pesantemente lamentato dell'assenza. Piccinerie. Speriamo bene per il futuro.
Un futuro che è cominciato con fatti concreti e con pubblici impegni della maggioranza. I fatti concreti sono, come più volte ho detto, la elaborazione di un complesso e coraggioso articolato da parte del Comitato per lo Statuto e la presentazione da parte mia di un disegno di legge che sposa la proposta del Comitato. Il ddl, S.1244, presentato il 17 giugno 2009 con il titolo Statuto speciale della Regione Sarda denominato "Carta de logu de Sardigna", è già stato assegnato alla Prima commissione (Affari costituzionali). Questi i fatti.
Parlando al Congresso sardista, il presidente della Regione ha confermato il suo impegno con queste parole: “La riscrittura del nostro Statuto speciale è stata indicata coscientemente nel mio programma agli elettori e a loro ho il dovere di rispondere senza indugio, dopo un lungo lavoro preparatorio operato durante la passata legislatura con discrezione e serietà dalla maggioranza delle forze d'opposizione. Come ho ricordato in altre sedi si è trattato di un lavoro di ridiscussione dell'Autonomia reale, analisi di tutte le proposte di riforma presentate, confronto con analoghe esperienze italiane ed internazionali, portato avanti senza pregiudiziali e durato diversi anni ad opera di un Comitato appositamente formato e seguito direttamente dai capigruppo dell'opposizione. E' stata elaborata una proposta completa ed articolata di sovranità possibile, presentato più volte pubblicamente nelle varie stesure e sino al progetto finale condiviso nelle sue linee portanti e di principio da tutta la coalizione di centrodestra, che credo recepisca le principali aspirazioni sardiste diffuse nella nostra Nazione”. Vale la pena riportare le parole di Cappellacci, anche perché di esse non c'è traccia sui giornali che si sono occupati del Congresso sardista e quindi non sono conosciute.
Segnalo anche un'altra iniziativa, sfuggita all'attenzione dei media: facendo propria una mozione firmata dai consiglieri di centrodestra Mario Floris, Franco Cuccureddu e Massimo Mulas, 25 consiglieri dell'opposizione hanno sollecitato la presidente del Consiglio ad “avviare una sessione straordinaria sulle riforme e sul programma di approvazione del nuovo Statuto di autonomia”.
Qualcuno potrebbe vedere in questo atto dell'opposizione un approccio strumentale che si fonda su presunte “divisioni della maggioranza”, ma l'importante è che anche l'opposizione si muova, mettendo da parte le defatiganti discussioni sugli strumenti per scrivere lo Statuto (la “Consulta” voluta da Soru, per esempio) e affrontando i contenuti della nostra nuova Carta fondamentale.
Come si sa, il Psd'az e i Riformatori sardi vorrebbero che ad occuparsi della riscrittura dello Statuto sia una Assemblea costituente. Ho già scritto su questo blog che la proposta rischia di apparire dilatoria e in grado di mettere in pericolo la possibilità che esso possa essere approvato in questa legislatura. Ma condivido con il Psd'az la necessità che, prima di approdare al Consiglio regionale per l'approvazione, si apra in Sardegna un grande dibattito capace di coinvolgere il popolo sardo nel disegno del proprio futuro. A questo coinvolgimento si può arrivare sì attraverso una Costituente, ma anche indipendentemente da essa con la discussione sulla proposta del Comitato per lo Statuto, sul mio disegno di legge (entrambi esistenti) e su progetti alternativi che, se pure oggi non esistono, possono in breve tempo essere approntati. Dopo alcuni decenni di dibattiti sulla insufficienza dello Statuto vigente, non sarà difficile a chi non condivide le nostre proposte presentare le proprie.

mercoledì 18 novembre 2009

Sig. rettore, non è l'insularità la peculiarità della Sardegna

Il rettore dell'Università di Sassari, professor Attilio Mastino, ha anticipato ai giornali la sua intenzione di scrivere ai parlamentari sardi per sollecitarli a vigilare sul cammino della riforma universitaria proposta dal ministro Gelmini. Leggerò con la massima attenzione quanto il prof. Mastino scriverà, ma già da ora sono convinto che ci troverò importanti stimoli alla mia (e degli altri) attività in Parlamento per evitare il temuto degrado delle università sarde.
Segno di questo degrado è, secondo chi contesta la riforma, il taglio di circa 6 milioni di euro, dipendente anche dallo scivolamento dei due nostri atenei verso gli ultimi posti della classifica italiana. Per quanto mi riguarda, mi impegno a verificare che i criteri usati per stilare la graduatoria siano oggettivi e tengano conto della condizione socio-culturale della nostra Isola. “È bene che i nostri deputati e senatori tutelino i valori dell’insularità” ha detto il professor Mastino ai giornalisti.
Ebbene, a me sembra che “l'insularità” c'entri ben poco con la questione dei criteri usati, vedremo poi concretamente come, per mettere l'Università di Cagliari al 41° posto nei 60 atenei considerati e Sassari al 50 posto. C'entra molto di più il fatto che la Sardegna è sede della più numerosa minoranza linguistica della Repubblica e che le università di questa condizione speciale si siano costantemente dimenticate.
Lo Stato, secondo le cifre fornite dal passato governo regionale, ha, per esempio, erogato ai due atenei 713.100 euro perché li utilizzassero per corsi di formazione insegnanti e funzionari, come prevede la legge 482 che detta norme per la tutela delle lingue delle minoranze, fra cui, appunto, il sardo. Di questi fondi, le due università hanno speso appena il 25% e dovuto restituire il 75 per cento. Dico fra parentesi che questa della restituzione di soldi destinati alla lingua sarda non è una prerogativa delle università: la Provincia di Cagliari che molto ha gridato e poco fatto per la lingua ha dovuto restituire allo Stato quasi 500.000 euro non spesi. Ma di questo sarà il caso di riparlare.
Anche dei soldi ricevuti dalla Regione sarda per la tutela della lingua e della cultura della Sardegna, le università hanno fatto un uso decisamente criticabile. Dei 3.564.000 euro ricevuti fra il 2002 e il 2007, l'Università di Cagliari ha speso appena il 39 per cento, quella di Sassari, che aveva ricevuto la stessa cifra ha utilizzato il 98 per cento dei soldi.
Un'ottima percentuale, si dirà. Molto meno commendevole è l'uso che ne è stato fatto a favore della lingua per la quale è stato impiegato appena il 27 per cento; tutto il resto è andato alle aree disciplinari geografica, antropologica, storica, artistica, giuridica ed ecologico-ambientale. Molto peggio è avvenuto a Cagliari che per l'area linguistica ha speso solo il 10 per cento. Deprimente l'uso dei denari pubblici per l'uso veicolare della lingua, per l'insegnamento in sardo, cioè, delle altre materie. A Cagliari è stato impiegato lo 0,5 per cento degli oltre 3 milioni e mezzo, a Sassari lo 0 per cento.
Anche di qui, penso, la decisione dell'attuale governo sardo di affidare alle università 500.000 euro con la condizione che siano utilizzati per la lingua sarda.
La serie di numeri e di percentuali può apparire noiosa e difficile da seguire. Ma è utile a far capire e a capire due cose credo importanti: la prima è che non è elegante lamentarsi per la diminuzione degli stanziamenti, quando in certi casi o non sono stati utilizzati o sono stati mal utilizzati; la seconda è che le università sarde farebbero meglio a rivendicare la loro specialità e peculiarità non sulla base di ragioni geografiche (la insularità) ma sui motivi culturali e linguistici che dovrebbero fare di loro e della Sardegna davvero una regione speciale.
Detto questo, che mi sembra onesto far conoscere, il grido di allarme che si leva dagli atenei sardi non può non essere raccolto e io lo raccolgo. Con la speranza che gli odierni motivi di apprensione inducano per il futuro a considerare che la peculiarità della Sardegna non è solo di ordine economico e geografico.

PS – Ad oggi, scaduti già i termini per la presentazione degli emendamenti, non è arrivata né alla mia casella in Senato, né al mio indirizzo di casa, né alla mia posta elettronica, né ai telefoni del mio ufficio a Cagliari, né al telefono di casa (pubblicato nell'elenco telefonico, unico dei parlamentari sardi) alcuna lettera di sensibilizzazione al problema sollevato dai rettori delle università sarde. D'altra parte, quale sia l'ordine del giorno dei lavori del Senato è facilmente leggibile nel sito istituzionale di Palazzo Madama. Il rettore Mastino avrebbe agevolmente visto che se voleva inviare la lettera annunciata sui giornali doveva fare molto presto e non pensare che un annuncio sui media costituisca di per sé proposta di emendamenti alla legge che è già in discussione. Non vorrei che da questo annuncio non seguito da fatti, qualcuno traesse la conclusione di insensibilità mia o di altri colleghi a buoni motivi che ancora non conosco se non per una frase sui quotidiani.

martedì 17 novembre 2009

I magistrati facciano il loro dovere, il Parlamento il suo

“La legge è uguale per tutti” è un principio che definisce la qualità di una democrazia come quella in cui viviamo. In quanto tale è inderogabile per tutti, per cittadini, per i loro rappresentanti e anche per i magistrati. Ad essi, come è noto, spetta far rispettare la legge e applicarla, ma non di farne di nuove, compito che spetta al Parlamento, come sa la grande maggioranza di essi che di conseguenza si comporta. Lo sancisce la legge fondamentale della Repubblica, secondo cui i poteri non solo devono essere distinti ma anche rispettati nella loro autonomia. Se è vero, come è vero, che il potere esecutivo e quello legislativo non devono interferire con il potere giudiziario è altrettanto vero che quest'ultimo non deve interferire con i primi due: ciascuno deve svolgere il proprio ruolo in piena autonomia e nel rispetto delle leggi cui sono tenuti tutti, compresi i magistrati.
Mi perdonerete, cari amici, questa introduzione che sa un po' di pedanteria, ma, putroppo, di questi tempi tale principio va ricordato sempre più spesso. Anche, e soprattutto, all'opposizione che è avvolta in un maniacale desiderio di affidare ad una parte della magistratura un compito che la minoranza non riesce a svolgere: vincere la sua battaglia contro Silvio Berlusconi. Io conosco, e per loro nutro profonda stima, molti magistrati che mai e poi mai eserciterebbero la loro insostituibile funzione rispondendo alle proprie preferenze politiche. Ma quando, in Senato, getto lo sguardo ai settori dell'opposizione, non posso fare a meno di considerare che su quei banchi siedono ex magistrati che hanno lasciato il loro posto immediatamente prima di essere eletti al Parlamento.
La politicizzazione di ambienti della magistratura non è un teorema usato per criticarli o per atteggiarsi a vittime: è una realtà palpabile. E sfido qualsiasi cittadino in buona fede ad aver fiducia sulla imparzialità ed equanimità di un pm che prima chiama a processo il presidente del Consiglio e poco dopo si candida a rappresentare in Parlamento la parte politica contraria al premier.
Se si travolge il giusto equilibrio fra i poteri e si lascia ai giudici di cambiare quel che gli elettori hanno deciso, chi assicura gli attuali oppositori che domani, diventando essi maggioranza, non siano sottoposti agli stessi tentativi che oggi si compiono per far cadere l'attuale primo ministro? In uno stravolgimento dell'equilibrio dei poteri e nell'affidamento ad un “partito dei giudici” di competenze diverse da quelle proprio dell'ordine giudiziari,o c'è non solo un pericolo per la democrazia ma anche l'annuncio di un terrificante Stato etico. Uno Stato che, non si faccia illusioni l'attuale opposizione, domani non avrà alcun occhio di riguardo nei confronti di chi oggi si muove per aprirgli le porte. Il paragone è volutamente iperbolico, ma dà il senso delle cose: il ghigliotinatore Roberspierre finì ghigliotinato.
Riflettevo su questi amari aspetti dell'attacco di alcuni Pm al presidente del Consiglio, quando ho letto del pronunciamento di un magistrato milanese, secondo cui l'assemblea della Fao non rappresenterebbe un “legittimo impedimento” a che Berlusconi si presenti ad una udienza processuale: venga la mattina a Milano e nel pomeriggio potrà essere di nuovo a Roma, ha detto il pm. Dove mai, se non in una democrazia insidiata, un magistrato avrebbe osato dire a un capo di governo come organizzare i suoi impegni e i suoi appuntamenti istituzionali? Quando mai un magistrato può dettare un'agenda a un primo ministro?
Il fatto che questo pronunciamento non avrà conseguenze non ne diminuisce la gravità. Negli ultimi quindici anni la quantità di Pm che hanno appuntato la loro attenzione sul cittadino Berlusconi è abnome così come sproporzionato è lo sforzo per incastrarlo con ogni mezzo, con un accanimento che a nessun criminale conclamato è stato riservato. Né, secondo i rumors più o meno attendibili, i tentativi sono finiti, quasi ci fosse un impegno deciso ad ostacolare la fine naturale della legislatura. La legge è uguale per tutti, certo, e personalmente non condivido nella loro interezza tutti gli sforzi che si fanno per mettere al riparo Berlusconi dall'accanimento presente e futuro. C'è in alcuni di questi sforzi il rischio che scelte molto opportune di giustizia sostanziale per tutti i cittadini (penso al cosiddetto processo breve) prevalga l'idea che si tratti di leggi costruite intorno ad una sola persona invece che a tutte le persone di questa Repubblica.
Ma io credo in tutta sincerità che nessun organo dello Stato, al di fuori del Parlamento, nessun altro corpo che non sia quello elettorale possa mettersi in testa di bocciare un Esecutivo nei tempi e nei modi non previsti dalle leggi. Io mi onoro dell'amicizia di Berlusconi, ma il problema aperto dall'accanimento di una parte della magistratura travalica la persona e coinvolge la stessa tenuta del sistema democratico che, due secoli e mezzo dopo la scrittura di Lo spirito delle leggi, è regolato dalla divisione dei poteri indicata da Montesquieu.

lunedì 16 novembre 2009

Parchi eolici e dietrologie. Il problema sta nei poteri della Sardegna

Non mi appassionano le dietrologie e le teorie sui complotti, tanto in voga presso certa cultura mediatica e politica. Ricordate il “complotto” clerico-massone-mattonaro a cui, secondo questa teoria, si dovrebbe il fatto che oltre mezzo milione di sardi ha scelto il centrodestra? Sciocchezze allo stato puro, risibili se non entrassero nelle discussioni di tanta gente in buona fede e disarmata. Figurarsi se posso vedere un “disegno” o un “complotto” filo-nucleare nei ripetuti tentativi di creare parchi eolici in posti in cui non è tollerabile impiantarli: vicino alle coste, in prossimità di emergenze archeologiche, e così via.
La tesi del complotto o del disegno machiavellico, riecheggiata anche in questi giorni da qualcuno, è che da innumerevoli parti si vanno proponendo impianti eolici per sollecitare tondi e irriducibili No, in modo da dare al governo l'alibi di imporre esso delle soluzioni, come il nucleare. In termini di paradosso ho scritto qualche giorno fa che il fronte del No a tutto poteva indurre cittadini esasperati e disperati dalla crisi delle industrie energivore a rivendicare energia a basso costo quale che sia la fonte, anche la nucleare. Un paradosso, appunto, che non tiene conto delle volontà della politica, della società e, soprattutto, della grande maggioranza dei sardi.
La corsa a scoprire, nelle carte, nei progetti presentati, nelle voci nuovi insediamenti minacciati è un dovere di cronaca dei giornali e in questo lo adempiono con scrupolo. Di tanto in tanto, sbucano politici dell'opposizione per denunciare, certi di avere visibilità, le oscure manovre di un governo assetato di centralismo e di voglia di affossare le autonomie. Figurarsi, dicono, che il governo considera le acque intorno alla Sardegna come appartenenti allo Stato. Sarebbe curioso che così non fosse, per ragioni costituzionali. Ragioni modificabili con un nuovo Statuto speciale della Sardegna, naturalmente.
Nel disegno di legge che ho presentato al Senato e che riprende la proposta del Comitato per lo Statuto, è scritto, per esempio, che “il popolo sardo, il territorio della Sardegna e delle sue isole, il mare e il cielo territoriale, l’ambiente, la lingua, la cultura e l’eredità culturale, materiale ed immateriale, della Sardegna costituiscono la Nazione sarda”. Perché questa previsione di ordine costituzionale sia realtà è necessario che prima di tutto i sardi e il loro Parlamento regionale lo vogliano e si battano per ottenerla.
Non mi pare che ci sia in Sardegna una corsa a discuterne e a decidere. Da nessuna parte, né da chi questa proposta ha fatto propria, né da altre parti. Da queste, anzi, nelle poche volte in cui se ne parla, vengono critiche o strumentali (si tratta di una proposta “inadeguata e arretrata”, per l'amico Maninchedda”) o apocalittiche (è una proposta “separatista” per Gianfranco Sabatini). Se ci va bene che le cose continuino a stare come sono, almeno non ci si astenga da fare proteste sterili e prive di contropoposte che fanno la gioia di chi vuol conservare l'esistente.

venerdì 13 novembre 2009

La Soprintendenza risponde alla mia interrogazione a Bondi

La Soprintendenza archeologica ha affidato alla stampa una sua risposta alla mia interpellanza sullo scempio della cosiddetta Tomba del re nel complesso preistorico di Sos furrighesos di Anela-Ittireddu. Aspetterò naturalmente la risposta del ministro Bondi, a cui l'interrogazione è rivolta, per dire se le mie domande sono state soddisfatte, ma non posso non esprimere compiacimento per il fatto che la Soprintendenza abbia dato la sua versione dei fatti direttamente all'opinione pubblica.
Che cosa afferma? Il titolo dell'articolo che dà notizia della presa di posizione, “Nessun vandalismo ad Anela”, è smentito dal testo che racconta, invece, di un atto vandalico commesso nel 1971 e del sopralluogo fatto nei giorni successivi la mia interrogazione. “L’archeologo Giovanni M. Martis, assieme ai carabinieri del Nucleo tutela dei beni culturali, la mattina dell’11 novembre, nonostante le condizioni climatiche proibitive, con fortissime precipitazioni e nonostante i pericoli legati a un percorso in forte discesa, ha raggiunto il sito archeologico” è scritto nell'articolo che riporto perché nessuno fuori della Provincia di Sassari ne sarebbe informato..
“La tomba in questione è stata ispezionata con grande attenzione, in particolare le pareti della cella principale, interessate da un complesso di incisioni «stratificate» ascrivibili a diverse epoche. È stato poi effettuato un meticoloso confronto tra le decorazioni visibili nell’ipogeo e i rilievi delle incisioni, oltre alle fotografie contenute nella più importante pubblicazione della necropoli, che risale al 1984. È così risultato che la situazione della Tomba dei Re è identica a quella delle foto pubblicate 25 anni fa”.
L'archeologo Giovanni Demartis dà anche una possibile spiegazione al fatto che il Gruppo ricerche Sardegna (che ha lanciato l'allarme da me raccolto) abbia potuto pensare ad un vandalismo recente: il contrasto fra la parete annerita dalla fuligine e l’aspetto delle parti danneggiate, a prima vista può far pensare a una azione recente, ma così non è: il tentativo di asportare alcuni dei petroglifi della tomba risale proprio agli inizi degli anni Settanta.
Ripeto: attenderò dal ministro dei Beni culturali una risposta alle mie domande che prescindono dall'epoca in cui l'atto vandalico è stato commesso e che pongono più generali questioni di tutela del nostro patrimonio culturale. Al momento altro non mi resta se non sottolineare come la mia interrogazione abbia legittimamente posto all'attenzione di tutti lo stato di abbandono di beni tanto preziosi. Dal 6 aprile 1971 la necropoli di Anela è sottoposta a vincolo sulla base di una relazione dell’archeologo Ercole Contu. La fuligine trovata dal dr Demartis qualche giorno fa ad annerire la tomba, sta quanto meno a significare che il vincolo posto dalla Soprintendenza non è bastato a proteggere quel che resta della necropoli.

giovedì 12 novembre 2009

Sos furrighesos di Anela e il dibattitto sulla tutela dei beni culturali

Ringrazio tutti coloro che stanno partecipando alla discussione sullo scempio di Sos furrighesos di Anela, anonimi, semianonimi e persone che alle loro opinioni danno una faccia. Sapevo, evindentemente, che le questioni legate alla tutela del nostro patrimonio culturale sono di grande interesse. Oltre ai vostri post, ho ricevuto molte telefonate e mail personali, per lo più di sostegno, ma anche critiche della mia iniziativa. Succede spesso. Segno che l'uso dei blog per comunicare pareri e posizioni personali è molto meno diffuso di quanto si pensi: si legge in moltissimi, si scrive in molto pochi.
La discussione si è fatta accesa ed è comprensibile, dato che il problema della tutela dei beni culturali è appassionante, soprattutto in una terra come la nostra, ricchissima di monumenti e povera di mezzi. Apprezzo l'invito a moderare i toni e l'accoglimento dell'invito, anche se ho l'impressione che non sia del tutto chiaro quale sia il ruolo di un parlamentare. Uno domanda perché non sa tutto quel che c'è da sapere, altrimenti non esisterebbe l'istituto dell'interrogazione. Normalmente, le persone poco si curano di quanto un parlamentare scrive e dice svolgendo i suoi compiti di sindacato ispettivo e di proposta di leggi perché, normalmente, la stampa non se ne occupa.
Chi non avesse letto su questo blog del mio disegno di legge a favore dei malati di Alzheimer, nulla saprebbe né di che cosa propongo né del perché l'ho fatto. Questa proposta ha avuto a lungo una pagina sul Televideo della Rai e in appoggio al mio disegno di legge (n. 496) è in corso una petizione popolare che ad oggi ha raccolto 1692 firme, poche se la stampa ne avesse dato notizia, moltissime se si considera il silenzio che ha circondato sia il disegno di legge sia la petizione.
Eppure i malati di Alzheimer in Italia sono attualmente circa 600.000 (1.000.000 se si considerano anche gli altri tipi di demenza) ed entro il 2025 è previsto il raddoppio dei casi. Una piaga sociale di grandi dimensioni, insomma, e drammi umani indicibili stanno dietro i numeri. Ma, si sa, in una società della comunicazione come la nostra, ciò che non approda alle pagine dei media semplicemente non esiste. Non sono esistite interrogazioni che hanno segnalato e contribuito a risolvere importanti problemi, né sono esistite leggi che mi hanno trovato primo firmatario e coofirmatario come, faccio il primo esempio che mi viene in mente, le norme a favore delle Onlus.
Le domande che ho posto al mio amico ministro Bondi, domande pacate desiderose di risposte auspicabilmente rassicuranti, hanno suscitato discussioni pubbliche come quelle su questo blog, dialoghi privati fra me e miei interlocutori e, a quanto dice un anonimo, interessamento della Soprintendenza, non perché io ho chiesto delucidazioni al ministro dei Beni culturali, ma solo perché la notizia è apparsa in una cronaca. Come dire che se la questione si fosse risolta fra me e il ministro, con mie domande e sue risposte, nulla da ridire. Ancora meglio se neppure della risposta di Bondi si avesse avuto sentore.
Ora, amici intervenuti su questo blog – tralascio le reciproche pizzicature con un altro interlocutore – assicurano che sì lo scempio nelle Domus de jana di Anela c'è stato, ma trentanni fa, non quando lo ha scoperto e denunciato il Gruppo ricerche Sardegna. Se questa è la realtà delle cose, sono sicuro che il ministro dei Beni culturali ne sarà informato dalla Soprintendenza sarda che gli dirà anche quali indagini furono fatte per assicurare alla giustizia i criminali e per recuperare i bellissimi reperti asportati. In questa prospettiva, che l'atto vandalico sia avvenuto avantieri e trenta anni fa riguarda solo il fatto che il reato sia stato prescritto, non la gravità dello stato di abbandono di testimonianze preistoriche come questa che, mi si dice, è eccezionale.
Questa mia interrogazione, in più, ha anche lo scopo di sollecitare una maggiore attenzione che lo Stato e la Regione, in un costituzionale spirito di leale collaborazione, devono assicurare al nostro patrimonio culturale.
Nella foto: così era la parete della tomba prima del vandalismo

mercoledì 11 novembre 2009

Troppi no diventano insensati e controproducenti

Nella complessa vicenda dell'energia eolica si mescolano alcune cose prevedibili e qualche preoccupazione. Era prevedibile che suscitasse tanto interesse nei media, nei cittadini, nella politica ed è scontato che la malavita tentasse e tenti di mettere le mani in affari economici di enorme portata. La preoccupazione è che il No pregiudiziale, sempre e comunque, prevalga sul Sì motivato, molto attentamente valutato, capace di altrettanto motivati e valutati No.
C'è, al solito, un fronte del No che si estende dal nucleare in Sardegna (ed è un no giusto, naturalmente, da me più volte detto) all'attraversamento dell'Isola del gasdotto, alla costruzione della pur necessaria centrale di smistamento, all'uso del carbone per produrre energia, ai parchi voltovoltaici, agli inceneritori produttori di energia e, forse, dimentico qualche altro No. D'altra parte, alcuni dei patrocinatori del No sono personalmente o politicamente responsabili della calata in Sardegna di industrie cosiddette energivore, consumatrici di enormi quatità di energia, cioè.
Queste industrie, con il loro patrimonio umano di lavoratori, tecnici, dipendenti di industrie collaterali vanno salvate. Ed è giusto battersi in questo senso. Ma l'energia che “divorano”, da dove dovrebbe provenire se si dice di no a tutto ciò che potrebbe produrla? Io intravedo il rischio che, non so con quale inconsapelezza, questo fronte del No a tutto prepari le condizioni perché disoccupati, lavoratori a rischio e loro famiglie, per disperazione invochino la costruzione di una centrale nuclerare, sicura fonte di energia abbondante. È un paradosso, naturalmente, ma con la disperazione non è lecito giocare: non si può allo stesso tempo volere industrie energivore e negare la produzione di energia a basso costo, unica condizione perché esse sopravvivano.
Anche io ho detto con forza no alle pale eoliche a Is Arenas, nel Golfo di Cagliari e ovunque esse deturpino l'ambiente sardo, un bene non solo estetico ma anche economico. Ma il no sempre e comunque all'utilizzo di un qualcosa non consumabile come il vento è una pura sciocchezza. Discutiamo quale sia la strada migliore per produrre energia pulita e rinnovabile, ma non rassegnamoci ad una politica del No.
La criminalità organizzata vuol allungare le sue grinfie sull'energia eolica? È nell'ordine delle cose e, se anche è per ora una ipotesi di indagine giudiziaria, sia pure ben fondata a quel che si legge, per questo esistono le varie forze di polizia. Ovunque esistano interessi rilevanti, dallo smaltimento dei rifiuti all'attività infrastrutturale agli impianti eolici, la criminalità tenta di fare i suoi affari illegali. Ma a nessuno verrebbe in mente, per questo, di non raccogliere l'immondizia o di non costruire strade e ponti. Persone sensate hanno a disposizione non solo la personale vigilanza ma anche, e soprattutto, le forze dell'ordine e la magistratura.
Scagliarsi, come qui e là mi pare di intravedere, contro l'eolico perché c'è pericolo di infiltrazioni mafiose o camorriste è lo stesso del battersi contro una grande via di comunicazione perché c'è il rischio, o anche la certezza, che i criminali ci facciano un pensierino. In una società adulta, chi governa progetta e fa, chi tutela la legalità arresta e sbatte in galera chi delinque. A tutti gli altri, il compito di vigilare sull'uno e sull'altro.

lunedì 9 novembre 2009

I vandali di Sos furrighesos di Anela. Interrogazione

Ignoti vandali hanno fatto scempio di preziosi graffiti preistorici nelle Domus de jana di Anela-Ittireddu. In particolare, i criminali hanno devastato la cosiddetta "Tomba del re" nel sito meglio conosciuto come Sos furrighesos. Ne ha dato notizia il Gruppu ricerche Sardegna nel blog di Gianfranco Pintore. Su questo grave atto di vandalismo ho presentato una interrogazione al ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi. Questo il testo:

Premesso che
risulta dalla denuncia fatta dal Gruppo ricerche Sardegna sul un blog sardo che il giorno 4 ottobre scorso, membri del GRS stesso hanno verificato un atto vandalico nelle Domus de jana di Anala-Ittireddu, meglio conosciute come Sos furrigheddos;
nella cosiddetta “tomba del re”, ricca di segni preistorici, anonimi hanno probabilmente scalpellato e asportato le figure più significative:
una delle componenti il gruppo, facendo ricerche su pubblicazioni riguardanti quella e altre tombe ipogeiche, ha rintracciato una vecchia fotografia riproducente il sito originario:
dal confronto fra tale fotografia e lo stato attuale della parete della “tomba del re” risulta mancante lo splendido graffito di un cervo e quello di un altro animale, mentre non sono stati fortunatamente toccati altri disegni;

Considerato che:
i vandali hanno probabilmente asportato i due graffiti o per contrabbandare per proprio conto gli importanti reperti o dietro commissione di ignoti non sprovveduti estimatori dell'arte preistorica;
lo scempio commesso è di grande entità;
il danno arrecato al patrimonio culturale è in qualche modo recuperabile solo se i ladri saranno scoperti e i reperti rintracciati;

si chiede di sapere
se risulta alla Sovrintendenza della Sardegna la commissione del grave attentato al patrimonio culturale che essa è preposta a salvaguardare;
se essa Sovrintendenza abbia denunciato i fatti al Nucleo dei carabinieri per la tutela dei beni culturali e se sì se stiano svolgendo ricerche utili alla cattura dei responsabili del vandalismo e al recupero dei reperti;
se non ritenga, in uno spirito di leale collaborazione fra Regione sarda e Stato, interessare la prima alla necessità di vigilare sull'enorme patrimonio culturale presente in Sardegna.

domenica 8 novembre 2009

L'autonomia si esercita, non la si strilla

Cari amici,
intanto una considerazione generale: non mi irrita la contestazione anche quando, in alcuni casi, la foga fa allentare il bon ton e da la stura a frasi che, sicuramente, in un ragionamento pacato non sarebbero state scritte. La tolleranza e la moderazione sono caratteri che rivendico al mio modo di pensare. Del resto, ho scelto io di fare il lavoro che faccio e so che, per fortuna, in democrazia è naturale che un rappresentante degli elettori sia bersaglio sia di rappresentati sia, a maggior ragione, di chi non si sente rappresentato.
Detto questo, mi piacerebbe che nel dialogo, anche il più aspro, si tenesse conto di quel che si dice o scrive, senza che vi si cerchino pensieri non espliciti o, peggio, nascosti. Ma forse questo desiderio contrasta con le passioni e con le prevenzioni. Pazienza. Motivo conduttore delle critiche che ho raccolto sul mio articolo “Quella sconcertante sentenza sul crocifisso” è un supposto abbassamento della qualità autonomistica mia e di altri come me. Si vorrebbero più strilli e più indignazioni contro chi, il governo della Repubblica, ha o avrebbe atteggiamenti e pratiche lesive della nostra autonomia. In questo caso, si tratta della Sassari-Olbia che ancora non vede la luce.
Io sono dell'idea che l'autonomia si esercita non la si proclama. I proclamatori, di regola, fanno grande baccano e danno a intendere che così facendo si costringa il sistema accentratore a scendere a patti. È la obsoleta concezione rivendicazionista e piagnona che non mi interessa perché, il più delle volte, o è sterile o alla fin fine accomodante. Nei sessant'anni di autonomia questa della vertenza, della rivendicazione e del pianto contro l'Italia matrigna è stata una strada lungamente percorsa, anche se, per fortuna, non sempre.
Per me l'autonomia è una pratica che si fonda sui poteri e le competenze che abbiamo, troppo pochi e per questo da dilatare al massimo possibile. L'ho dimostrato anche presentando in Senato un disegno di legge che fa propria l'avanzatissima proposta di Carta de Logu noa elaborata dal Comitato per lo Statuto, aspramente criticata da intellettuali della sinistra e anche, misteriosamente, dall'amico Maninchedda. Una pratica, dicevo, non una declamazione che, in quanto tale, si fa voce debolissima quando si tratta di esercitare concretamente l'autonomia.
A che cosa serve essere autonomisti se non a conquistare alla Sardegna maggiori spazi di autogoverno? A che serve se non a vedere realizzati con gradualità i progetti condivisi dal sistema autonomistico sardo, come la Sassari-Olbia, per esempio? C'è chi preferisce gridare contro le inadempienze del governo centrale e chi, come me, lavorare con gli strumenti propri di un parlamentare affinché il governo centrale mantenga gli impegni presi. Se i media avessero attenzione a quanto accade in Parlamento, pubblicamente intendo, se non si limitassero a raccogliere le voci di chi strilla di più, forse ci sarebbe più considerazione di quanto i parlamentari governativi e di opposizione fanno.
Capisco che, informati molto delle grida e poco del pacato tallonamento del governo, i cittadini scambino le grida per l'unica maniera di incidere sulle decisioni. Chi fa opposizione dimentica spesso che cosa sia governare un'economia in crisi che ha a disposizione una coperta corta. Dimentica anche che, quando ha governato, è stata costretta a tirare la coperta ora da questa parte, ora dall'altra, contenta se alla fine riusciva a rispettare gli impegni presi. La situazione con la Sassari-Olbia è grosso modo questa: l'impegno è stato preso, un accordo è stato fatto fra i governi centrale e sardo, i finanziamenti sono stati individuati, si tratta di stanziarli con atto formale. Questo – afferma il governo – ci sarà in tempo utile per dare il via ai lavori. Sa, il governo, che non si può permettere di mancare l'impegno preso perché – mi si perdoni la brutalità – prima o poi dovrà presentarsi agli alettori per una conferma.
Io sono convinto che più delle grida varrà la pacatezza e la fermezza usata dai parlamentari sardi (anche quelli dell'opposizione che spesso mostrano indignazione a beneficio dei media) nell'aiutare il governo al rispetto dell'impegno assunto con l'autonomia sarda. Altrimenti, come ho detto e scritto una infinità di volte, tutti ci ricorderemo che siamo prima di tutto rappresentanti del popolo sardo e poi anche uomini di partito.

sabato 7 novembre 2009

L'Asinara resti com'è. Ma ci vuole faccia tosta a...

Va da sé che sono e resto contrario alla reintroduzione di un carcere speciale nell'Isola dell'Asinara. Capisco le difficoltà del ministro Maroni che si trova a gestire gravi problemi di ordine pubblico, ma la sua idea non va. Per questo ha trovato oppositori quasi unanimi in Sardegna (all'appello manca un sindacato della polizia penitenziaria) e in ministri colleghi di quello dell'Interno. Sarà, quindi, probabilmente catalogata fra le proposte inopportune.
Più interessante è capire con quale legitimità gridino oggi alla “autonomia” e alla “sovranità sarda” offese, coloro che accettarono senza batter ciglio la istituzione nell'Asinara del “Parco nazionale”, fortemente voluto dalla giunta di sinistra guidata dal mio amico Federico Palomba. La legge che ne prevedeva l'istituzione, la famigerata 394 del dicembre '91, è una delle leggi più centraliste e accentratrici che si possa immaginare. La volle con tutte le sue forze la sinistra ambientalista, che però non potè fare a meno, data la specialità dello Statuto sardo, di prevedere che “il Parco Nazionale del Golfo di Orosei, Gennargentu e dell'isola dell'Asinara” (così doveva essere il parco secondo l'idea originaria ed originale) si potesse fare solo d'intesa con la Regione sarda.
Nessuna imposizione governativa, quindi: stava alla Regione dire di sì o di no, sapendo – come più volte sottolinearono i critici – che dicendo di sì, la Regione si spogliava della sua “sovranità” sull'isola, consegnandola alla gestione dello Stato. Un atto volontario, cioè, di rinuncia alle prerogative della Sardegna. Volendo, vi si poteva istituire un Parco regionale, ottenendo la stessa salvaguardia e tutelando così la titolarità della gestione in capo alla Regione. Fu la sinistra a volere che fosse lo Stato a gestire tutto, lasciando alla Sardegna solo alcune briciole di rappresentanza.
I ministri competenti di questo governo hanno detto di no al loro collega Maroni. Ma se avessero detto di sì, noi sardi avremmo avuto una bella battaglia da combattere affinché l'Asinara (teoricamente regalata dalla sinistra alla gestione diretta dello Stato) non diventasse nuovamente carcere speciale.

mercoledì 4 novembre 2009

Quella sconcertante sentenza sul crocefisso

Comunque la si legga, e pur con tutto il rispetto dovuto, la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo è sconcertante. In primo luogo perché affermando la volontà di difendere “la libertà religiosa”, in realtà limita la libertà di manifestarla. In secondo luogo perché, quando la magistratura entra con tanta forza in questioni che attengono libertà individuali e coscienze collettive, qualcosa nella convivenza dei popoli si è rotto o rischia di rompersi. Voglio dire: se fossero stati i cittadini, credenti e no, a decidere sulla permanenza del crocefisso nelle aule delle scuole, a malincuore e condividendo moralmente l'opposizione della Chiesa, non avrei potuto, da membro di uno stato laico, che prenderne atto.
Il fatto è che l'estromissione del crocifisso dalle scuole è presa con una sentenza, fortunatamente appellabile e opportunamente contestata dal governo italiano in nome della stragrande maggioranza dei cittadini. Il crocefisso, infatti, non è solo un segno religioso ma è simbolo di amore fra gli uomini, di tolleranza e di libertà
Da sardo ho vivissimo il senso dell'ospitalità, che sento non come dovere giuridico, ma come modello morale della civiltà della mia Terra. L'ospite per noi è sacro e come tale è accolto e rispettato. Ma nessun ospite è legittimato a lagnarsi se in casa troverà un crocifisso o una qualsiasi icona religiosa che non sia consona al proprio credo o alla propria agnosticità, così come non mi permetterei mai di rimproverare chi mi ospita perché in casa sua o ci sono segni di altre religioni o non ce ne sono affatto. Non imporrei mai a qualcuno di liberarsi di un segno della sua identità religiosa, come a me è stato fatto in qualche viaggio in Paesi islamici, dove mi è stato imposto di nascondere la catenina con il crocefisso.
Non credo che un Paese islamico, di fronte alla immigrazione (numerosa o poca non importa) di cittadini di altre fedi debba essere indotto a liberare i luoghi pubblici dei segni religiosi, per timore di offendere la libertà religiosa degli ospiti. La prosopopea laicista (parte integrante dell'altra propopopea, quella eurocentrica), imponendo in Italia quel che certamente non potrebbe imporre in Arabia Saudita, sta in realtà affermando la supposta superiorità della concezione laicista su quella religiosa. Un modo, questo, per non affrontare con coraggio e decisione il complesso problema delle identità e delle diversità, senza capire che, in campo religioso come in quello politico, culturale e istituzionale, le une debbono necessariamente coesistere con le altre.
A me è capitato, negli anni 80, e ne parlò la stampa, di vedere un gruppetto di studenti iraniani strappare via il crocefisso da una parete della mensa universitaria di Sassari. Corsi a risistemarlo al suo posto, fra le minacciose proteste degli studenti che cercarono anche di darmi una lezione. Resistetti con un nutrito lancio di pane secco e riuscii ad andarmene. Non vorrei venire a sapere ora che avevano ragione gli studenti iraniani e torto io.

sabato 31 ottobre 2009

Deroghe per una giustizia migliore o per ragioni di casta?

Ho dovuto rileggere più volte, stamattina, l'intervista di un componente del CSM per assicurarmi che il mio stupore non nascesse da fraintendimenti o da una lettura affrettata. E invece purtroppo no: la conclusione di Fiorella Pilato, presidente della prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, è che leggi della Repubblica devono essere cambiate per non intaccare privilegi di casta. Mi rimane ancora un dubbio e una speranza, che abbia frainteso l'intervista del magistrato con un quotidiano sardo.
Tutto parte dalla situazione della giustizia in una sessantina di cosiddette sedi disagiate, fra le quali quella di Nuoro, dove mancano da tempo quattro dei pubblici ministeri in organico e dove gli avvocati sono in agitazione per la paralisi in atto. Secondo l'esponente del CSM, che conosco e stimo tanto da restare incredulo, per risolvere la questione bisognerebbe derogare alla legge consentire che in Sardegna a “un giudice penale di una delle due sezioni” sia consentito di svolgere il ruolo di Pm nell'altra. Per carità, niente di male se questa deroga fosse l'unica possibilità per rimediare, almeno temporaneamente, al disastro incombente.
Ma non è l'unica possibilità: ce n'è un'altra più razionale e rispettosa di una legge approvata dal Parlamento, entrata in vigore, non eccepita dalla Corte costituzionale e, non ostante ciò, ancora contrastata da magistrati che non si rassegnano. È la possibilità e opportunità che il Csm provveda a trasferire nelle sedi disagiate magistrati che operano in sedi più agiate o che sono in sovrannumero altrove. Chi sceglie di farlo ha benefici economici e altri benefici, ma nessuno vuol venirci. Alla domanda sul perché, Fiorella Pilato risponde, credo testualmente: “Perché c'è il mare di mezzo e i soldi in più consentono giusto di non rimetterci di tasca”.
Un magistrato, insomma, come un carpentiere che, lui sì giustamente, rifiuta di trasferirsi lontano da casa perché il salario in più gli consente “giusto di non rimetterci di tasca”. Curioso, ho sempre avuto del delicatissimo lavoro di un magistrato l'idea che il suo si assomigliasse più a una missione che ad un impiego. “Accadrebbe” continua la dottoressa Pilato “che a rimetterci sarebbero solo gli utenti, che avrebbero a che fare con un ottimo professionista, ma poco motivato e costretto a svolgere un'attività per la quale non ha alcuna preparazione specifica. Ecco una delle ragioni per cui a risolvere le carenze di organico della Procura di Nuoro e di tutte quelle che si trovano nella stessa situazione, non può essere il trasferimento d'ufficio dei magistrati”.
C'è un'altra ricetta, nelle sue parole: quella dell'accorpamento delle Procure e della conseguente abolizione di alcune di esse. Una “razionalizzazione” che non si riesce a fare “per la resistenza delle comunità locali”. Sbaglio o questo apparente buon senso nasconde una volontà corporativa? La stessa che sembra muovere il sindacato dei magistrati nella sua levata di scudi contro la riforma della giustizia? Sarei rassicurato e davvero grato a chi dimostrasse che questi dubbi e queste domande sono infondati

venerdì 30 ottobre 2009

I magistrati applichino le leggi: a farle ci pensa il parlamento

Non avrei da ridire nei confronti del sindacato dei magistrati che manifesta contro le severe parole del presidente del Consiglio nei confronti di alcuni pubblici ministeri di Milano. La libertà di manifestare le idee è un valore in sé e riguarda tutti i cittadini, magistrati compresi. La condanna di Berlusconi dei “pm comunisti di Milano” non era, né poteva essere, condanna dei magistrati nel loro insieme, ma di quelli che mostrano un'accesa politicizzazione nel loro operato. Ma capisco, pur senza condividerlo, un moto di solidarietà corporativa.
Quel che leggo nelle cronache della manifestazione di ieri a Cagliari è, però, assai preoccupante sia per l'oggetto vero della contestazione delle toghe (le leggi che il Parlamento si appresta a discutere e ad approvare) sia per gli alleati che i magistrati sardi si sono trovati accanto, la Cgil e l'Italia dei valori. Spero solo che non siano stati ricercati e che se li siano trovati casualmente accanto. In una democrazia parlamentare, i magistrati applicano le leggi, non sono chiamati a deciderle e a farle. Questo è un compito del Parlamento. E allora, quando leggo che nel mazzo della protesta e dello sciopero c'è la contestazione alla riforma della giustizia, provo una profonda inquietudine.
C'è, magari non espresso, un disprezzo del Parlamento nella denuncia che si è sentita pronunciare, secondo cui la riforma della giustizia è studiata per “punire la magistratura”. Se si ha questo concetto del potere legislativo, quello preposto a fare le leggi che la magistratura poi deve applicare, temo che la “repubblica dei giudici” smetta di essere una iperbole mediatica e diventi un progetto. Quanto consono ad una moderna democrazia lascio a voi immaginare.
Ieri a Cagliari, sono state dette cose sacrosante riguardo allo stato della giustizia in Sardegna e, soprattutto, in province come quella di Nuoro dove regna la paralisi quasi assoluta. Da quelle parti si dice: “Mezus manchet su pane ma non sa zustìtzia”, meglio che manchi il pane piuttosto che la giustizia. Mancano l'uno e l'altro, ma solo la malafede può addebitarne la responsabilità a questo governo, sapendo che la crisi industriale è frutto di scelte sbagliate fatte nel passato e che la crisi della giustizia è endemica e provocata anche dalla difficoltà di trovare magistrati disposti ad insediarsi in una sede "disagiata".
C'è, insomma, un concorso di cause che andrebbero affrontate e risolte con serie riforme economiche, sociali e culturali, compresa quella della giustizia che, dicono gli avvocati delle Camere penali, è contrastata dallo spirito di casta che ha contagiato il sindacato dei magistrati. Nella mia attività di parlamentare, la questione della amministrazione della giustizia nella mia Terra è sempre ai primi posti e continuerà ad esserlo. Si può ben immaginare, quindi, come le sollecitazioni venute dai magistrati dell'Isola in questo ambito mi trovino d'accordo.
Ignoro se anche altrove, ma in Sardegna il sindacato delle toghe ha trovato non so quanto graditi alleati nel segretario della Cgil, Enzo Costa, e nell'esponente dell'Italia dei valori, Federico Palomba. Dal primo è venuta questa sorta di analisi: “E’ evidente che esiste un disegno preordinato per avviare un processo di destabilizzazione della società, partendo dai valori”. Dal mio amico Palomba queste espressioni: “Questo Governo ha interesse a mantenere lo sfascio della giustizia per poterlo addossare sui magistrati e trovare pretesti per poterne comprimere l’autonomia e l’indipendenza”. Mi auguro abbia provato un po' di imbarazzato rossore nel pronuciare simili frasi, forse sapendo che, spesso, una visibilità sui giornali è legata al tono con cui si dicono.
Commentare queste sciocchezze non ha alcun interesse. Certa è una cosa: se i magistrati sardi non sono politicizzati, dovrebbero con sdegno respingere questi tentativi di politicizzazione, il cui tasso di cultura politica lascia molto a desiderare.