giovedì 30 luglio 2009

Un buon risultato per i sardi. Domani vedremo...

Sono sempre stato dell’idea che un movimento nasca per contribuire a risolvere un problema e non per fare esercizi muscolari o, anche, solo per comparire. E sono convinto che, avviato a soluzione il problema, il movimento esaurisca la sua funzione, riservandosi di rimettersi in azione il giorno in cui dovesse accorgersi che soluzione non c’è stata. Per questo, sono stato parte attiva in quell’azione unitaria dei parlamentari sardi che mirava ad assicurare alla Sardegna una più equa distribuzione di risorse fra le regioni dello Stato.
Una volta che la maggioranza ha impegnato il governo a finanziare in Sardegna quattro grandi opere (la strada Sassari-Olbia, il completamento della 131, la Dorsale sarda e il tunnel di Cagliari) ho ritenuto che il movimento unitario di cui dicevo avesse raggiunto il suo scopo. E il voto negativo che mi apprestavo a dare si è trasformato in un sì al Dfef. Lascio ai parlamentari dell’opposizione coltivare il mito del movimento come esibizione di muscoli.
Mi ha stupito, così, leggere di qualcuno che si è lamentato per l’assenza dei parlamentari di centro destra all’incontro ieri a Cagliari promosso dai sindacati. I parlamentari di centrodestra erano al loro posto di lavoro per tentare (con successo) di impegnare tutta la maggioranza a presentare e far approvare il documento di cui dicevo. È chiaro, o dovrebbe esserlo, che questa operazione politica a favore della Sardegna aveva priorità rispetto ad un incontro, pur importantissimo, promosso dai sindacati proprio mentre in Parlamento si cercava di risolvere questioni che non sono certo indifferenti per gli stessi sindacati. È bene che tutti ci rendiamo conto che un molto ipotetico diniego del governo andrebbe contro la sua maggioranza, oltre che contro la Sardegna.
Detto questo, e sempre pronto a ricredermi nel caso in cui il governo disattendesse la richiesta della sua maggioranza, quel che è successo con l’annuncio delle cifre del Dpef mostra a mio parere che ancora non c’è una cognizione precisa di che cosa significhi il percorso federalistico appena cominciato. La Lega nord, con l’unitarietà di intenti creata intorno agli interessi del Nord, ha semplicemente fatto il proprio dovere. Così come l’ha fatto il Movimento delle autonomie a favore della Sicilia.
In uno Stato che si avvia ad essere federale, al governo centrale spetterà sempre più di mediare e ricondurre ad unità gli interessi delle regioni federate. Ma questo può avvenire solo se le Regioni saranno capaci di prospettare con forza ed unitarietà questi loro interessi.
Con la forte mobilitazione unitaria a difesa del Petrolchimico di Porto Torres, partiti e forze sociali uniti hanno dato una dimostrazione del possibile. Una società unita è capace di prospettare al governo centrale una soluzione possibile dei problemi; una società divisa in contrastanti pulsioni politiche e sociali no, mettendo, fra l’altro, in imbarazzo un governo circa la soluzione da dare a un problema dato.
Classi dirigenti responsabili e radicate nelle terre che vogliono rappresentare non hanno bisogno di piagnucolanti vittimismi nei confronti dell’Italia matrigna: hanno (o devono avere) la capacità di avanzare con la dovuta forza unitaria richieste al governo centrale. Governo centrale che non può essere ritenuto responsabile per il mancato accoglimento di disegni e progetti e proposte credibili che non ci sono. Gli interessi della mia terra, la Sardegna, si possono difendere solo con l’unità delle sue classi dirigenti e di queste con il popolo che rappresentano. Se così succede, non c’è bisogno di partiti territoriali nuovi, oltre a quelli storicamente insediati, che, fra l’altro, rischiano di rappresentare interessi fra loro contrastanti, come potrebbe accadere con il ventilato Partito del Sud, il quale, detto per inciso, non potrebbe rappresentare la mia Sardegna, che del Meridione non fa parte.
Certo, se mai dovesse capitare che il governo centrale non si dimostrasse capace di mediare gli interessi, di essere portato a privilegiare le aree più forti e più popolate o di mantenere le promesse, la nascita di un forte partito autonomista territoriale sarebbe inevitabile.

lunedì 27 luglio 2009

Ignazio Marino e i garantisti a corrente alternata

Il senatore Ignazio Marino, candidato alla segreteria del Pd ed eccellente chirurgo, è nei guai per la pubblicazione di un documento riservato. Risulta a Il Foglio di Giuliano Ferrara (che pubblica la documentazione) che Marino abbia riscosso due volte una nota spesa di 8 mila dollari, commettendo un illecito amministrativo che gli sarebbe costato il posto alla Università di Pittsburg.
In svariate interviste, il senatore Marino ha spiegato come si sia trattato di un equivoco e non ho alcuna perplessità nel credergli. Chi, come me non è garantista a corrente alternata, non fa alcuna fatica nel credere all’innocenza di qualcuno, almeno fino a quando tre gradi di giudizio abbiano dimostrato il contrario. Tanto più grantista sono per una persona, come l’amico Marino, che stimo e conosco come professionista onesto e corretto. Ma non è questo, nella vicenda, che ha importanza, quanto le reazioni dei suoi compagni di partito, sconcertati dal fatto che uomini del Pd possano cadere nel tritacarne mediatico e politico.
Scoprono quanto sia reale l’avvertimento di Fabrizio Cicchitto: “Coloro i quali a livello politico cavalcano questa tigre [della campagna antiberlusconiana a colpi di pettegolezzi, ndr] non si rendono conto che da ora in avanti la vita privata di ogni personaggio pubblico sara' esposta ad ogni possibile ricatto e ad ogni possibile manipolazione”. Ed ecco lo stupore del Pd, a cominciare da quello di Franceschini: “Si tenta di sporcare l’immagine di uno scienziato di indubbia fama... con un metodo che non è degno dell’elegante quotidiano di Giuliano Ferrara” ha detto, come se a Il Foglio non si consentisse di comportarsi come il becero La Repubblica, la cui campagna Franceschini ha però lungamente cavalcato.
Quel che si è ritenuto lecito si facesse contro il nemico, non lo è con i compagni di partito: “Quando si vuol distruggere una persona, infamarla, le provano tutte” (Peppino Englaro). E ancora, questa volta in bocca alla sindaco di Genova, Marta Vincenzi: “La deligittimazione dell’avversario, pur nel rispetto della stampa, mi riporta ai vecchi tempi, a certi metodi della sinistra ma anche di certa destra”. Chi sa se hanno mai pensato le stesse leggendo le infamie scritte contro il principale dei loro nemici politici?
Domanda retorica, naturalmente. Il nemico può essere infangato (persino con ridicolaggini come le “tombe fenice” costruite quando i fenici non esistevano più); i compagni no, loro sono diversi e migliori senza obbligo di prova. Lo sono semplicemente perché hanno la tessera del Pd. Proprio come ai tempi di quella “sinistra stalinista” di cui parla la sindaco di Genova.
Forse siamo ancora in tempo a scansare l’imbarbarimento definitivo e irreversibile della politica. Ma bisogna che tutti ci diamo da fare.

sabato 25 luglio 2009

Tombe fenice e colpi di sole

Sarà che l’estate in certe persone disturba le normali facoltà intellettive, sarà perché d’estate scarseggiano le notizie (a meno di catastrofi), sarà perché in questa penuria di notizie ogni sciocco può avere cinque minuti di notorietà, fatto sta che in questa bollente fine di luglio tira molto lo scandalo. Succede, così, che un oscuro deputato dipietrista si guadagna un titolo sui giornali e in Tv irrompendo in una conferenza stampa della ministro della Pubblica istruzione per gridare la sua indignazione su un fatto (lo scioglimento di un consiglio comunale) che c’entra nulla con l’oggetto della conferenza stampa. La sete di una effimera celebrità è tale da spingere il seguace di Di Pietro a un inedito atto di cafonaggine istituzionale.
Ma c’è di peggio sotto questo torrido sole, già di per sé segnato dagli incendi e dalle morti per fuoco provocati da delinquenti in preda di impulsi all’autofagia; solo menti criminali con odio profondo nei confronti della Sardegna bruciano la terra su cui devono vivere. Mi riferisco alla questione delle “tombe fenice del 300 a.C.” che sarebbero nascoste a Villa Certosa secondo quanto dice una voce registrata, imputata a Berlusconi da un settimanale una volta serio ed oggi trasformatosi in un giornale a luci rosse.
C’è in giro un delirio antiberlusconiano, un’esaltazione che allenta i freni inibitori del raziocinio e dell’intelligenza. Guardate un po’ che cosa scrive un sito dell’estrema sinistra, “Democrazia oggi” (nella foto): quello delle tombe fenice è “uno dei tanti misteri di Villa Certosa! Fra segreto di stato e lodo Alfano, solo dopo la morte del cavaliere potrà essere svelato. Speriamo presto”. Voi pensate che senza questo caldo torrido, una mente umana potrebbe augurare la morte ad un avversario politico?
La notizia, pubblicata dal settimanale hard di cui parlavo, mette in sonno anche le capacità culturali di molta gente. Salvo due archeologi sardi, che sanno benissimo come nel 300 aC i fenici non c’erano più da circa duecento anni, altri prendono per buona la cosa. Gli archeologi sanno benissimo che nel IV secolo, anche là dove sorge la villa del presidente del Consiglio, non c’erano più (ammesso che mai vi fossero arrivati) i fenici, ma i punici. Ma poiché c’è da dare addosso a Berlusconi, ogni pretesto è buono, anche a costo di dilatare la storia e di mostrare una ignoranza sesquipedale. C’è l’archeologa che parla di “dato importantissimo per lo studio della espansione fenicia nell’isola”. Nel 300 aC? E, siccome così parlano coloro che sanno, ecco deputati del Pd che non si lasciano scappare l’occasione di parlare di scoperta eccezionale, sospettando che sia stata nascosta dal premier. Neppure si pongono il problema che si tratti di un falso giornalistico, se giornalismo può essere considerato questo racattar spazzatura.
Con questa sinistra, ridotta a inseguire registrazioni a luce rossa, disposta anche a ignorare le vicende storiche e abbassatasi ad augurare la rapida morte dell’avversario, ormai non c’è che sperare in prossimi cali della temperatura. Augurandosi che almeno si accorga quanto male fanno le insolazioni.

venerdì 24 luglio 2009

Unità anche per il dopo chimica

Dopo il passo indietro dell’Eni, l’unità delle forze politiche e sociali tiene, malgrado qualche distinguo che tale sembra più per esigenze mediatiche che per la sostanza. Ma, come era da prevedersi, le falle del sistema industriale sardo continuano a manifestarsi e segnalano come la provvisoria soluzione della questione di Porto Torres sia una vittoria locale, non riguarda l’intera Sardegna.
Da Ottana, i sindacati protestano contro le rispettive centrali col denunciare la messa in ombra della questione che riguarda quella zona industriale; dal Sulcis si leva l’allarme per seimila posti a rischio; ad Assemini altri operai sono in agitazione. L’unità raggiunta intorno alla minacciata chiusura del Petrolchimico di Porto Torres è stata certamente una dimostrazione di che cosa possa lo stare insieme ed è, anche, un precedente da seguire.
Ma per fare che cosa? Questo è il problema che solo in pochi ci poniamo, a stare alle dichiarazioni pubbliche. Vale la pena, credo, ribadire sempre che il problema prioritario è quello di salvare i posti di lavoro in pericolo e di assicurare salvezza economica a coloro che sentono la disoccupazione alle porte. La salvezza della chimica, sempre che sia possibile, viene in secondo piano, non se ne può fare una bandiera ideologica che, in più, rischia di coprire responsabilità di passate scelte sbagliate. Le timide voci che anche all’interno del sindacato si levano (“È comunque necessario pensare a eventuali alternative” come ha detto un sindacalista di Porto Torres) sono sommerse da altre che vorrebbero una politica governativa dirigista, capace di sostituirsi alle leggi di mercato. Uno Stato imprenditore in grado di risolvere le cento crisi apertesi in Sardegna (e quindi le mille in atto nell’intera Repubblica) è un non senso.
Al governo dovremmo semmai chiedere che accompagni con buoni provvedimenti un piano di sviluppo che solo noi sardi possiamo e dobbiamo elaborare, alternativo a quello, in parte fallito e in parte fallimentare, che ci è stato imposto non per ragioni economiche ma per “combattere il banditismo”. Se lo trovate ancora, leggete “Il golpe di Ottana” di Giovanni Columbu e molti scenari saranno chiari. Per quest’autunno, Cgil, Cisl e Uil hanno convocato il Congresso del popolo sardo per discutere anche intorno al nuovo Statuto speciale.
Questa sarebbe una occasione eccellente per ragionare dei due temi che vanno di pari passo: l’autogoverno della società sarda e l’autogoverno della sua economia.

giovedì 23 luglio 2009

Disegno di legge per la lotta all'Alzheimer

"Disposizioni per la prevenzione e la cura del morbo di Alzheimer e delle patologie correlate" è il titolo del Disegno di legge che ho presentato al Senato. Ne pubblico il testo.

Il morbo di Alzheimer è una patologia del sistema nervoso centrale che colpisce l’individuo in età presenile provocandone la demenza precoce. Non essendoci un censimento puntuale sulla sua incidenza annuale è difficile stabilire l’insorgenza dei nuovi casi, che pare si aggiri attorno ai tre nuovi casi ogni mille abitanti.
Le persone portatrici di questa malattia hanno problemi complessi per la cui soluzione, seppure parziale, è necessaria l’attività coordinata di specialisti medici e paramedici, oltre che di operatori socio-assistenziali; essendo diverse migliaia, essi costituiscono un vero e proprio problema sanitario, economico e sociale, che una società civile deve assolutamente impegnarsi per tentare di risolvere con spirito di solidarietà.
Sotto il profilo sanitario il problema fondamentale è che, attualmente, non se ne conoscono i fattori eziologici e le patogenesi, mentre dal punto di vista socio-economico il problema peggiore risiede nel fatto che tale patologia colpisce soggetti in età presenile rendendoli parzialmente o totalmente non autosufficienti, peggiorando la qualità della loro vita e di quella dei loro familiari.
La società non può non essere interessata a risolvere questo problema, non solo per lo spirito di solidarietà, ma soprattutto per limitare il numero di invalidi che, comunque, essa sarebbe chiamata a sostenere.
È necessario, quindi, prevenire tali malattie, o limitare il danno delle complicanze quando esse si sono già manifestate.
Prevenzione è conoscenza e ricerca di andamenti epidemiologici e di fattori eziologici e patogenetici; è, ancora, diagnosi precoce, terapia qualificata, riabilitazione, risanamento di condizioni ambientali, educazione e informazione sanitaria. Per un proficuo coordinamento di queste varie fasi occorre attivare centri a carattere scientifico, per la prevenzione e la cura del morbo di Alzheimer e delle patologie correlate, in una istituzione sanitaria pluridisciplinare, collegata ai servizi socio-sanitari del territorio.
Onorevoli senatori, sarete tutti certamente convinti che l’investimento di risorse finanziarie nella tutela della salute rende una società più sana e serena, e perciò tutti voi che perseguite le vie per un diffuso benessere sociale del nostro popolo non potrete far mancare il vostro voto favorevole al presente disegno di legge.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.
(Definizione)
1. Il morbo di Alzheimer, le demenze correlate e tutte le malattie croniche invalidanti sono malattie a carattere prevalentemente sociale, con implicazioni sanitarie, giuridiche ed economiche.
Art. 2.
(Programmazione dei servizi socio-sanitari)
1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano definiscono le linee guida per l’istituzione e l’attivazione di una rete integrata di servizi socio-sanitari per la diagnosi, la cura e l’assistenza alle persone affette dal morbo di Alzheimer e da altre demenze correlate, da erogare nelle aziende sanitarie locali in ambito territoriale.
2. Nella programmazione degli interventi di cui al comma 1 deve essere previsto il coinvolgimento a pieno titolo, fin dall’inizio, delle famiglie e delle loro associazioni, avvalendosi prioritariamente della loro collaborazione al fine del raggiungimento di risultati effettivi ed adeguati.
3. Le regioni forniscono alle aziende sanitarie locali strutture, personale e strumentazioni in quantità proporzionali all’incidenza epidemiologica nel proprio territorio del morbo di Alzheimer e delle demenze correlate.
4. Le regioni istituiscono corsi di formazione e di aggiornamento del personale sanitario destinato ad operare nelle strutture specializzate, al fine di garantire la maggiore competenza e specializzazione nell’erogazione dei servizi previsti dall’articolo 3, comma 4.
Art. 3.
(Articolazione della rete
dei servizi socio-sanitari)
1. La rete dei servizi socio-sanitari si articola in servizi integrati e flessibili, idonei a rispondere ai bisogni del paziente e della sua famiglia nelle varie fasi della malattia, al fine di garantire il mantenimento dell’autosufficienza e la qualità della vita della persona affetta da demenza e della sua famiglia.
2. In ogni distretto, come definito dall’articolo 3-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, deve essere assicurata la presenza di una struttura, individuata dal direttore di distretto, che sia punto di accesso per gli utenti e di riferimento per gli operatori per la rilevazione dei bisogni, l’informazione, la comunicazione, il coordinamento e l’attivazione degli operatori.
3. Il distretto coinvolge tutti gli operatori necessari, in base alle loro competenze, rapportandosi soprattutto con il medico di famiglia, quale interfaccia principale con il paziente e la sua famiglia.
4. Il distretto garantisce, mediante appositi protocolli di intesa con le amministrazioni comunali, in maniera appropriata, equa, adeguata ed accessibile, i seguenti servizi, all’interno di una rete di solidarietà con tutte le strutture presenti nel territorio:
a) assistenza ospedaliera presso reparti specializzati di degenza;
b) riabilitazione presso unità dedicate;
c) riabilitazione in regime ambulatoriale;
d) assistenza presso centri diurni;
e) assistenza presso residenze sanitarie assistenziali;
f) assistenza domiciliare integrata;
g) assistenza farmacologica;
h) assistenza protesica;
i) assistenza medico-legale;
l) supporto al nucleo familiare e agli addetti all’assistenza.
Art. 4.
(Attività di studio e di ricerca scientifica)
1. Le regioni destinano appositi stanziamenti per la ricerca, in collaborazione con le associazioni dei familiari e gli enti senza scopo di lucro preposti alla ricerca, alla prevenzione, alla cura e all’assistenza delle persone affette dal morbo di Alzheimer o da altre demenze correlate, per le attività di:
a) indagine epidemiologica;
b) individuazione di criteri uniformi e specificamente adeguati per l’effettuazione della diagnosi precoce;
c) ricerca per la prevenzione, cura e riabilitazione;
d) prevenzione di patologie concomitanti e di complicazioni invalidanti;
e) ricerca e monitoraggio delle metodiche di attività cognitive più adatte per l’ammalato e la famiglia in relazione alle varie fasi della malattia;
f) promozione dell’educazione sanitaria alla popolazione circa i primi sintomi della malattia, attraverso campagne d’informazione, corsi e seminari;
g) redazione di una relazione semestrale sulle attività di ricerca svolte;
h) semplificazione delle procedure;
i) verifica dei livelli di qualità delle attività e delle strutture abilitate all’erogazione delle stesse, mediante indicatori di qualità di struttura, di processo e di risultato.
Art. 5.
(Ripartizione di risorse)
1. Nella ripartizione delle risorse disponibili per l’attuazione della presente legge si tiene conto della popolazione residente nelle singole regioni e del numero dei malati affetti dal morbo di Alzheimer o da altre demenze correlate.
Art. 6.
(Copertura finanziaria)
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, valutato in 20 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010, si provvede a carico del Fondo sanitario nazionale di parte corrente.
2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

mercoledì 22 luglio 2009

Basta con la politica del 90° minuto

Quella di ieri a Roma è stata una grande vittoria politica, che sia anche una vittoria in campo economico è presto per dirlo. Una vittoria dell’unità del popolo sardo e delle sue classi dirigenti che però rischia di essere indebolita da certe pulsioni al protagonismo di chi pretende di ascriverla a una parte del tutto. Per fortuna (ma anche per assennatezza dei più), si tratta di esternazioni di primi attori di non grande rilevanza e, mi auguro, presto saranno ricondotte alla ragione dell’unità.
La mobilitazione unitaria di tutta la società sarda, dai partiti ai sindacati, dagli imprenditori alla Chiesa, dalle famiglie dei lavoratori alle assemblee elettive, nell’assordante silenzio – mi duole dirlo – dell’intellettualità sarda, è la vera protagonista di questa prima vittoria. E bene ha fatto il presidente della Regione ha metterlo in evidenza. Questa unità è stata raggiunta, come spesso accade in Sardegna, come momento di resistenza (“costante resistenziale” la chiama il prof. Giovanni Lilliu) ad un pericolo imminente. Al 90° minuto, per mutuare un linguaggio non politico, ce l’abbiamo fatta, insomma.
Adesso la Sardegna ha però bisogno di unità non per resistere ma per proporre un modello di sviluppo che prescinda il più possibile dalle emergenze. Qua e là, nelle reazioni politiche e sindacali, affiora questa necessità che nasce da una considerazione che, prima o poi, tutti saremo costretti a fare. L’unità raggiunta ha impedito all’Eni di attuare il suo progetto arrogante di chiusura, ma non è in grado di rovesciare i meccanismi del mercato. L’Eni ha tentato di sfruttarli senza criterio e le ha andata male, ma le ragioni che l’hanno indotta a farlo continuano ad esistere.
Vorrei citare l’articolo di un uomo politico assai lontano dai miei ideali e dalla mia cultura politica, Andrea Pubusa. “Sul disastro industriale, non c’è da farsi illusioni: chiuderà P. Torres e seguirà a ruota P. Vesme. L’intervento statale” scrive Pubusa nel suo sito “può allungare l’agonia come per i malati terminali, ma non resuscitare aziende già defunte. Ciò che colpisce in queste vicende non è tanto l’incapacità di porre rimedio poiché la situazione non è certamente nella disponibilità né di questa né della precedente giunta e forse neppure del governo dopo la distruzione dello stato sociale con le privatizzazioni selvagge. Ciò che manca è un’idea alternativa su cui lavorare, su cui pensare il futuro. Davanti alla crisi delle miniere, negli anni ‘50 e ‘60, ci fu l’alternativa dell’industrializzazione per poli, dislocata in tutta l’isola. Era un’idea discutibile, discussa e criticata, ma era un’idea di sviluppo. Si pensava di dare il via ad un ‘industrializzazione accelerata per guidare la transizione da una arretrata economia agropastorale ad una moderna società industriale. Oggi, la tragedia nasce dal fatto che si chiude e basta, senza prospettiva, senza un progetto su cui battersi.”
Invece, il progetto deve esserci e svilupparsi, come da tempo sostengo in questo blog. Deve essere frutto di un importante dibattito in tutta la società sarda al quale tutti dobbiamo dare il nostro contributo mirando non agli interessi della propria bottega politica o sociale, ma al bene comune del popolo sardo. Sarebbe insensato pensare, però, che questo possa avvenire senza un cambiamento radicale del rapporto fra Regione sarda e Stato italiano, elementi equiordinati della Repubblica secondo quanto detta la Costituzione e invece ancora disposti su piani gerarchicamente ordinati.
La scrittura di un Nuovo statuto di autogoverno non è un capriccio intellettuale e politico; se non è la precondizione per adottare e attuare un nuovo modello di civiltà della Sardegna, di certo i due processi devono andare avanti insieme. Precondizione è, semmai, l’unità del popolo sardo e delle sue classi dirigenti che devono imparare ad incontrarsi (e perché no?, a scontrarsi) sulla concretezza delle scelte da fare qui e subito.

domenica 19 luglio 2009

Partito del Sud? Ma la Sardegna non è Meridione

L’idea di un partito del Sud è entrata prepotentemente nel dibattito politico e culturale di questa estate e sta suscitando reazioni a volte scandalizzate, altre razzisticamente ironiche, qualcuna preoccupata per la sorte dell’unità della Repubblica. Sono, a parer mio, riflessi sbagliati e, comunque, inconsapevoli del fatto che il federalismo comporterà, prima o poi, anche la formazione di partiti locali tanto più importanti in quanto capaci di trovare forme federali di coordinamento. O anche, come pare nel caso del Partito del sud, capace di scegliere alleanze congeniali al proprio programma.
Per essere chiari: nessun partito locale è in grado da solo di governare lo Stato, nessun partito locale, pena la sua sopravvivenza, può allearsi contro natura. Chi ha una profonda vocazione federalista rischia la scomparsa se si allea con partiti antifederalisti o centralisti, così come un partito centralista commetterebbe suicidio politico cercando alleanze con partiti locali, autonomisti e federalisti per definizione. Insomma, la nascita, per ora solo mediatica, del Partito del sud metterà sì la “questione meridionale” all’ordine del giorno del governo della Repubblica, ma non ne intaccherà l’unità nei aspetti fondamentali e imprescindibili: i poteri dello Stato in materia di difesa, moneta, giustizia, rapporti diplomatici.
Se il Partito del sud nascerà, lo si dovrà ad un allentamento delle attenzioni nei confronti della questione meridionale che per anni Forza Italia prima e il Popolo delle libertà poi aveva messo al centro della propria azione politica. Restituire centralità ad Sud e alla Sardegna non avrà come effetto, probabilmente, la non nascita del Partito del Sud o di altri partiti locali, ma, certo, ridurrebbe possibili conflittualità.
Detto questo, da sardo io non penso di poter aderire un giorno al Partito del Sud perché, come il resto dei sardi, non sono meridionale allo stesso titolo che non sono settentrionale, anche se la storia della Sardegna e del suo Regno mi situerebbe piuttosto cittadino del nord che del sud. Il fatto che poco si studi a scuola la vicenda del Regno di Sardegna dal 1324 al 1891 non cambia la realtà dei fatti. Del fatto che, per esempio, nelle scuole dal Piemonte alla Liguria alla Lombardia si studiava fino al 1859 che “i fiumi della Sardegna sono il Po, il Tirso, la Dora Baltea”, che il confine nord della Sardegna era la Francia, etc etc.
Ma la politica non è solo storia, così come la politica dell’oggi deve saper uscire dagli schemi storicamente imposti dalla sinistra secondo cui quella sarda fa parte della questione meridionale. La Sardegna fa parte della questione sarda. Non basta, come per più di un secolo la cultura di sinistra ha imposto anche a chi di sinistra non era, considerare i meccanismi economici dello sviluppo e del sottosviluppo per stendere una griglia unificante di fenomeni sociali, culturali, linguistici diversi.
Non ostante i tentativi fatti da decenni a questa parte di trovare la mafia in Sardegna, qui la mafia non c’è. La delinquenza nella nostra isola non è più “simpatica” di quella maridionale, ma non è mafia. In epoca moderna, il sistema economico sardo non è mai stato fondato sul latifondo, quello di vaste regioni del Meridione sì. I rapporti donna-uomo in Sardegna non sono stati esemplari nel loro oscillare fra matriarcato e patriarcato a seconda delle regioni sarde, ma il delitto d’onore non è stato mai considerato strumento di “giustizia”. La lingua sarda è unica e pochi sono stati gli scambi di acculturazione con i dialetti e le lingue meridionali. Si potrebbe continuare ancora a lungo nell’elencare le reciproche autonomia e differenze. Neppure dal punto di vista economico, le cose sono comparabili. Secondo i dati Eurostat, nel 2003 la Sardegna aveva un PIL pro capite di 17 927 euro, la Sicilia di 15 708 euro, il Sud nel suo complesso (esclusa la Sicilia) di 15 808 euro.
Non esiste, in definitiva, un qualche parametro o criterio che faccia situare la Sardegna nel Meridione che non sia quello della comune appartenenza alla Repubblica italiana oggi e al Regno di Sardegna fino al marzo 1891. Il Partito del Sud non avrebbe alcuna possibilità di rappresentarci più di quanto possa farlo la Lega nord o qualsiasi altro partito italiano. In un processo, a cui tengo molto, di federalizzazione della politica, la Sardegna deve esprimere quel che essa è. Avremo tempo per riparlarne.

sabato 18 luglio 2009

Soru e il mio incubo da garantista

Ho sognato di essere nei panni di un giustizialista, alla Di Pietro per intenderci, di fronte ad un avversario politico incappato in un Pubblico ministero. Come sta succedendo in queste ore all’on. Renato Soru. E il sogno si è presto trasformato in incubo. Dapprima mi sono visto, infatti, intento a rileggere gli encomi che Di Pietro fece del “suo” candidato durante il tour elettorale in Sardegna, fatto distribuendo patenti di moralità e amoralità secondo la vicinanza o la lontananza dalle sue idee tardo-peroniste. È stata poi la volta dell’on Soru intento a chiedere le sue stesse dimissioni da consigliere regionale, in armonia con la curiosa tesi secondo cui basta un sospetto (fondato o infondato ha scarsa importanza) per cancellare il voto degli elettori. Ho sognato infine di stare di fronte ai monitor delle agenzie di stampa in attesa della sentenza sommaria che Di Pietro ero sicuro non avrebbe tardato ad emettere, come è solito fare con chi è appena appena indagato.
Poi, per fortuna, mi sveglio dall’incubo e torno persona di normali sentimenti democratici. Penso che Soru è solo stato rinviato a giudizio e che spetta ai tre gradi della magistratura stabilire la verità dei fatti. Per ora è innocente, sicuro in più di essere in grado di dimostrarlo ai giudici. Glielo auguro di cuore, così come lo invito a pensare a come si possano sentire gli altri cittadini, con o senza responsabilità politiche, che si trovino nelle sue condizioni.

giovedì 16 luglio 2009

Ora più che mai Forza paris

Durante una manifestazione a Porto Marghera nel maggio scorso, i sindacalisti hanno spiegato così le ragioni del corteo dei lavoratori: “Vogliamo evitare che Porto Marghera perda 5500 posti di lavoro e che diventi una nuova Bagnoli”. Non tutti, forse, ricordano il dramma dell’Italsider di Bagnoli agli inizi degli anni Ottanta. La crisi internazionale dell’acciaio si fece incontenibile, l’Unione europea quote di produzione e Bagnoli chiuse, nonostante le rassicurazioni dell’allora ministro De Michelis: andò a Napoli per annunciare la chiusura dell’altoforno ma disse che, comunque, nulla era perduto.
Storia diversa dalla chimica, storia diversa dall’alluminio, storia diversa dalle miniere. Ma a me la crisi internazionale della siderurgia ricorda i fattori che oggi mettono in crisi la chimica. La politica, le istituzioni statali e internazionali, come il Parlamento europeo, sono intervenuti più volte con l’effetto, a volte, di allungarne l’agonia. Si tratta di interventi doverosi, mirati a salvare il più possibile di posti di lavoro. Ma nessun governo in uno stato democratico può sostituirsi ai meccanismi di mercato; li può guidare, regolare, non sostituirsi ad essi.
Di fronte a tutti i cittadini, naturalmente, ma soprattutto di fronte alle classi dirigenti sarde, politica, sindacale, imprenditoriale, culturale, con la crisi della chimica che sta investendo particolarmente la Sardegna e il Veneto, si aprono oggi due strade: la prima è quella di illuderci che basti l’intervento dello Stato per risolverla, la seconda è quella di prendere atto della situazione e uscirne con un modello di sviluppo diverso, un nuovo modello di civiltà centrato sulle risorse materiali e umane della Sardegna.
Non solo dalla politica, ma anche all’interno del sindacato si levano voci che invitano a ripensare una crescita fondata sulla chimica. Il percorso verso questo nuovo modello di civiltà parte dalla difesa strenua dei posti di lavoro oggi in pericolo: c’è da bonificare i luoghi di insediamento chimico, c’è da mettere in sicurezza gli impianti, c’è soprattutto da salvare dalla miseria migliaia di famiglie, tutte cose che dobbiamo avere la forza di imporre a chi da questi impianti ha tratto profitto. Deve essere l’Eni a pagare tutte queste operazioni che non saranno di rapido compimento e che hanno bisogno di tutti i lavoratori che oggi sono a rischio di licenziamento.
Nessuno di noi sa come progettare un modello di sviluppo che prenda atto della situazione della chimica sarda e che lo superi assicurando prosperità alla Sardegna. Ma, ne sono convinto, questa è la sfida che le classi dirigenti sarde devono raccogliere, ciascuno prospettando idee e progetti. Io ne ho, senza pensare, va da sé, di avere una bacchetta magica che del resto oggi nessuno ha. Siamo tutti facilitati dalla considerazione che è proprio nei momenti di crisi acuta, una crisi che parte da molto lontano e che non risparmierà la nostra isola, che classi dirigenti responsabili dimostrano le proprie capacità e si legittimano come punto di riferimento di una società.
Forze politiche e forze sociali, nell’inspiegabile silenzio dell’intellettualità sarda, stanno dando mostra della loro unitarietà, pur nelle differenze di ispirazione ideale, politica, di ruolo. Si tratta di una unità raggiunta per resistere a pericoli esterni, per difendere l’esistente. Io credo che questa stessa disponibilità all’unione di fronte al pericolo possa essere messa in campo per disegnare il futuro della Sardegna anche dopo che questo ciclo industriale sarà esaurito.
Il mio non è, con tutta evidenza, un appello a mettere da parte diverse visioni del mondo, diverse sensibilità, diverse identità politiche e culturali. Ci mancherebbe altro. Ma credo che noi tutti dobbiamo al popolo sardo uno sforzo per aprire un confronto franco ma produttivo, se il caso anche acceso ma finalizzato al bene comune della nazione sarda.
Nessuno ci farà regali, sta a noi sardi il dovere morale di disegnare un nuovo modello di civiltà per la nostra terra. So che la crisi internazionale porterà altre emergenze e una classe dirigente responsabile, nel rispetto delle diverse sensibilità politiche e culturali, deve saperle affrontare con concordia, ma pensando ad un modello di sviluppo autocentrato. Oggi più che mai Forza Paris.

martedì 14 luglio 2009

Ebbene sì, sono per lo spoil system

Un lettore-collaboratore di questo blog ha sollevato un problema di non poco conto circa l’abitudine della sinistra di attuare quando vince lo spoil system e del centro destra di non farlo. L’origine dell’espressione spoil system non è decisamente nobile (to the victor go the spoils, ai vincitori tutto il bottino), ma l’attuazione americana del principio gli ha dato connotati meno bellici e più funzionali. I vincitori delle elezioni, negli Stati uniti normalmente si circondano di collaboratori di cui è sicura la lealtà, la bravura, l’adesione convinta al programma che si vuole attuare. Il rischio di avere, all’interno dell’amministrazione, una talpa che lavori per il re di Prussia è, insomma, così limitato al massimo.
Il contrario di questo modo di fare è il merit system, sulla base del quale chi vince si circonda di persone di cui si valuta solo ed esclusivamente il merito. Mentre ogni volta che vince, la sinistra provvede a cambiare i collaboratori facendo tabula rasa, il centro destra solitamente continua a utilizzare i collaboratori ereditati dalla sinistra, badando esclusivamente ai loro meriti professionali. È un errore, suggerisce il lettore che ha scritto in questo blog. Ed io sono incline a dargli ragione.
Sono ovviamente contrario, decisamente contrario, alla lettura volgare dello spoil system (il vincitore si prende tutto il bottino), ma credo che abbiano ragione gli americani a pretendere dai collaboratori di chi vince certo la competenza professionale, ma anche la lealtà e l’adesione al programma delle cose da fare. Soprattutto se si tratta non di semplici impiegati che devono essere (e quasi sempre sono) leali all’istituzione quale che ne sia il colore, ma di persone che sono incaricate di attuare un programma, questo sì diverso a seconda di chi governa.
Non riesco a contare le volte che in un qualsiasi ministero ho sentito alti funzionari dire: “Il ministro va e viene, ma io resto”. La banalità della constatazione nasconde una verità, quella che con il sistema attuale esiste l’impunità del funzionario, ma non quella del ministro o dell’assessore che l’opinione pubblica ritiene responsabile di tutto, ignorando che tanto più alto è un funzionario tanto più pesante è la possibilità che egli si metta di traverso all’azione di governo, rispondendo al partito di appartenenza.
Se non impossibile certo è difficile che una persona, educata alla politica da una visione statalista dell’economia, sia in grado di portare avanti un programma liberale, ovviamente contraria allo statalismo. Chi ha della tutela ambientale una visione contemplativa e assolutamente conservativa non può svolgere serenamente e lealmente la sua azione di promozione dell’ambiente in cui la scupolosa tutela si coniughi con l’uso dell’ambiente per la creazione di ricchezza per coloro i quali quell’ambiente hanno conservato per secoli.
In una società normale, nella quale venga al primo posto il bene comune e non il bene del partito, la questione si porrebbe in maniera meno acuta di come si ponga in una società in cui l’opposizione ha il solo obiettivo di rovesciare, comunque e con tutti i mezzi, il governo. Fra questi mezzi c’è spesso, e al di là della lealtà istituzionale, quello del lavorare per il re di Prussia, per l’avversario, cioè, del governo che si dovrebbe difendere. Ma la società italiana e quella sarda non sono “normali”, al loro interno non si svolge una “normale” dialettica fra chi governa e chi si oppone al governo.
Si va dall’eversivo proclama di Di Pietro pubblicato su un giornale estero al tentativo dell’ex presidente della Sardegna di rompere l’unità delle forze politiche e sociali raggiunta per contrastare il declino industriale della Sardegna. In una società segnata da simili comportamenti patologici, il governo ha necessità di avere collaboratori leali al di sopra di ogni possibile sospetto. Parlo di lealtà, non di fedeltà, concetto che si addice a chi ha della politica una visione fideistica.
Tanto più – continuo a dar ragione al lettore – che il centro destra ha fior di tecnici, di professionisti, di intellettuali capaci non solo di assicurare lealtà ad un programma ma anche, e direi soprattutto, meritevoli.

venerdì 10 luglio 2009

In Sardegna non c'è posto per il nucleare. Punto e basta

L’approvazione, ieri al Senato, delle “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia” sta suscitando forti discussioni, soprattutto per quanto riguarda l’energia nucleare. Nella polemica ha parte preponderante il no dell’opposizione che, va lealmente riconosciuto, non è tutto dettato da furore ideologico e preconcetto. Gli atteggiamenti meno fondamentalisti potranno avere un ruolo decisivo nella trasformazione positiva di questa legge che, come tutte le altre, è naturalmente migliorabile con la discussione.
Io ho votato a favore perché non considero giusto né legittimo oppormi alle regioni e ai molti comuni che hanno espresso la volontà di ospitare, se mai tecnicamente possibile, una centrale nucleare. Spogliata delle paure molto ideologiche e poco scientifiche, una centrale nucleare dell’ultima generazione è semplicemente un sicuro ed economico strumento di produzione di energia e un modo per far dipendere uno Stato sempre meno dal petrolio. Dico questo, che penso seriamente, perché non creare equivoci.
Ma vivo in Sardegna, una regione dell’Europa che l’uomo, la natura e persino il gap di sviluppo economico hanno reso un bene ambientale unico in tutto il Continente. Se altrove una centrale nucleare sarebbe semplicemente un’industria in più, inserita in un contesto già compromesso dal punto di vista ambientale, in Sardegna le cose cambiano. L’immagine di un’isola in qualche modo segnata dal nucleare contrasta con quella di un ambiente ritenuto unanimemente fra i più intatti d’Europa.
C’è intanto il fatto che quest’isola ha già subito nel passato modelli di sviluppo che, dove attuati, hanno creato non solo degrado ambientale ma anche le incertezze di occupazione che sono adesso una evidenza drammatica.
Da tempo, è all’ordine del giorno della società sarda la necessità di darsi una carta del suo autogoverno che non può sopportare alcuna iniziativa che non sia dai sardi condivisa, qual è, con tutta evidenza, una centrale nucleare. Il governo della Sardegna ha preso l’impegno a non consentirne l’impianto e ha deciso che l’isola non ospiterà alcun altro impianto nucleare. La lealtà repubblicana della stragrande maggioranza dei sardi è fuori discussione e anche il Nuovo statuto speciale, nel rivendicare alla Sardegna tutta la sovranità di cui ha bisogno, non proporrà alcuna fuoriuscita dalla Repubblica italiana.
Sono però cosciente, per quel che mi riguarda, che nessuno potrà scambiare questa lealtà dei sardi per una predisposizione ad accettare ancora, come è successo con l’industrializzazione monoculturale per la fame di lavoro, scelte non condivise. Per questo, pur riconoscendo alle regioni che lo vogliono il diritto ad averle, sono come la maggioranza dei sardi decisamente contrario alla installazione di una centrale nucleare nell’isola. Né ritengo possibile uno scambio fra la rinuncia ad installarla e l’offerta di ospitare siti di stoccaggio di residui nucleari al di fuori di quelli che la Sardegna produce nei suoi ospedali.

giovedì 9 luglio 2009

Il primo impegno: salvare il lavoro

A ventiquattr’ore dalla seduta straordinaria a Roma del Governo sardo insieme a senatori e deputati sardi, non saprei certo dire quale sarà l’esito della mobilitazione dell’intera Sardegna a difesa dei posti di lavoro. Né è facile prevedere se prevarranno nella classe dirigente sarda le ragioni dell’unità o i distinguo che qua e là si sono affacciati nelle cronache dei giornali. È chiaro che quando parlo di classe dirigente non pensando solo alla politica, ma anche al sindacato, all’imprenditoria, alla cultura, ai mass media, alcuni dei quali ancora oggi paiono restii a mettere da parte l’invettiva, il sarcasmo, la voglia di trovare il conflitto dovunque e comunque.
Quel di cui sono sicuro è che il popolo sardo si merita una classe dirigente concorde nell’evitare la disoccupazione di massa indotta dalla chiusura dell’Eni di Portotorres, pedina in un gioco di domino al cui termine potrebbe esserci il deserto dell’occupazione industriale in Sardegna. Ci sono, in questi momenti, parole non ben meditate, come la richiesta di dimissioni del Parlamento sardo o come la minaccia di scioperi che rischiano di mettere in ginocchio l’intera economia dell’Isola, la sua agricoltura, il suo turismo, la sua pastorizia, il suo artigianato. Ma si tratta, mi auguro, di una reazione irritata a un annuncio arrogante. Gli operai hanno bisogno di solidarietà, non di antagonisti fra i sardi.
Il compito di tutto, l’impegno morale di ogni cittadino sardo, è quello di evitare, come dicevo, il pericolo di una disoccupazione di massa. A questo obiettivo tutto deve tendere. Ma non saremmo responsabili se illudessimo noi stessi che in una economia di mercato, in uno stato democratico, in mancanza di quella eticità dell’economia di cui si è cominciato a discutere al G8, un governo possa bloccare una crisi, quella della chimica, ormai apertasi da tempo. Anche in Sardegna, qualche voce solitaria si leva nel sindacato per avvertire che è necessario pensare ad altro, da subito.
Ed è così. Chi dice che la chimica non si tocca, che alla chimica la Sardegna non può rinunciare sbaglia, pur se comprendo i motivi nobili che lo spinge a dirlo. Il fatto è che proprio in un momento di crisi acuta come quello che viviamo e che nel futuro potremmo vivere in maniera ancora più accentuata, è necessario prendere atto che una storia sta finendo e che bisogna aprire capitoli nuovi. Il fallimento dell’avventura petrolchimica ad Ottana, solo quantitativamente meno grave di quello di Portotorres, è stato lasciato passare invano, senza che quel segnale fosse colto come inizio di un processo e, quindi, come pungolo ad inventare un modello nuovo di sviluppo.
Si è preferito illudere i cittadini e i lavoratori del Nuorese che la fine della petrolchimica fosse un incidente e che, comunque, attraverso accordi di programma, spesso menzogneri, l’industrializzazione della Media Valle del Tirso fosse ancora possibile. Senza progetto, senza sapere che cosa Ottana fosse vocata ad accogliere e seguendo l’illusione che bastasse regalare un po’ di denaro ad imprenditori perché questi creassero industrie fiorenti in grado di soddisfare l’offerta di lavoro.
Anche intorno a Portotorres si sono create illusioni di poco momento fino a quando la chiusura (per due mesi, ma non illudiamoci) del Petrolchimico ci è caduta addosso. Quello di non consentire l’immiserimento di migliaia di famiglie è un impegno che va mantenuto ad ogni costo e una Sardegna unita su questo obiettivo è in grado di farcela. Ma già da oggi è necessario mettersi in testa che dalla crisi si esce solo se si ha la capacità di vedere quale domani dovrà essere lo sviluppo della Sardegna. All’interno del quale stanno Portotorres, Ottana, Portovesme e tutte le realtà industriali oggi in coma.

martedì 7 luglio 2009

Eni a Portotorres: adesso basta

Adesso basta, non ci faremo mettere in mutande da nessuno. La decisione dell'Eni non può essere tollerata, reagiremo con energia e decisione. Di fronte a situazioni di tale gravità non esistono nè maggioranza nè opposizione, ma sardi in difesa dei sardi.
Non c'è tempo da perdere sono in gioco gli stipendi di 3.500 lavoratori. Le motivazioni addotte dell'Eni non possono ingannare gente come noi che da anni segue le scelte stategiche di questa società. Le forze politiche devono essere immediatamente affiancate da tutte le forze sociali non solo regionali, in quanto il caso Sardegna è un'emergenza sociale che ha e deve avere valenza di urgenza nazionale.

Il libertinismo e la sinistra biforcuta

Il richiamo di monsignor Mariano Crociata ai credenti è pretesto per un ennesimo becero attacco da parte di una sinistra che oltre a non avere più idee, oramai non ha neppure pudore. "Si assiste” ha detto il segretario generale dei vescovi “allo sfoggio di un libertinaggio gaio e irresponsabile. Si agisce e si parla con sfrontatezza di cose di cui si dovrebbe arrossire e vergognare". Qualunque credente, nella sua coscienza, ha il dovere di sentirsi toccato o immune dal severo richiamo, secondo i propri comportamenti e atteggiamenti. Ma è questione che, appunto, interessa il credente chi segue, o dovrebbe seguire, l’insegnamento della Chiesa.
In uno Stato laico, dove il cittadino deve rispettare la legge, il libertinaggio non è né può essere considerato reato, ci mancherebbe altro. Il “modo di comportarsi e di vivere licenzioso e dissoluto” (definizione del Sabatini Colletti), la “dissolutezza, sregolatezza di costumi sessuali” (definizione del Grande dizionario italiano della Hoepli) sono da sempre patrimonio di una certa sinistra radical-chic che della libertà sessuale ha fatto una bandiera. Personalmente non ho mai capito perché una signora di sinistra che non si fa perdere un uomo è una raffinata intellettuale alla ricerca di nuove intriganti esperienze umane, mentre un’altra signora, con gli stessi gusti ma diversa appartenenza, è una donna di facili costumi. Ma così è.
Ecco, all’improvviso, che questa stessa sinistra elitaria, insieme a quella che dovrebbe essere popolare, si scopre seguace dell’insegnamento dei vescovi i quali, nel fare il loro dovere, probabilmente non hanno messo in conto la straordinaria capacità di questa sinistra di strumentalizzare il diavolo e l’acqua santa. Secondo la propria convenienza, naturalmente. Ricordate gli strilli di questa sinistra contro il Papa, i vescovi, la Chiesa in generale, quando il Vaticano eccepì su alcune leggi del governo Prodi che incidevano sull’etica dei credenti? Si trattava, allora, di un’inaccettabile interferenza sulla laicità dello Stato.
Gli epigoni moderni del libertinismo, quello di chi sottoponeva a critica l’ortodossia religiosa in nome dell’autonomia della ragione da ogni autorità e in primis dall’autorità ecclesiastica, non se ne sono fatti mancare una: ogni occasione (divorzio, aborto, eutanasia, procreazione assistita, richiamo alla castità, etc) è stata buona per rivendicare l’autonomia della ragione dall’insegnamento della Chiesa. E naturalmente per attaccarla.
Oggi non è così. È bastato che nel richiamo dei vescovi a tutti i cattolici si sia intravista la possibilità che sia lambito anche il cattolico Berlusconi, e monsignor Mariano Crociata è stato arruolato nell’armata antiberlusconiana. E, al solito, con lingua biforcuta, avrebbero detto i pellerossa, con vari tipi di doppiezza si direbbe oggi. Appoggiano, per esempio, il monsignore e il dottor Marino senza alcun imbarazzo.
Provo una profonda pena per il degrado etico e culturale di questa sinistra in cui militarono una volta finissime intelligenze che ho sempre rispettato malgrado le differenze culturali, ideali e politiche che ci distinguevano.

lunedì 6 luglio 2009

Festa dell'Unità al Festival di Gavoi

Per la platea e spero non per gli organizzatori, quella di Gavoi è stata una gioiosa Festa dell’Unità, più che un festival letterario. A confermare il sospetto, nato con i fischi al solo sentir pronunciare il nome di Ugo Cappellacci, ci ha pensato oggi la cronaca della Nuova Sardegna: “In prima fila, anche Renato Soru (editore dell’Unità e oggi consigliere regionale dell’opposizione) salutato al suo arrivo da un grande applauso che stride con i fischi riservati all’inaugurazione del festival all’attuale giunta presieduta da Ugo Cappellacci”.
Proprio come ai bei tempi del Pci, quando fra panini, ragù e “Bandiera rossa”, i militanti celebravano i riti del “migliorismo” e dell’inevitabile sorgere del sole dell’avvenire in mezzo alle ovazioni rivolte ai dirigenti comunisti e, naturalmente, agli intellettuali organici. Con la non piccola differenza che allora la festa si autofinanziava e nessuno si strappava i capelli perché il governo non la sosteneva economicamente. Farmi rimpiangere la serietà del Pci è cosa che non riuscirò mai a perdonare all’Anonima indignati che ha ridotto il Festival di Gavoi a manifestazione di partito.
Non so se per il clima politico o se per vocazione, i giornalisti intervenuti a Gavoi hanno lungamente pianto sui rischi per la libertà di stampa che il governo Berlusconi fa correre al giornalismo italiano. Singolare concetto di libertà la loro, stando alle cronache dei quotidiani sardi. Lamentano infatti che non tutti i giornali hanno sposato l’antiberlusconismo come pietra al paragone della loro indipendenza. Il direttore di un telegiornale è stato condannato senza appello per la sua decisione di non stare dietro ai pettegolezzi pruriginosi come alcuni quotidiani emblema della libertà e di essersi comportato quindi da servo del potere. La libertà di stampa, insomma, come nome tutelare del pensiero unico anti Berlusconi.
Un grande regista, che stimo molto seppure di altra sponda politica, Ermanno Olmi ha icasticamente fulminato il vittimismo di certi giornalisti, campioni della libertà di insozzare l’altrui onorabilità (sia di Berlusconi sia di un semplice cittadino). “Se il problema è Berlusconi lo faccio fuori io, me ne incarico. Però prima mi dovete garantire che con lui scompariranno anche tutti i vizi e difetti del nostro giornalismo” ha detto Olmi.
In questi ultimi due giorni prima del G8, organi di stampa molto liberi annunciano l’esplosione di uno scandalo che insieme al presidente del Consiglio dovrebbe travolgere l’immagine del governo e dell’Italia. Niente ruberie, delitti infamanti, collusioni criminali, ma solo – annunciano – scatti fotografici rubati nell’intimità di una abitazione privata da tal Zappadu, eletto maitre à penser di certa sinistra italiana, insieme a quelli che Piero Ostellino ha definito ieri “piccoli squadristi dell’estrema destra giustizialista e incolta”. Aridatece il Pci.

sabato 4 luglio 2009

Gavoi e i fischi dell'anonima indignati

Il Festival di Gavoi ha preso inizio con una bordata di fischi al sentir pronunciare il nome del presidente della Regione. Tanto per segnalare, evidentemente, che quello è terreno di sinistra e che gli avversari sono comunque nemici. Lo sono anche se, grazie a loro, la “loro” festa si è potuta tenere. Ricordo che qualche settimana fa, pensando che il suo comportamento di esclusione del nemico fosse costume normale, il presidente della provincia di Nuoro aveva lanciato strali contro la Giunta regionale "incompetente".
Il festival ha fama di essere di sinistra e, vedrete, il governo regionale di centrodestra non lo finanzierà, fu la tesi di Deriu, convinto che il suo modo di pensare e di agire fosse una sorta di norma generale. Naturalmente così non fu e la Regione ha finanziato il “loro” festival, com’è giusto e normale che sia per chi ha della cultura una visione non egemonica né vendicativa.
Gente normale avrebbe ammesso di aver sbagliato e se non proprio riconosciuto la normalità del comportamento della Giunta regionale, almeno se ne starebbe stata zitta. Ma l’Anonima indignati permanenti non è fatta di gente normale, raccoglie “i migliori”, orgogliosi di essere i più onesti, i più intelligenti, i più attrezzati di tutti per andare alla sostanza delle cose: Cappellacci è il nemico e non può nemmeno essere citato al loro cospetto. Quei fischi hanno segnato il territorio, come fanno i gatti maschi: qui non entra neppure il nome del nemico.
Mi verrebbe voglia di dire a questa Anonima: il festival è vostro? Tenetevelo, ma non pretendiate che i sardi finanzino con i loro soldi il vostro settarismo. Ma sono, questi fischi, un segno di povertà mentale che non contagia il resto del Festival di Gavoi. E, allora, auguri e a cent’anni, “Isola delle storie”. Se, magari, fossero anche storie nostre, meglio.

venerdì 3 luglio 2009

Quella brutta voglia di forca

Poiché i giustizialisti insistono a giudicare “scandalosa” una cena fra magistrati e politici, vorrei porre un paio di domande. Non ai giustizialisti, va da sé, nostalgici della “giustizia economica” come la chiamavano nell’Ottocento, ma alle persone normali che leggono senza gli occhiali a forma di forca. Non parlo di magistrati che, cessata o sospesa la professione, sono entrati in politica nello schieramento di centro destra e, perciò, sospettabili di essere dei poco di buono. Parlo di magistrati che hanno fatto la stessa scelta, ma con “i migliori”, i baciati dalla “diversità, i disinteressati, insomma con la sinistra o il centro sinistra. Per esempio Felice Casson, D’Ambrosio, Maritati e molti altri.
Gentiluomini come Luciano Violante, Giuseppe Ayala e pm come Luigi de Magistris sono o sono stati eletti al Parlamento chi con il Pci (Violante) chi con il Pds (Ayala) chi con i dipietristi (De Magistri). Questo è successo, va da sé, dopo che si erano dimessi o sospesi dalla magistratura. Ma, ecco la prima domanda, prima di candidarsi non sono andati a cena o a pranzo con qualche dirigente del partito che li voleva nelle liste? E sono bastati una sola cena o un solo pranzo per esser stati convinti a lasciare il posto di magistrato per una avventura politica dall’esito incerto? La leggenda dei giustizialisti racconta che il 17 marzo del 2009 (tre mesi prima delle europee), con un post sul blog di Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris abbia annunciato il suo arrivo in politica. Pensare che ne abbia parlato con Di Pietro quando ancora era magistrato è passibile di pene corporali e quindi me ne astengo. Sarebbe come dubitare della befana. Nessun contatto, certo.
In uno Stato di diritto il faro del comportamento è e deve essere la legge. È la legge che dice cosa è legittimo e cosa legittimo non è. Le questioni ora sollevate circa l’opportunità e la inopportunità di un comportamento rischiano di piombarci in uno Stato etico, seducente per i seguaci di Hegel e di Savonarola, ma non cooptabile in uno stato laico e di diritto. Opportunità e inopportunità non appartengono all’oggettività: io posso giudicare inopportuna una cosa che ad altri appare opportuna. Ed è vero il contrario. È una fortuna per la democrazia, una iattura per i fanatici, che non siano questi concetti a governare la società.
Se io fossi un giustizialista con fame di “giustizia economica” e se non conoscessi la lealtà repubblicana di Violante e di Ayala, per esempio, mi verrebbe di fare una parodia della indignazione forcaiola circa la cena (“carbonara” l’ha definita Di Pietro con sublime sprezzo del ridicolo) fra due giudici, tre uomini politici e consorti. Chi può garantire che Violante e D’Ayala non siano stati candidati dietro la loro promessa di favorire in qualche modo le fortune giudiziarie dei loro nuovi partiti?
Con sospetti insultanti del genere si potrebbe fare il giro del mondo. Credo che gli amici si questo blog si rendano conto a quale grado di barbarie possa portare lo stile giustizialista di Di Pietro e compagni.

giovedì 2 luglio 2009

Di Pietro e lo sberleffo contro Napolitano

Lo sberleffo con cui Di Pietro ha accolto l’invito del presidente della Repubblica ad “una tregua” in vista del G8, segnala che da quella parte ci si può attendere solo una escalation di barbarie politica. Per ora solo verbale, ma non è detto che le pulsioni giustizialiste e peroniste non convincano qualche testa calda a fare un salto di qualità.
Il pretesto per sbeffeggiare l’appello di Napolitano è di dominio pubblico: un giudice della Corte costituzionale ha invitato a cena un suo collega, il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio. Una cosa normalissima che in uno Stato normale non avrebbe meritato neppure una noticina nelle cronache rosa di un giornaletto di provincia. Come non hanno avuto alcun rilievo le numerose cene fra magistrati e dirigenti politici di centrosinistra, considerate di assoluta normalità, dato che – dicevano i politici di centro sinistra – non si può sospettare della serietà e imparzialità dei giudici. Certo l’invito a cena di Mazzella è più normale dell’affidamento di un processo ad un giudice che ha pubblicamente manifestato in piazza contro la persona che si accingeva a giudicare.
Una cena normalissima, dicevo, fin quando, involta da un settimanale in una confezione scandalistica, non approda sulla scrivania di chi non aspettava altro per poter andare lancia in resta contro Napolitano che della terziarietà ha fatto un punto di onore. Di Pietro fa finta di attaccare i magistrati suoi colleghi che osano frequentare i suoi nemici Alfano e Barlusconi, in realtà esercita un’intollerabile pressione sulla Consulta e attacca proprio l’imparzialità del presidente della Repubblica. Come per dire che Napolitano non può osare chiedere alla politica una tregua sia pure temporanea tra l’opposizione e la maggioranza, in vista di un appuntamento internazionale, il G8, in cui il governo Berlusconi “rischia” di fare bella figura.
È proprio questo rischio che Di Pietro vorrebbe scansare: non ha fatto mistero del suo desiderio che all’Aquila il governo arrivi se non dimissionario, almeno fortemente delegittimato. Il giustizialista principe ha tentato di cavalcare tutti gli schizzi di fango, tutti i pettegolezzi, tutti i gossip, tutti i falsi scandali montati con fredda determinazione da giornalisti a lui vicini. Gli è andata male, anche se la sua IdV è riuscita a rosicchiare qualche voto al Pd che, in preda alla sindrome di Stoccolma, continua ad esserne succube.
Adesso, quando manca una settimana al vertice dei capi di stato e di governo, non gli resta che tentare la delegittimazione del capo dello Stato, reo di aver chiesto una tregua alla politica e, dunque, anche a chi, come Di Pietro, non si rassegna a vedere Berlusconi rappresentare la Repubblica italiana al G8. Lo fa trottando sul cavallo fornito da L’Espresso che definisce “carbonara” una cena alla quale i convitati sono arrivati con un corteo di auto e di guardie del corpo. Neppure davanti al ridicolo si ferma certa stampa scandalistica.
In preda ad una disperata ansietà, Di Pietro arriva a chiedere ai due magistrati della Consulta, rei di amicizia con il presidente del Consiglio, di ritirarsi o di astenersi nel giudizio che, insieme a molti altri giudizi costituzionali, dovranno dare del cosiddetto Lodo Alfano. Con ciò ottenendo due risultati: gettare sui due giudici l’infamante sospetto di non poter essere imparziali; sobillarli a compiere un atto illegittimo e comunque non contemplato nelle cause della Consulta. Non è un caso che il giudice Mazzella, solitamente sobrio nelle sue parole, abbia usato espressioni come “nuovo totalitarismo” e “pratiche dell’Ovra”, la quale Ovra, lo dico per i più giovani, era la polizia segreta fascista.