lunedì 7 dicembre 2009

I rifiuti pericolosi di una industrializzazione sbagliata

Quando si parla di produzione di rifiuti pericolosi da parte dell'industria sarda, tutti sappiamo che, detta alla grossa, si tratta di numeri importanti. È quando si passa dalla sensazione alle cifre che ci si rende conto di quanto disinvolta sia stata l'industrializzazione nei decenni passati. Soprattutto nelle aree, come il Sulcis, in cui più acuta si è fatta in questi ultimi tempi la crisi. La Sardegna, dice l'Istat, produce 220.969 di tonnellate di rifiuti pericolosi, quelli non pericolosi sono 4.100.000 tonellate. Ogni cento chili di rifiuti prodotti nell'Isola, qualcosa più di 5 chili sono pericolosi.
Sono di per sé numeri rilevanti, che diventano inquietanti se letti così come si ricava dall'Istat. L'istituto di statistica segnala i parametri per fare un raffronto: in tutta Italia il 90 per cento dei rifiuti recuperati è rappresentato da quelli non pericolosi, in Sardegna “la quota di rifiuti speciali non pericolosi scende al 58,7 per cento a fronte del 41,3% di rifiuti pericolosi recuperati soprattutto nella produzione di metalli”. E dove si producono metalli, se non nel Sulcis? È lì, scrive il mio amico Mario Carboni, dove sono state impiantate “le ultime industrie coloniali;” ed è da lì che vorrebbero fuggire lasciando a casa migliaia di lavoratori e senza futuro le loro famiglie, dopo aver inquinato tutto ciò che c'era da inquinare.
Un altro caro amico mi racconta di aver visto su un quotidiano brasiliano molti anni fa una pagina pubblicitaria con la quale il governatore del Mato Grosso invitava le industrie straniere a installarsi in quel poverissimo stato, assicurando loro che non sarebbe stato lì a sottilizzare sull'impatto ambientale delle future fabbriche. È chiaro che ad ispirare il governatore era lo stato di disperazione dei suoi cittadini che avrebbero preferito morire, il più tardi possibile, avvelenati ma, per la vita concessa, a stomaco pieno.
La spaventosa crisi delle miniere che si è abbattuta prevalentemente sul Sulcis (ma anche all'Argentiera, a Gadoni, a Lula), assortita ad un dottrinarismo industrialista che ha confuso le menti della politica e del sindacato in quegli anni, ha comportato un abbassamento di attenzione sia nei confronti dell'industrializzazione proposta sia per quanto riguarda la certezza del rispetto ambientale. Certo, non ci fu la spregiudicata faccia tosta del governatore brasiliano, ma, questa sì, una negazione ostinata degli effetti inquinanti dei fumi d'acciaio, per esempio, e dei fanghi rossi.
Adesso migliaia di lavoratori e con essi le forze politiche, i sindacati, le amministrazioni e le istituzioni regionali fanno quel che è doveroso fare: difendere i posti di lavoro. Qualche partito e qualche sindacalista non riesce ad esimersi dall'utilizzare la disperazione della gente per fini propagandistici (si pensi solo all'allarme creato all'Alcoa, servendosi di una informazione falsa), ma queste sono le piccinerie di chi pensa che l'esibizione muscolare sia meglio del dialogo.
I dati preoccupanti forniti dall'Istat credo dovrebbero convincere tutti che da questo modello di sviluppo (che sviluppo non è, ma faticosa difesa dell'esistente) bisogna quanto prima passare ad un nuovo ed altro modello. Battersi con la massima unità possibile per salvare i posti di lavoro è un imperativo per tutti, ma la stessa unitarietà dovrà da subito essere raggiunta per progettare un modello di civiltà condiviso.

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