mercoledì 30 giugno 2010

Federalismo demaniale e terrore delle autonomie

Ci sono aspetti, nel trasferimento dei beni demaniali dallo Stato alla Regione, che riguardano il puntuale rispetto dello Statuto sardo e sono stati, opportunamente, ricordati in tutti gli schieramenti politici. Anche i “doni” (che poi doni non sono, ma tardivo riconoscimento di un diritto) devono essere regolati secondo il nostro Statuto che, all'articolo 14, sancisce: “La Regione, nell'ambito del suo territorio, succede nei beni e diritti patrimoniali dello Stato di natura immobiliare e in quelli demaniali, escluso il demanio marittimo”. Questo articolo, sostengono giustamente i vari schieramenti ha bisogno di norme attuative, che non ci sono.
C'è però, in molte reazioni e non solo in Sardegna, un aspetto in cui si intrecciano paure strumentali e statolatria. Delle prime vale solo la pena di dire che sono guidate dal sacro furore di chi va da tempo gridando ai quattro venti che il centrodestra sardo ha in testa di vendere tutto, dalle coste ai monti al futuro patrimonio demaniale. È, naturalmente, una solenne sciocchezza, del tutto infondata e soprattutto alimentata dall'odio politico contro gli antropologicamente diversi. Più intrigante è il secondo aspetto che è frutto di un concetto idealistico dello Stato e figlio di profonda diffidenza nei confronti dell'Autonomia regionale e di quella dei Comuni.
I portatori di statolatria, di quella idea, cioè, che fa dello Stato il momento massimo della concretizzazione dell'etica, pensano che solo lo Stato ha il potere e la volontà di rendere morali i comportamenti collettivi. Di qui il sospetto con cui questa pericolosa cultura politica guarda ai comuni e alle regioni, portati – dicono – per loro stessa natura a svendere tutto, terre pubbliche, pubbliche coste, pubblici monti, vuoi per biechi interessi personali degli amministratori, vuoi per fare cassa, vuoi perché incapaci di resistere alle pressioni, vuoi per carenze culturali.
È vero, e le cronache ne hanno dato spesso conto, che in certe regioni sono nati ecomostri, che si è aperto alla speculazione forsennata sulle coste, che sindaci hanno consentito a privati di impadronirsi illegittimamente di terreni comunali e così via delinquendo. Ma si tratta, appunto, di reati, non di comportamenti amorali. Reati che devono, o avrebbero dovuto, essere puniti dalla legge, commessi anche molto prima che nascessero, per esempio, le regioni ordinarie. Se questo non è, a volte, accaduto la responsabilità è degli organi dello Stato che è molto meno etico di quanto le vestali del centralismo pensino. E per fortuna.
In fondo in fondo, la bestia nera di chi così pensa è l'autonomia, che è sì garantita dalla Costituzione, ma che è guardata con una diffidenza estrema. Uno degli articoli meno frequentati della Carta è il 114: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Lo Stato, cioè, è posto sullo stesso piano degli altri elementi della Repubblica e di distingue solo per le sue competenze, non per la sua eticità, diversa dalla a-moralità degli altri. Figurarsi la diffidenza nutrita nei confronti del federalismo. È da questo sospetto che, pur lasciando da parte i furori strumentali di cui dicevo, si alimenta la paura tutta ideologica per il trasferimento dei beni dello Stato. Bisognerà riparlarne, soprattutto ora che pare avviata in Sardegna la stagione delle riforme, in testa alle quali è quella del nuovo Statuto.

martedì 29 giugno 2010

Quattro domande alle Soprintendenze sarde

Ho fatto mie quattro domande che la petizione di un migliaio di firmatari sottopone alle soprintendenze archeologiche della Sardegna. E le ho trasformate in una interrogazione al ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, perché dia una risposta in Commissione. Il testo della petizione, accompagnato da due fotografie di altrettanti reperti e dall'elenco dei firmatari, è stato spedito a tutti i parlamentari eletti in Sardegna, ai capigruppo in Consiglio regionale e ai due soprintendenti archeologici dell'Isola.
Naturalmente non conosco la fondatezza degli elementi che stanno alla base della petizione, ma credo mio dovere di rappresentante del popolo sardo fare in modo che a queste domande si dia risposta.
Questo il testo dell'interrogazione:

Premesso che:
Nei giorni scorsi i parlamentari sardi hanno ricevuto il testo della petizione "Abbiamo diritto a sapere: la Soprintendenza parli" sottoscritta da 1044 firmatari;
In detta petizione vengono illustrate le problematiche relative a:
Il rinvenimento di un coccio nei pressi di Villanovafranca o di Senorbì, in provincia di Cagliari, risalente al XV - XIV secolo avanti Cristo con iscrizioni indicate come cuneiformi da un noto assiriologo;
Il rinvenimento nei pressi di Teti, di una navicella nuragica fittile con evidenti segni di scrittura;
Il rinvenimento avvenuto, secondo l'emittente Videolina, lo scorso febbraio, di una ceramica con una misteriosa scrittura;
Il rinvenimento nei pressi di Pozzomaggiore in data imprecisata di un coccio di ceramica con evidenti segni di scrittura;
considerato che:
La petizione citata è corredata da adeguata rassegna fotografica riferita ai reperti citati;
l'interrogante chiede di sapere se risulti al Ministro in indirizzo tutto quanto sopra riportato e, in caso affermativo:
Se i ritrovamenti sopra citati siano corrispondenti al vero e quale sia lo stato dei reperti;
Se detti reperti rinvenuti siano allo stato custoditi e da chi;
Se sia a conoscenza di ulteriori scavi o studi effettuati su detti reperti al fine di verificarne l'autenticità e la eventuale datazione;
Se sia a conoscenza delle procedure poste in essere dalle Soprintendenze competenti per procedere alle necessarie operazioni di catalogazione ed esame dei reperti in oggetto.


Sen. Piergiorgio Massidda

Nella foto: una delle immagini inviate a parlamentari e consiglieri regionali. Si tratta della navicella fittile di Teti

sabato 26 giugno 2010

Quelle sbagliate tentazioni di nuovo centralismo

È un fatto estremamente positivo che si cominci a parlare della riforma dello Statuto speciale della Sardegna. Tutti, indipendentemente dalla questione di merito, dobbiamo dare atto al Partito sardo d'azione che questo inizio di dibattito è merito della determinazione con cui i sardisti si sono battuti per portare all'ordine del giorno la loro mozione sull'indipendenza. Avremo modo, nei due mesi e mezzo che ci separano dalla sessione del Parlamento sardo sulla riforma, di parlare di autogoverno, di sovranità, di federalismo e, naturalmente, di indipendenza, concetto che, grazie al Psd'az, non è più un tabù, una cosa innominabile.
Spogliato di opposti ideologismi, il concetto di indipendenza si inscrive in un quadro internazionale che negli ultimi anni ha visto, anche in Europa, nascere nuovi stati indipendenti. Potrebbe assistere, se fiamminghi e valloni non troveranno nuove ragioni per stare insieme in un Belgio unito, al divorzio consensuale delle due nazioni nordiche, costrette a stare insieme dalla ingegneria istituzionale della Francia e dell'Inghilterra. Dico questo perché, pur essendo io contrario alla indipendenza della Sardegna, è bene che di questioni di tanta portata impariamo a discutere serenamente, senza furori ideologici, assiomi enfatici e stereotipi pieni di retorica.
Voglio dire subito e senza infingimenti che l'idea, circolante anche in settori del mio partito, di abolire la specialità della Sardegna e delle altre regioni e nazioni senza stato della Repubblica è del tutto priva di senso. Un cedimento alle seduzioni di un neo centralismo fuori dalla storia. Bene ha fatto il presidente della Regione a ricordare che nessuno ci ha regalato la specialità e che questa è fondata su irrinunciabili ragioni storiche. Non amo, i miei amici lo sanno, le espressioni forti, ma è bene si sappia che se qualcuno volesse abolire la specialità della nazione sarda, ebbene noi ce la riprenderemo.
Si è perso fin troppo tempo in Sardegna, aspettando che maturasse in tutti i settori della società e della politica la consapevolezza che la nostra Isola ha diritti storici, linguistici, culturali, politici garantiti dalle leggi internazionali e da sempre patrimonio della coscienza collettiva. Leggo sui giornali che il centrosinistra, in un suo convegno a Sassari, ha preso a ragionare su questi problemi. È un fatto rimarchevole, anche se in molti non hanno resistito alla tentazione di banalizzare una questione storica con ingredianti di bassa cucina polemica. Si sarebbe persino detto che è “meglio non discutere di riforme col governo di centrodestra”; pure ossessioni.
In Consiglio regionale si discuterà per una settimana della mozione del Psd'az e di altre presentate da altri gruppi. Sullo sfondo c'è, come ha ricordato il capogruppo del Pdl Mario Diana, la proposta di nuovo Statuto fatta propria dal centrodestra. È quella che ho presentato in Senato, facendo mia la proposta del Comitato per lo Statuto. Non so se il Pd farà proprio il disegno di legge, largamente insoddisfacente e arretrato rispetto alle necessità, del mio amico Antonello Cabras. Ma se lo farà, credo che, con saggezza, il Parlamento sardo saprà trovare una giusta sintesi tra le legittime aspirazioni dei sardisti all'indipendenza, un progetto di reale autogoverno dei sardi e le ancora troppo timide aperture della sinistra a un vero Statuto di autonomia.

venerdì 25 giugno 2010

Le ossessioni di Catone-L'Espresso

Il gruppo editoriale – partito dell'Espresso non se ne fa mancare una, quando si tratta di dare addosso al mostro Bertolaso e ad altri nemici. Anche una bella inchiesta sull'inquinamento del fondale marino davanti alla Maddalena, come in un riflesso condizionato, finisce per catturare nella rete il cattivo Bertolaso, incubo notturno e ossessione dell'Espresso e di sua sorella La Repubblica. Eppure, la denuncia è forte di per sé: nei fondali si trova di tutto, da metalli pesanti e pericolosi a resti non identificati, lasciativi – ci giurerei – prima che il Bertolaso buono (quello ai tempi di Prodi) e quello pessimo (ai tempi di Berlusconi) si affacciasse alla politica.
La crociata non si cura di simili dettagli insignificanti, come non si cura della pessima immagine che, in pieno periodo turistico, da dell'isola e poco si cura dei grattacapi dati alla amministrazione comunale di centrosinistra, lo schieramento nel cuore di quel gruppo editoriale. Come per Catone il censore, c'è una sola missione che conta: Bertolaso delendum est. Così, il povero sindaco si lamenta: quel giornalista è stato alla Maddalena e non si è sentito in dovere di parlare con me.
Santa ingenuità, signor sindaco: se avesse parlato con lei, avrebbe saputo, come dice lei, che “è tutto sotto controllo e già programmato: a ottobre riprenderanno i lavori di bonifica nella zona dell'ex Arsenale” che «in quella parte del Porto Arsenale le bonifiche devono essere ancora completate» avendo a disposizione ancora 5 dei 30 milioni messi a disposizione dal Governo.
Ma se avesse saputo la verità, come avrebbe potuto, L'Espresso, impugnare la spada del giustizialismo e, come un disco rotto, gridare al Bertolaso ingannatore? Fa un bel po' di tristezza, vedere un settimanale una volta prestigioso ridursi all'uso di mezzucci tanto triviali. Il fatto è che quando, come è capitato al partito del sindaco, si cavalca la tigre, poi è difficile scenderne e si rischia di finire nelle fauci del felino.

martedì 22 giugno 2010

Di Pietro indagato? Sì, ma solo un po'

Antonio Di Pietro è dunque indagato per una brutta storia di truffa e, come tutti gli indagati, la prima cosa che ha detto è che è tranquillo, che la cosa è stata chiarita e che comunque la chiarirà ai magistrati. Perfetto e sacrosanto; non ostante il principe dei giustizialisti non se lo meriti, il mio garantismo arriva ad augurargli che sia così e che convinca i magistrati oltre ai suoi fans.
Mi resta una qualche curiosità da soddisfare: chi chiede dimissioni ad ogni avviso di garanzia, chi non manifesta dubbi sul fatto che un uomo politico non debba neppur essere sfiorato dal sospetto, ecco uno così ha pensato di dimettersi, non dico da deputato e da leader di partito, ma almeno da capo condominio? So che è una domanda retorica: chi ha fatto del tagliar teste la ragione della propria vita non ama sentirsi ricordare che anche lui ha una testa. Diventa nervoso come quando qualcuno parla di corda in casa dell'impiccato. Tanto nervoso da annunciare querela contro il suo vecchio compagno di partito che lo accusa di aver dirottato soldi provenienti dal finanziamento pubblico dei partiti.
Che caduta di stile. Uno come lui, galantuomo e innocente per definizione, quasi una tautologia dell'uomo probo, querelare qualcuno anziché rimettersi ai giudici. Che mondo curioso quello del giustizialismo: innalza forche su forche e teme che l'ombra di una lo possa sfiorare. Buona fortuna, on De Pietro.

lunedì 21 giugno 2010

E ridalli col Parco del Gennargentu

Il Parco del Gennargentu, la cui morte fu decretata sia dal ministro Matteoli nel 2005 sia dal Tar tre anni dopo, fa nuovamente la sua comparsa nell'elenco dei “parchi nazionali” redatto il 12 maggio scorso dal Ministero dell'ambiente. Forse si tratta di una dimenticanza o forse di un tentativo, fatto da qualche funzionario legato all'infausta memoria del ministro di centrosinistra Pecoraro Scanio, di reintrodurre dalla finestra ciò che fu cacciato dalla porta dalla mobilitazione delle comunità e delle amministrazioni coinvolte.
Fatto sta, che nell'elenco c'è e che la notizia è destinata a riaccendere le passioni e le polemiche fra le quali eccelle per impudicizia quella sollevata dal presidente della Provincia di Nuoro, Roberto Deriu, che se la prende con la “confusione mentale” del centrodestra. Basterà ricordargli che fu l'ex presidente di centrosinistra Palomba, oggi suo alleato, a suscitare la rivolta di comunità e sindaci con la sua solitaria decisione di firmare l'intesa con il governo italiano di centrosinistra? Credo di no. È nel Dna di questa sinistra l'aver ragione sempre, sia quando dice bianco sia quando dice nero, sia quando era sdraiata nell'accettare il parco imposto dal centrosinistra romano sia quando è contro.
Sono felice nell'aver appreso che il governo sardo ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione sull'inserimento del Parco del Gennargentu nell'elenco aggiornato diffuso dal ministero dell'Ambiente delle aree protette in Italia. È un buon segnale che gli anni avvenire di questo governo regionale saranno dedicati all'affermazione della nostra autonomia speciale. Il principio costituzionale della “leale collaborazione” fra gli elementi della Repubblica vale se non imposto solo alla Regione. E pazienza se questo disturberà l'alta burocrazia ministeriale che teme di perdere un potere che, fra l'altro, neppure le compete.

domenica 20 giugno 2010

Ed ora via con il nuovo Statuto speciale

Quello del presidente della Regione è un buon approccio al rilancio dell'azione del centrodestra sardo dopo la sconfitta. Lo ha avuto, parlando in una lunga intervista con il bravo Filippo Peretti della Nuova Sardegna, che compare oggi sul quotidiano. Così come va nella direzione giusta il suo impegno all'ascolto e al dialogo.
L'amico Cappellacci fa, inoltre, un richiamo forte alla necessità di “ accelerare nella riscrittura dello statuto”. E io sono convinto, non da oggi, che lì sta la grande possibilità del centrodestra e dei suoi alleati sardisti e nazionalitari di riaffermare la leadership nella società sarda offuscata in questa ultima tornata elettorale. Nella riscrittura dello Statuto speciale c'è l'opportunità di disegnare un progetto di Sardegna per il prossimo lungo futuro, terreno di confronto fra le diverse culture che animano il popolo sardo.
In questo lungo periodo di crisi economica e del lavoro, tutti, maggioranza e opposizione, forze sociali e forze imprenditoriali ci siamo piegati sulle emergenze, doverosamente sia chiaro, ma abbiamo perso di vista il fatto che, proprio nei momenti acuti di crisi, classi dirigenti responsabili hanno il dovere di pensare a un modello di sviluppo che renda se non impossibile almeno improbabile il ripetersi ciclico delle crisi. Quello che è strategico nella Penisola, la chimica, secondo i sindacati e la sinistra, è davvero strategico anche in Sardegna? Al di là del fascino degli slogan, chi lo ha detto? Chi garantisce che in una Repubblica unitaria, tutti territori, tutte le regioni debbano uniformarsi a un modello, avere le stesse “strategie”?
Non sarà – come è – che una regione speciale qual è la Sardegna ha il diritto di autodeterminarsi anche in materia di sviluppo economico? C'è come una sindrome di Stoccolma in quella cultura politica, la nostra di liberaldemocratici sardi, che non ha alcuna responsabilità, tutta della sinistra democristiana e comunista, nella imposizione di un fallimentare e costosissimo modello industriale. E si continua, nonostante ciò, ad esserne succube. Se ne può uscire solo elaborando, attraverso un nuovo Statuto speciale, un modello di sviluppo nostro, originale e coordinato con l'Europa, coraggioso e rispettoso del ruolo che una nazione senza stato come la nostra ha in seno alla Repubblica e all'Europa. Senza fughe in avanti, ma coerente con i nostri diritti sanciti dal diritto internazionale.
Molto si è parlato di impianti eolici off shore, si comincia a parlare di ricerche petrolifere nei mari della Sardegna, tutte cose che la coscienza collettiva dei sardi (che hanno evidentemente in idea un modello di sviluppo autonomo) rifiuta. Oggi come oggi non abbiamo strumenti legali, ma solo determinazione, per opporci. E non li avremo fino a quando, come si prevede nel disegno di legge costituzionale che ho presentato in Senato, il mare sardo non sarà mare territoriale della Sardegna. Oggi è sotto la giurisdizione dello Stato, il cui governo ha tutti i diritti costituzionali di agire di conseguenza.
Giustamente, anche se riferito a questioni più generali, il presidente Cappellacci si dice pronto non solo al confronto con il governo, ma anche ad “andare allo scontro”. Da parte mia, se sarà il caso, sarò al suo fianco. Ma credo che sarà poi opportuno passare dallo scontro all'affermazione nello Statuto che sul mare territoriale decidono i sardi. E questo, come si capirà, è solo un esempio, per importante che sia.

sabato 19 giugno 2010

Perché si sappia la verità, ho detto alla stampa che...

Ho raccontato ieri ai giornalisti che cosa è successo in questa tornata elettorale appena conclusa. L'ho fatto con calma ma con assoluta determinazione: è bene che, oltre agli amici che seguono questo blog , tutti i sardi sappiano come nella provincia di Cagliari si è consumato un brutto episodio di arroganza politica. Qualcosa, insomma, che riguarda tutti i sardi, non solo quelli della mia provincia: qui è fallito un tentativo di esproprio del sacro diritto dei cittadini ad essere rappresentati da donne e uomini di uno schieramento, non di una corrente in cerca di visibilità.
Che cosa abbia detto, voi lettori di questo blog, lo sapete: non molto di più di quanto qui abbia scritto. I giornali hanno ben sintetizzato il mio pensiero su quanto è accaduto e su quanto, secondo me, dovrà succedere. Che, per esempio, i dati parlano chiaro: in città, tra il primo e il secondo turno ha perso quasi 43mila voti e che uno, assessore per anni al Comune di Cagliari, non si può permettere di essere tanto clamorosamente bocciato dai suoi amministrati.
A chi, scambiando causa ed effetto, mi rimprovera di aver fatto perdere il centrodestra ho ricordato una cosa che è scritta nei dati elettorali: Salvatore Cicu dovrebbe pensare meglio alle cittadine dove per anni ha esercitato la sua influenza politica, quali Villasimius, Quartucciu, Selargius, Quartu. Qui, al primo turno il Pdl è andato bene, al ballottaggio ha vinto Milia. Tanto più, ed ecco la cosa più clamorosa, che egli ha ripetuto al ballottaggio un antico vizio di arroganza con i possibili alleati. Ha rifiutato di stringere un accordo, assolutamente senza contropartite, con le liste che al primo turno mi hanno appoggiato. Ed ha fatto pagare al Pdl lo scotto della sua arroganza. Nel 2002, a Selargius, il Pdl aveva ottenuto il il 42,4% contro il 32,9% del centrosinistra e il 24,5 del Ccd e di una civica. Non volle apparentarsi con queste liste e il Pdl perse il Comune: 51,9 al centrosinistra, 48,1% al centro destra. Si può, naturalmente, sbagliare. Ma ripetere lo stesso identico errore è diabolico.
Io mi ritengo il vincitore morale di questa competizione: ho costretto tutti, dal centrodestra al centrosinistra, ad andare in mezzo alla gente. Ma c'è una questione più generale e importante del pessimo risultato personale dell'on Cicu: il metodo deve cambiare; non è possibile che i mandarini stiano ancora al comando. Ho sentito parlare di commissariamento. Benissimo. E sono d’accordo, non si può andare avanti in questo modo. Si parla di deferirmi ai probiviri. Spero lo si faccia, così potrò dire come sono andate le cose. Anche se non mi sembra che lo si sia fatto per tante altre situazioni, come quella Gianfranco Miccichè in Sicilia. Quel che è necessario è un cambio di rotta. Per questo per la prossima tornata elettorale, la madre di tutte le battaglie, le amministrative di Cagliari del prossimo anno, chiederò che vengano fatte le primarie in autunno. Oppure che si utilizzi lo strumento introdotto da Berlusconi, quello dei sondaggi seri, mettendo a correre i cavalli migliori.
Io spero vivamente che alle persone degne di esser candidate a sindaco della capitale della Sardegna si permetta di confrontarsi. Se invece si pensa di bruciarli e di ritornare ai mandarini, allora l’ascia di guerra che ho seppellito (io ho votato Farris), ma non buttato, potrà essere recuperata. Non è una minaccia, ma un avvertimento perchè il centrodestra non merita la fine che gli stanno facendo fare. A suo tempo: quando ero coordinatore regionale, dopo una sconfitta elettorale, avevo rassegnato le dimissioni (poi respinte). Ma l’attuale coordinatore Mariano Delogu non ha la stessa sensibilità. È stato uno sbaglio pensare che il clima favorevole al centrodestra (dalla vittoria in Sardegna a quella, data per impossibile, nel Lazio) rappresentasse una garanzia per la sicura vittoria a Cagliari, quale che fosse il candidato. Tanto era data per sicura che molti amici, prima decisi a votare le mie liste, di fronte a tanta sicumera, hanno deciso fra quelle che sono state presentate come “due liste del Pdl” hanno scelto di rafforzare quella certamente vittoriosa. Quanti di questi si sono sentiti ingannati e al ballottaggio si sono astenuti o votato altrimenti?
Il mio è un ragionamento tutto interno al partito che ho contribuito a fondare, di cui sono un dirigente e che rappresento da 16 anni in Parlamento. Ragionamento interno e fatto al solo scopo di rafforzare il radicamento del Pdl in mezzo al popolo sardo che si merita molto di più della prepotenza di un gruppo di mandarini che come le scimmie della giungla di Kipling si ritengono il meglio del meglio perché da tempo se lo ripetono.
A questo discorso, certo severo ma responsabile, hanno risposto non i responsabili primi della batosta che abbiamo ricevuto, ma l'inconsapevole Farris. Forse, oltre ad essere “forte e concreto” è davvero troppo giovane per rendersi conto di evocare paradigma in uso nel defunto Partito comunista dell'Unione sovietica, per il quale i dissidenti erano matti. E quanti ne fece ricoverare nei manicomi della Siberia. Per Farris – leggo sui giornali – io sarei in uno “stato confusionale che ormai assume un carattere patologico, forse anche a causa della calura estiva”. Una perfetta disgnosi sovietica, insomma. Ma c'è di peggio: secondo lui io sarei “l'antipolitica”. Certo che se la politica è quel che intende e pratica lui, difficile non essere contro questa politica che ha portato, per dire, il 75 per cento degli elettori della provincia a non andare al voto. Per fortuna, la politica è altro e spetta a chi ne è convinto lavorare per far ritornare nei cittadini il gusto di interessarsene e di parteciparvi.
Anche sui dati elettorali, l'amico Farris confonde realtà e desideri. “Al primo turno ho conseguito circa 5.500 voti in più della coalizione e la lista che recava il mio nome circa il 4,5 per cento di preferenze”. La seconda parte dell'affermazione è incontestabile. Ma nella prima parte confonde capre e pecore, oltre a dire cose scontate: non esiste possibilità, con la legge elettorale attuale, che un candidato presidente prenda meno voti delle liste. Il fatto è che per Farris ha votato il 46,5% dei 212.864 elettori che hanno dato il loro consenso ai candidati presidenti; per le liste ad esso collegate ha votato il 48,68 dei 192.032 elettori che hanno dato il loro consenso alle liste. Non solo: Giuseppe Farris ha intercettato 5.566 voti, pari al 5,9 per cento dei voti di lista; io ho avuto come persona 3.576 voti, pari al 22,9% dei voti di lista. Persino Graziano Milia ha fatto meglio, ottenendo 8.109 voti personali, pari al 12,7% dei voti di lista. Sono i numeri che rappresentano la realtà, non i desideri e il 46,5% è di due punti inferiore a 48,68 per cento. Comunque lo si voglia vedere.

mercoledì 16 giugno 2010

Così, tanto per fare un po' di chiarezza

Ho l'impressione che i dirigenti sardi del mio partito non abbiano ben metabolizzato quel che è successo domenica e lunedì in Sardegna. Così come, però, è del tutto infondata la speranza di quelli del centrosinistra di aver invertito il senso di marcia delle fortune elettorali. Questi ultimi fingono di dimenticare di aver perso la provincia di Gallura e Quartu, terza città della Sardegna e di aver goduto degli errori di arroganza commessi da una corrente del Pdl che hanno regalato al centrosinistra la provincia di Cagliari e altri enti. Posto rimedio a questi errori, commessi, lo ribadisco, non dal partito ma da un gruppo dirigente autoreferenziale, il centrodestra tornerà ad essere quel che è: lo schieramento maggioritario anche in Sardegna.
Ma m'interessa di più, in questo momento, ragionare sul primo aspetto: l'incomprensione, da parte della corrente responsabile della sconfitta, di quanto è successo. C'è chi invoca soluzioni alla Komintern, con l'espulsione dei dissidenti e chi, confondendo le cause con gli effetti, imputa la sconfitta all'assenteismo e allo scarso fascino delle Province. Entrambi sono, generalmente, effetti di disaffezione dei cittadini alla politica, ma il crollo verticale dei votanti nella provincia di Cagliari (ridottisi al 24,9% contro il 51,6% dell'Ogliastra) è effetto di una brutta politica, non la sua causa. E allora, vale la pena di ricordare come sono andate le cose.
Nell'autunno dello scorso anno, molti mesi prima che fossero indette le elezioni, un sondaggio dava vincente il candidato del centrosinistra Milia. E solo due persone, secondo quel campione, avrebbero avuto la possibilità di batterlo: il sindaco di Cagliari ed io. Fui naturalmente favorevole alla candidatura di Emilio Floris, ma egli si disse non disponibile a lasciare il Comune di Cagliari perché giustamente era deciso a mantenere il patto stretto con gli elettori. E fu così che centinaia di elettori di centrodestra, rappresentanti di associazioni di malati e di categorie mi invitarono a dare la mia disponibilità a candidarmi per la Presidenza della Provincia di Cagliari, richiesta che, naturalmente, mi ha fatto onore. Prima di dare questa disponibilità, ho ovviamente consultato i dirigenti del partito a vari livelli e da essi ricevetti un incoraggiamento a farlo. Annunciai la mia decisione durante il congresso dell'Ugl e questa mia comunicazione riscosse l'applauso generale, anche di quanti, poi, si sono rimangiati il consenso.
È successo poi che un ulteriore sondaggio desse il centrodestra vincente nella provincia di Cagliari e un gruppo di dirigenti sardi ancora furono d'accordo, ponendo una condizione inedita in Italia: avrei dovuto dimettermi dal Parlamento. La corrente di Salvatore Cicu vide nei risultati di quel sondaggio una forte opportunità di candidare un suo uomo, sicura di avere la strada spianata dalla volontà espressa dai cittadini in quella indagine demoscopica di mandare il centrosinistra all'opposizione. A questo si aggiunga la vittoria, contro ogni aspettativa, di Renata Polverini nel Lazio e la condanna in secondo grado di Graziano Milia: si era determinata la condizione ideale per eleggere chiunque fosse stato presentato agli elettori del centrodestra.
Senza un pronunciamento del partito e senza neppure dirmi una parola, la corrente di Cicu impose la candidura dell'amico Farris. E mise Berlusconi, per altro favorevole alla mia candidatura, davanti al fatto compiuto. Come si dice nel gergo calcistico, in zona Cesarini intervennero per convincere il presidente del partito l'intervento di Scaloja e Verdini, che assicurarono la vittoria di Farris, e la minaccia che non candidando l'uomo scelto da Cicu si sarebbe dimesso in massa l'intero gruppo dirigente del Pdl sardo. La certezza della vittoria e la minaccia indussero Berlusconi a chiedermi di ritirare la mia candidatura assicurandomi che il mio passo indietro avrebbe avuto come conseguenza la mia nomina a sottosegretario alla sanità, il coronamento di un sogno nella mia vita politica. Ringraziai ma dissi di no, come è noto.
Io avevo assunto l'impegno, oneroso e per niente facile, di raccogliere il pressante invito dei militanti di base, angustiati dalla loro esclusione dalla vita democratica del Partito della libertà. Avevo dato loro la mia parola e l'ho voluta mantenere, non a cuor leggero e non senza angustia, come chiunque può ben capire. Le liste che mi hanno appoggiato ed io abbiamo avuto il consenso di più del 9 per cento degli elettori, non il 2 o 3 per cento che, con derisione, la corrente di Cicu mi accreditava, con la certezza che quelle percentuali non avrebbero inficiato la “sicura vittoria” di Farris al primo turno.
Le cose, com'è noto, non sono andate così. Ma ancora la situazione era rimediabile. Sarebbe bastato un atto di umiltà, l'invito alle mie liste a discutere insieme un accordo politico, libero assolutamente da offerte o richieste di posti di potere che non interessavano i miei amici e, certo, non me. Con una arroganza che rasenta la prosopopea, quella corrente ha deciso di fare da sola, convinta che, tanto, donne e uomini di centrodestra avrebbero comunque votato il suo uomo. Sbagliarono sia perché a votare le mie liste furono anche molti elettori di sinistra, sia perché si trattava di gente dalla schiena dritta. Io e altri amici abbiamo votato Farris ma i nostri voti non sono bastati; l'arroganza di quella corrente, che oggi sogna essere il Partito comunista dell'Unione Sovietica e di poter radiare gli infedeli, ha compiuto un miracolo contro natura: donne e uomini di destra e di centrodestra hanno voluto punire la prepotenza votando Graziano Milia.
Nel comune di Cagliari, di cui l'amico Farris è da anni assessore, la batosta al ballottaggio è stata ancora più sonora. Così come è capitato in grandi comuni come Selargius, Quartucciu e Quartu, da sempre bacini di forti consensi per Salvatore Cicu. Il senatore Massidda in questo non c'entra alcunché. C'entra, invece, il fatto che gli elettori non ne potevano più di metodi politici e di sostanza dell'agire che hanno in Cicu un esempio assai poco commendevole. Mi ha chiesto, in questo blog, un amico angustiato dalla sconfitta perché mi fossi candidato. Lo ridico a tutti: ci sono due tipi di sardi, quelli che sono disposti a sopportare le angherie e quelli che si battono sempre e comunque contro l'arroganza. In me avete un parlamentare che appartiene a questo secondo tipo.
Aspetto, dagli uomini che ci hanno fatto perdere la Provincia di Cagliari una coraggiosa autocritica e azioni conseguenti.

venerdì 11 giugno 2010

Una legge per la civiltà

Sono felice di aver contribuito alla approvazione di una legge che renderà la nostra società più civile e più libera dall'incubo opprimente di un Grande fratello che tutto ascolta. Per i mafiosi, gli autori di trame terroriste, i delinquenti, i corruttori e i corrotti non cambia alcunché. I magistrati che vorranno usare le intercettazioni per fini di giustizia continueranno a poterlo fare, con la garanzia che gli onesti non finiranno nei tritacarne mediatici che hanno violentano in questi anni migliaia di cittadini, spesso distrutti nelle loro carriere e negli affetti familiari, senza neppure ricevere, alla fine della loro odissea, le scuse di chi aveva gettato fango sulla loro onorabilità.
L'opposizione (parlo, sia chiaro, di quella costituzionale, non di quella eversiva e giustizialista) ha perso un'occasione unica per mostrare la sua volontà di contribuire alla fuoriuscita dal clima di imbarbarimento che tendeva a erodere alle fondamenta lo Stato di diritto. In esso si sanzionano i delitti non i comportamenti sessuali degli individui, e poiché così deve essere, non si può consentire che un pm o un funzionario di una Procura trasmetta ai giornali quintali di intercettazioni telefoniche perché si possa fare strame della onorabilità di chicchessia. Sia il gruppo di pastori orunesi di cui non si capisce la lingua, sia il presidente del Consiglio.
Una società in cui i cittadini temono di parlare al telefono o all'aria aperta o in casa per timore del Grande fratello non è una società libera. So benissimo che intercettando decine di migliaia di persone, centoquaranta mila in un anno, c'è la possibilità di avere notizie di qualche reato commesso, così come so che alla fine dell'Ottocento, rastrellando un intero paese, si aveva la probabilità di arrestare qualche delinquente. Ma uno Stato di diritto può consentire rastrellamenti virtuali o fisici?
Non ho dubbi, insomma, che il Senato abbia fatto la cosa giusta e che cosa giusta farà la Camera. Non è perfetta, avendo dovuto scontare una quantità di compromessi, suggeriti da oppoizione e mondo della stampa. Del resto, una legge non è per sempre e il legislatore saprà modularla mano a mano che i suoi effetti saranno monitorati e verificati. Resta la questione dei limiti posti alla pubblicazione delle intercettazioni. Con un atteggiamento corporativo, da vera Casta, i sindacati dei giornalisti insorgono gridando all'imbavagliamento della stampa. Ho profondo rispetto di chi non la pensa come me, ma chiedo ai giornalisti con i quali ho rapporti di amicizia, forse erano meno liberi i giornali quando non dovevano attendere qualche compiacente elargitore di interi fascicoli di intercettazioni? Erano, voglio dire, meno liberi i vostri colleghi che scoprivano le notizie con le loro inchieste, con la faticosa ricerca fatta di interviste, di voci da verificare? Forse che questa legge impedisce di continuare a scavare alla ricerca di notizie?
No, questa legge impedisce di continuare un andazzo che moltissimi giornalisti hanno sottoposto a dura critica, e a volte ad autocritica, senza alcuna modifica di comportamento. Un piccolo, forse sincero, mea culpa per il tanto che era necessario a pubblicare intere paginate di intercettazioni in cui venivano travolti presunti colpevoli e sicuri innocenti. Bene, questo ora non sarà più possibile: il bene prezioso della libertà di stampa dovrà convivere con quello altrettanto prezioso del diritto di ogni cittadino alla riservatezza. Sono convinto che ne guadagnerà la qualità dei giornali, oggi in drammatica crisi di credibilità e di diffusione, e, soprattutto, la libertà della stampa.

mercoledì 9 giugno 2010

Federalismo: non sarà un pranzo di gala, ma è necessario

La cultura politica più avvertita si rende conto che il federalismo è, se non l'unica certo la principale fonte di salvezza dell'unità della Repubblica. Se non è una mia illusione sul senso di responsabilità delle classi dirigenti, credo che le schermaglie cui assistiamo di questi tempi rispondono più a necessità dialettiche che a seri convincimenti sul pericolo rappresentato dal federalismo. Del resto, è da prendere come alto avvertimento quel che ha detto a Torino il presidente della Repubblica: “Unità nazionale e coesione sociale non significano centralismo, mortificazione delle autonomie, delle diversità”.
Certo, parafrasando un celebre aforisma, il federalismo non sarà un pranzo di gala. Le enormi potenzialità delle regioni, penso soprattutto alla mia Sardegna, potranno dispiegarsi solo se ne saranno capaci le loro classi dirigenti; non solo quella politica, ma anche e soprattutto quelle sindacali, imprenditoriali, intellettuali. Pensare che le regioni più ricche (non solo, ma anche più virtuose) si rassegnino all'infinito a ripianare i buchi spaventosi delle regioni meno virtuose o decisamente scialacquatrici, significa non capire che saranno queste ingiuste pretese a mettere a rischio l'unità della Repubblica.
Avevo in mente tutto questo, quando ho fatto mia la proposta del Comitato per lo Statuto e l'ho presentata come mio disegno di legge che giace ormai da molti mesi anche in Consiglio regionale. È una proposta coraggiosa, in sintonia con il coraggio che il popolo sardo sa dimostrare a sé e agli altri nei momenti di svolta. Chiede meno Stato e più autogoverno. E così non riesco a condividere le preoccupazioni che il segretario della Cisl ha espresso ieri a Cagliari sul federalismo. Spero solo che sia frutto di una sintesi giornalistica, ma mi riesce incomprensibile leggere che “il federalismo non si potrà fare con Province, Comuni, Comunità montane e Consigli di quartiere. Chi paga per tutto questo? Non significa mortificare la democrazia, ma quando la democrazia è una Babele diventa demagogia, quando è essenziale è più efficace e costa meno.”
La partecipazione, la pluralità dei luoghi di democrazia, al pari del federalismo interno non sono una Babele. E temo la “democrazia essenziale”, la temo come il fuoco. So che, naturalmente, Bonanni aveva in mente ben altro, ma a me la “democrazia essenziale” ricorda troppo da vicino quella iraniana. Che la democrazia costi, che i suoi istituti abbiano bisogno di cure dimagranti, che, per esempio, non è tollerabile che nella Regione siciliana ci siano trentamila addetti alle Asl è sacrosanto. Anche se sarei curioso di sapere quale sarebbe la reazione di Bonanni alla notizia che il governo siciliano ha deciso di portare a tremila quegli addetti, quanti ce ne sono in Lombardia.
Comunque sia, se il federalismo che alcuni hanno in testa è quello di federare sub-centralismi regionali, credo sia onesto avvertire che il risultato sarebbe lo sfascio della Repubblica.

martedì 8 giugno 2010

Come Di Pietro finì nella sua ragnatela

Non provo alcuna soddisfazione, sinceramente, per il fatto che Antonio Di Pietro sia costretto ad inghiottire bocconi amarissimi, approntati nella cucina del giustizialismo. Quella stessa cucina in cui per anni è stato maitre, cuoco e anche addetto al servizio ai tavoli. Né, come potrei fare con un minimo di applicazione della sua scuola di pensiero, chiederò la sue dimissioni da parlamentare della Repubblica.
Nel silenzio dei media suoi fiancheggiatori, la dirittura morale del principe dei giustizialisti è messa in dubbio non da quotidiani vicini a Berlusconi, ma dal maggiore quotidiano italiano cui tutti, egli stesso, riconosce imparzialità e rigore. Come altri finiti nella sua gogna, anche Di Pietro esibisce sentenze di assoluzione e immacolatezza della sua fedina penale. Ma si rifiuta di rispondere alle questioni, poste dal Corriere della Sera e da Antonio di Domenico, cofondatore dell'Italia dei Valori, riguardanti aspetti non penali ma morali.
Di Domenico ha scritto un libro che si annuncia molto ben documentato sulle ombre diprietriste e, a quel che il suo ex amico denuncia, Di Pietro è intervenuto varie volte sull'editore per impedirne l'uscita e, comunque, per cancellare alcune foto non particolarmente innocenti. Questo avrebbe fatto, insomma, una persona che è sempre in prima fila in manifestazioni, più o meno strumentali, in difesa della libertà di stampa. Purché abbia l'onestà intellettuale di dare risposte alle domande imbarazzanti che gli vengono poste, gli auguro di trovarne delle convincenti. La macelleria mediatica non mi piace neppure se sul bancone finisce un avversario urticante come Di Pietro.
C'è molta saggezza nel detto sardo: “Non dire di quell'acqua non berrò mai”. Qui in Sardegna è intervenuto con tutta la sua forza su Federico Palomba perché compisse il rito dell'ostracismo contro un candidato alle Provinciali, assolto in primo grado, condannato in secondo e quindi innocente fino al giudizio di Cassazione. Tutto nel nome della illibatezza morale che deve avere chi si presenta al cospetto del principe del giustizialismo. Temo che non succederà mai, ma auguro a Di Pietro e al clan dei giustizialisti di avere, dopo quest'ultima caduta di stile, la capacità di capire che uno Stato di diritto è cosa diversa dallo Stato etico che essi sognano per la Repubblica italiana, per loro sfortuna ancora laica.

lunedì 7 giugno 2010

Non diano nulla per scontato

Un liberaldemocratico parla con tutti e soprattutto con coloro che dissentono, senza mai ritenerli dei traditori. Un vetero comunista pensa che chi dissente non ha diritto al dialogo, se non per sentirsi accusare. Culturalmente un liberaldemocratico pensa che i dissenzienti siano persone in disaccordo. Un vetero comunista pensa che i dissenzienti siano persone eretiche da mettere fuori dal partito. Tutti dovrebbero ricordarsi che la liberlademocrazia difende la libertà di espressione e valorizza come una risorsa posizioni differenti. Il veterocomunismo, che abbiamo sempre combattuto, impone un pensiero unico deciso tra pochi: chi non è daccordo è un eretico, un traditore.
Sono due culture politiche in antitesi, per la prima quel che conta è l'individuo e il suo diritto alla libertà; per la seconda vale il principio secondo cui ha sempre ragione il partito e tutti si devono uniformare. A Cagliari, questa seconda scuola di pensiero ha fatto adepti importanti anche nel mio partito; fintanto che comanderanno tenteranno di imporre questa linea ai militanti e alla base. In pochi hanno sancito che con Massidda non si collabora, tanto il voto suo e dei suoi sostenitori è scontato, “ci viene gratis”.
Su una cosa, naturalmente, hanno ragione: sono fra i fondatori del Popolo della libertà, suo dirigente e lo rappresento nel Senato della Repubblica, il mio voto andrà al Pdl. I miei sostenitori, donne e uomini di centrodestra e di centrosinistra, gente che si è avvicinata alla politica perché si è riconosciuta in una comune battaglia per la democrazia contro la metastasi del correntismo, non sono miei fedeli scudieri, sono persone libere a cui mai mi sognerei di imporre una indicazione di voto. Dimostrerei loro che hanno mal riposto la loro fiducia in me.
Questo dico e ribadisco perché del risultato del ballottaggio, io e i mei amici non portiamo alcuna responsabilità.

sabato 5 giugno 2010

Un paio di considerazioni prima del secondo turno

In questi ultimi anni, migliaia di persone militanti di base del Pdl, hanno assistito con imbarazzo e delusione al fatto che in certi gruppi dirigenti fosse ignorata la meritocrazia e premiati, invece, il trasformismo e l'opportunismo, senza il rispetto dovuto alle capacità individuali. La sollecitazione di molte migliaia di persone mi ha indotto ad assumere un impegno politico, culturale e morale che nessuno può sospettare di fame di poltrone. Io ne ho già una e prestigiosa nel Senato della Repubblica e per mantenere il mio impegno ho rinunciato ad un incarico che avrebbe coronato il mio sogno di occuparmi, nel governo, di sanità.
Chiarito questo, sento di dover fare un paio di considerazioni sulle ultime vicende elettorali. La prima è che Farris, con il suo 46,5 per cento personale e il 48,7 delle liste, non ha perso; ha perso un metodo politico nel quale anche il candidato del Pdl si è lasciato coinvolgere nella vana illusione che qualsiasi uomo di corrente abbia la vittoria in tasca in un clima favorevole al centrodestra. La seconda considerazione è che il centrodestra continua ad essere il primo schieramento nella provincia di Cagliari, posto che i voti per Massidda e i voti per Farris, sommati insieme danno il 57,7 per cento. Più di quanto i sondaggisti avessero previsto.
C'è anche una terza considerazione da fare: più del 2 per cento degli elettori delle liste del Pdl e degli alleati non ha dato la propria preferenza a Farris; di contro, per me ha votato quasi l'1 per cento in più di quanti abbiano votato le mie liste. Piccoli numeri, si dirà, ma importanti segnali. Seimila elettori hanno votato Pdl ma non Farris; quattromila elettori non hanno votato le mie liste, ma me sì. Comunque si guardino i risultati, quel che ne esce fuori con chiarezza è che la mala piaga del correntismo, aperta nel corpo sano del Pdl da Salvatore Cicu, non paga. Finito il ballottaggio, dirigenti responsabili dovrebbero trarne le conseguenze.
Pur essendo vietata la diffusione dei sondaggi, gli autori della candidatura dell'amico Farris – nei confronti del quale, sia ben chiaro, non nutro alcun tipo di ostilità – sono andati spargendo la voce che io non sarei andato oltre il due per cento, autorizzando il candidato ad annunciare ad elettori e media che aveva già vinto e che non ci sarebbe stato alcun ballottaggio. La realtà è che ho ottenuto quasi cinque volte di più e che il ballottaggio ci sarà. Il diavolo del correntismo sa fare le pentole, ma non ha ancora imparato a fare i coperchi.
Adesso mi si chiede, soprattutto in maniera implicita e quasi mai esplicita, di far convergere su Farris i consensi che ho avuto. So, o credo di sapere, che la grandissima parte di chi mi ha votato ha sentimenti e passioni di centrodestra. Ma non tutti lo sono: ho avuto consensi da elettori che, pur provenendo da altre culture politiche, hanno apprezzato il coraggio e la determinazione con cui ho teso a vanificare la prepotenza della nomenklatura. Detto questo, io non sono e non mi sento padrone di voti, concetto estraneo alla mia concezione della politica; tanto meno sono in grado di orientare voti verso chi non ritiene i miei elettori e me degni di partecipare alla condivisione di un progetto per amministrare la Provincia di Cagliari.
Io sono fondatore, dirigente e militante del Popolo della libertà e conosco quale è il mio dovere, una volta raggiunto l'obiettivo di mettere in mora la metastasi delle correnti. Chi mi ha onorato del suo consenso, no, non ha lo stesso mio dovere morale. Da donne e uomini di centrodestra sapranno scegliere. Ma non mi si chieda, per di più per vie traverse, di far finta che un apparato abbia deciso, nel chiuso delle sue stanze, di candidare un proprio uomo senza alcun confronto con altre possibilità sicuramente vincenti. E vincenti al primo turno, come – e questo è imperdonabile – segnalavano i sondaggi ben conosciuti.