mercoledì 23 dicembre 2009

Auguri per un anno senza più veleni

Auguri a tutti i lettori del mio blog, ma proprio a tutti. Agli avversari che mi onorano della loro attenzione, a chi qualche volta trova condivisibile quanto scrivo e a chi, invece, non lo condivide mai. Agli amici, tantissimi, che mi leggono e non intervengono, forse pensando che la condivisione non solleciti, di per sé, l'interlocuzione.
C'è in giro, in Sardegna ma non solo, un clima diverso, più disteso fra chi governa e chi si oppone. C'è voluta l'aggressione a Berlusconi, perché gran parte dell'opposizione e, perché no?, di parte della maggioranza, comprendessero come lo scontro per lo scontro e l'avvelenamento della politica inevitabilmente portasse alla violenza. Forse, come ha detto il presidente del Consiglio, il suo dolore non è stato invano. Gli avversari, se questo clima continuerà a dare buoni frutti, gli avversari torneranno ad essere avversari e non nemici.
C'è però un problema e sta in chi, per cinismo e per calcoli elettorali, da questo clima si vuol tirare fuori. C'è chi ha fatto i conti (ne ho avuto notizia da un dibattito fra giornalisti su La7): l'area di chi non si rassegna alla civiltà dei rapporti politici è del 25 per cento del corpo elettorale. Ed è lì che il dipietrismo vuol pescare consensi alzando costantemente il livello dell'estremismo per ora solo parolaio. Si tratta di un fenomeno assai ben conosciuto dalla scienza politica: ha prodotto negli anni il poujadismo e i fenomeni Le Pen, British National Party, il Jobbik ungherese, l'austriaco Joerg Haider, l'Ataka bulgaro, etc. Tutti straordinariamente capaci di solleticare le pulsioni giustizialiste di alcuni strati delle popolazioni.
Di Pietro sa come utilizzare elettoralmente questa voglia di forca, anche se poi, tartufescamente, si indigna con un suo compagno di partito che di dice pronto a scagliare contro Berlusconi tante statuette quanti operai saranno licenziati a Termini Imerese. Suoi fans hanno lanciato una raccolta di firme sotto una denuncia alla Procura di Milano facendo propria l'infame sospetto che il primo ministro abbia organizzato l'aggressione. Un giornalista del gruppo editoriale autore della campagna mediatica contro il premier ha avocato qualche giorno fa lo spettro dell'incendio del Reichstad, organizzato dai nazisti per far vincere Hitler.
Questa e non altre è una emergenza democratica, purtroppo sottovalutata dal maggiore partito d'opposizione. Ma lo è. In Francia, quando Le Pen superò di voti il Partito socialista, entrando in ballottaggio con Chirac, i socialisti non ci pensarono più di un momento prima di invitare i propri elettori a far convergere i loro voti sul candidato gollista, consentendo la sconfitta di Le Pen. Capirono, ovviamente, che l'unità repubblicana era indispensabile per battere chi avrebbe trascinato la Francia in una pericolosa avventura totalitaria.
Non ostante tutto, ho fatto i miei auguri ai colleghi amici di Di Pietro. Molti li hanno accettati e contraccambiati, ma altri li hanno rifiutati senza rendersi conto del danno che facevano non a me ma a loro stessi.

venerdì 18 dicembre 2009

La Sassari-Olbia in dirittura d'arrivo. Continuiamo a vigilare

La questione della Sassari-Olbia ha dunque avuto una importante svolta con la messa a disposizione dei primi 162 milioni di euro e con la conseguente decisione di usare per la sua costruzione le modalità accelerate previste per il G8 ed impiegate nella ricostruzione in Abruzzo. Gli altri 470 milioni, stanziati, seguiranno per il completamento, dice una persona attendibile come Bertolaso, entro il 2014. Si tratta di un primo successo – non totale – di una grande mobilitazione popolare unitaria e della determinazione con cui, senza inutili strilli e agitazioni, il governo sardo ha seguito la vicenda.
L'opposizione, politica e mediatica (spesso interdipendenti, e questo non fa bene ai media), dopo aver allarmato l'opinione pubblica con toni esasperati, oggi è costretta a cimentarsi in quel in cui riesce meglio: cercare il pelo nell'uovo, rispolverare gli slogan sessantottini del “tutto e subito”. L'importante primo successo di una battaglia in cui istituzioni e cittadini si sono trovati uniti e in cui l'opposizione è stata non domina ma comprimaria è, così, svilito sull'altare degli stereotipi: le battaglie sono vinte solo se a guidarle sono i migliori, l'opposizione si deve opporre sempre e comunque. Che peccato, intaccare il grande clima di unità per piccoli calcoli.
Più interessante, e da me pienamente condiviso, è l'atteggiamento vigile del movimento che intorno alla Sassari-Olbia si è creato e sviluppato: un misto di soddisfazione per il primo risultato raggiunto e di richiamo a non abbassare la guardia. Il presidio a Enas, dove per diciotto giorni ha stazionato il camper dei due consiglieri del Pdl, Gigi Carbini e Pietro Luciano, e dove per tredici giorni hanno fatto lo sciopero della fame, è stato smantellato. Contemporaneamente si è deciso che la mobilitazione continuerà. È giusto che così sia.
Si è sentito ieri qualcuno lamentarsi perché la Sicilia ha ottenuto di più nella riunione del Cipe. A parte che va considerato che altre regioni hanno ottenuto meno della Sardegna, hanno idea, i critici, dell'unità che i siciliani riescono a raggiungere quando sono in gioco gli interessi della loro terra? E hanno, soprattutto, idea di quale immagine dia la politica sarda quando, di fronte a un risultato ottenuto grazie anche all'unità popolare, c'è ci si agita per distruggere l'unità raggiunta? Per piccoli calcoli di bottega, si sono chieste le dimissioni del presidente della Regione. Pensano, costoro, che una classe politica che in viaggio si comporta come i capponi di Renzo sia credibile nelle giuste rivendicazioni del popolo sardo?

giovedì 17 dicembre 2009

Una lucida follia politica che spinge alla violenza

“Sì alla politica, No alla violenza” è il titolo dell'incontro che ho organizzato per sabato prossimo nel THotel di Cagliari, in via dei Giudicati. Cominciamo alle 9.30 e al dibattito parteciperanno il presidente della Regione Ugo Cappellacci e il magistrato Mario Marchetti, oltre a me.
C'è un urgente bisogno, soprattutto dopo l'aggressione subita da Silvio Berlusconi, di guardarci in faccia, cittadini, politici, magistrati, giornalisti non solo per chiederci perché si sia arrivati a questo punto di degrado, ma soprattutto per capire come uscire da questa spirale che sembra incontrollabile. Che sia un dovere della politica arrestarla ed uscire dal processo di imbarbarimento è ovvio ed urgente. Ma è un dovere anche dei cittadini contribuire al contrasto dei preoccupanti segni di barbarie che si sono visti in Internet subito dopo il ferimento del presidente del Consiglio. Si è cominciato con l'apologia dell'aggressione, si è continuato con l'invito a fare una sottoscrizione per assoldare un killer e queste istigazioni hanno suscitato reazioni altrettanto becere con dichiarazioni di odio nei confronti di Di Pietro fino a chiedere la firma sotto un proclama astioso contro i sardi conterranei di Tartaglia. Una spirale che neppure l'amministratore di Facebook può bloccare se non con la cancellazione dei messaggi più violenti. Né basta, a salvare la coscienza individuale, il dire che siamo tutti vittime del clima avvelenato.
È proprio questo clima che va bonificato. C'è chi, come l'ambasciatore Sergio Romano, facendo proprio il senso più profondo degli appelli del presidente della Repubblica, afferma che è necessario non chiedersi chi ha cominciato ma decidere interrompere istantaneamente l'escalation della violenza verbale. Personalmente sono d'accordo: fermiamoci prima che sia troppo tardi. E cominciamo dalle reciproche legittimazioni, dal riconoscimento che la minoranza ha il diritto di opporsi e la maggioranza diritto di governare.
Ci sono, in giro, barlumi di risipiscenza nell'incontro fra Silvio Lai e Ugo Cappellacci, ce ne sono nella visita di Bersani a Berlusconi. Ho già scritto su questo blog che dalla Sardegna potrebbe partire un benefico contaggio per la politica italiana e bisogna lavorare seriamente perché ciò avvenga.
C'è, però, un problema, per ora di limitate dimensioni ma destinato a crescere con la chiamata a raccolta nel futuro, come è capitato altrove in Europa, degli istinti forcaioli che purtroppo ancora perdurano in alcuni strati della popolazione. Istinti che trovano nelle parole di Antonio Di Pietro un terreno di coltura e, al contrario, in quelle di Napolitano un inopportuno richiamo a ragionare con la mente e non con i visceri. Ieri mi è capitato di sentire Di Pietro evocare due periodi della storia non solo italiana: la Sacra alleanza e il Comitato di liberazione nazionale.
Immaginando che il capo del giustizialismo conosca bene ciò che evoca, credo egli sappia bene che la Santa Alleanza passa per essere il momento più importante della restaurazione del potere assoluto. E credo, anche, che sappia come il Cnl sia stato il governo della società italiana uscita dalla Resistenza al fascismo e al nazismo. Temo che egli sia assolutamente cosciente del senso delle sue parole e che voglia da un lato, con la Santa Alleanza, restaurare il potere suo e di quanti considera suoi pari, e dall'altro, con un Comitato di liberazione nazionale, guidare una guerra contro il nemico. Martedì fa ho citato il preoccupante accostamento, fatto da un giornalista del gruppo editoriale La Repubblica-L'Espresso, fra l'aggressione a Berlusconi e l'incendio del Reichstad che, com'è noto, aprì la strada al nazismo. Un ottimo terreno, questo del pericolo nazista, per innescare una guerra di liberazione.
Siamo, si comprende, ad una pericolosa e lucida follia politica. Questa sì da contrastare con una alleanza fra le forze politiche democratiche che, al di là dei contrasti legittimi, contrastino la deriva dipietrista, violenta al momento solo a parole, ma non si sa fino a quando. E' bene che chi crede alla democrazia non sottovaluti questo pericolo.

martedì 15 dicembre 2009

Altro che abbassare i toni, c'è chi evoca il Reichstad e il nazismo

L'appello del presidente della Repubblica a tutti i cittadini, “e quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia”, è parola che dovrebbe essere accolta per arrestare la violenza e per radicare la pacifica convivenza. Dovrebbe, ma non lo è. Non lo è da chi continua a pensare a scorciatoie per rovesciare la decisione degli elettori. C'è, in quel campo, chi va diritto allo stomaco degli eversori e c'è chi, invece, mette a disposizione della “causa” la propria capacità di usare le parole con abilità dialettica e richiami più o meno colti.
A questa categoria appartiene l'ex redattore di La Repubblica ed ex direttore di L'Unità Mino Fuccillo che oggi pubblica su La Nuova Sardegna un editoriale di apparente condanna dell'aggressione a Berlusconi. Fuccilo evoca, a proposito del ferimento del premier “un «Piccolo Reichstag», il primo anello della spirale”. A chi non ricorda o non sa che cosa sia stato “il Reichstag”, questa frase dice ben poco. Chi ricorda o sa, proverà, come ho provato io, la sensazione di trovarsi di fronte ad una delle infamie più gravi sentite in queste ore.
L'incendio che il 27 febbraio 1933 distrusse il Parlamento tedesco, il Reichstag appunto, è considerato da tutti gli storici l'evento cruciale per la vittoria del nazismo. Gran parte degli storici pensa che a bruciarlo fu un mezzo matto (poi decapitato) su ordine dei nazisti che invano dettero poi la colpa ai comunisti di Dimitrov. Certo, Fuccillo non si spinge ad affermare esplicitamente che complici dello psicolabile aggressore di Berlusconi sono stati uomini vicini al premier. Ma tartufescamente lo suggerisce alle élites colte del suo schieramento, che sanno dell'incendio del Reichstad e che sono state abbondantemente indottrinate, in quindici anni, sulla volontà di Berlusconi di instaurare un regime autoritario.
Del resto, tutto l'editoriale sulla Nuova da questa sciocchezza parte. Berlusconi “già prima del sangue era convinto e tentato da una «democrazia autoritaria» forgiata nel suo nome. E che ora potrebbe trovare un altro segno di «legittimità», appunto il suo sangue”. C'è solo da sperare – è il succo del vaneggiamento – che il presidente del Consiglio non approfitti dell'aggressione per completare il suo disegno.
Manca, ma temo sia implicita, la chiamata alle armi per rovesciare il tiranno fascista. La libertà di stampa è un bene assoluto in una democrazia come la nostra. Ne sono convintissimo, senza se e senza ma, come oggi si dice. Quel che non capisco è che differenza ci sia, a parte l'eleganza della scrittura, tra articoli siffatti e le migliaia di post che in Facebook vorrebbero “santo subito” l'aggressore di Berlusconi e morto l'aggredito.

lunedì 14 dicembre 2009

Parta dalla Sardegna un contagio di civiltà

“È stata oltrepassata una soglia” è il commento quasi unanime di fronte all'aggressione a Berlusconi. Quasi unanime e non solo per l'ovvia reazione di Di Pietro, pronto a passare dalle forche metaforiche a quelle fisicamente erette (a proposito, amico Palomba, come fai a stare insieme a simili persone?).
Penso piuttosto al clima fetido che ha avvolto nell'odio decine di migliaia di persone che in Facebook e nelle lettere ai giornali esprimono complice solidarietà all'aggressore, un povero psicolabile eletto maitre à penser. E penso anche al quotidiano-partito che ha fomentato l'odio politico e personale contro Berlusconi: accanto a poche parole di presa di distanza dall'aggressione, La Repubblica dà evidenza oggi ad un ennesimo gossip inglese riguardante il presidente del Consiglio, quasi a segnalare che Berlusconi, insomma, l'astio se lo sia carcato. Che vergogna.
Questo odio chiama odio in senso contrario in altri commenti di chi sostiene il premier e tutte insieme questi pronunciamenti dipingono a tinte fosche il futuro della coesistenza pacifica in Italia, tanto che a me sembra non destituito di fondamento l'allarme lanciato dagli osservatori più attenti: siamo vicini ad una guerra civile. Quando si leggono gli inviti di Di Pietro alla piazza perché si rovesci il governo, quando si legge del comunista Paolo Ferrero che, dopo una riunione a Cagliari con altri comunisti e con i Rosso mori, dice di Berlusconi: “Non può che essere definito fascista”, allora ci si rende conto perché una persona fragile di mente possa ferire il “mostro”.
Nei giorni scorsi, il presidente Cappellacci e il leader Pd Silvio Lai hanno preso a dialogare, segno che il bene comune della Sardegna ha, almeno nelle intenzioni, la meglio, dopo i continui tentativi della sinistra di deligittimare chi è stato eletto dal popolo sardo. E già si sono sentiti aleggiare le prime prese di distanza perché non del dialogo fra maggioranza e opposizione la Sardegna avrebbe bisogno. Certo, non basta una sana dialettica fra opposizione e maggioranza, è necessario il dialogo fra la politica e le forze sociali, imprenditoriali, culturali. Ma è preliminare a tutto disinquinare i pozzi avvelenati.
Non voglio farmi illusioni, ma se per una volta nella nostra storia autonomista fosse la Sardegna a contagiare beneficamente la politica in tutta Italia, si attuerebbe il sogno di normalità, caldeggiata dalle forze politiche e culturali più avvertite. E si aprirebbe la strada per la emarginazione e la sconfitta di chi sogna invece lo scontro fisico, nell'illusione che la violenza abbia la meglio sulla democrazia, sistema nel quale sono gli elettori a decidere chi governa e chi no fino alle elezioni successive. Un sistema, anche, in cui è il Parlamento a fare le leggi che tutti, magistrati compresi, devono osservare. Anche se incidono sui propri privilegi e sui propri furori ideologici.

mercoledì 9 dicembre 2009

Niente di nuovo sul nucleare, salvo un allarmismo interessato

Non c'è niente di nuovo sul fronte del nucleare in Sardegna. C'è una cartina del Cnen del 1979 in cui si piazzavano le aree idonee ad ospitare centrali nucleari; una dichiarazione dell'amministratore delegato dell'Enel in cui si afferma che l'Enel ha individuato i siti in cui questa azienda li costruirebbe; il fatto che il governo deciderà a febbraio quali saranno i siti. A tutto questo, ampiamente conosciuto, si aggiungono le solite indignazioni perché il governo, il quale ha detto che la scelta sarà fatta entro il 15 febbraio, tiene “ancora top secret” il suo dossier.
Di ieri due notizie: la prima è che il Veneto vorrebbe ospitare la prima centrale, la seconda consiste nell'allarme del presidente dei Verdi, Benelli, che avrebbe saputo come nell'elenco dell'Enel ci sono otto siti, fra i quali Oristano. Tralascio la considerazione, che dovrebbe essere scontata, secondo la quale, come non decise il Cnen 30 anni fa così oggi non decide l'Enel cui spettano compiti diversi da quello di decidere dove fare le centrali. Sembrano dettagli, soprattutto a chi pensa a quanto ci potrà guadagnare dalla propaganda, ma dettagli non sono.
Non c'è solo il fatto che sarà il governo a decidere quel che è sua competenza decidere, ma anche quello, sostanziale, che in Sardegna c'è una decisa ed unanime contrarietà. C'è un impegno del governo regionale ad opporsi alla istallazione di una o più centrali nucleari e c'è in atto un notevole movimento che, spogliato di ideologismi e di tentazioni sempre e comunque antigovernative, è una garanzia del fatto che l'unità è possibile e, anzi, decisiva. Io rispetto, e l'ho diverse volte detto, la decisione autonoma delle regioni, come il Veneto, di ospitare una centrale nucleare e mi auguro sarà rispettata la decisione della Sardegna di non farlo.
Per quanto mi riguarda, sarò al fianco della Regione e dei sardi che non vogliono la centrale nucleare nell'Isola. Non sarò affatto con i fondamentalismi di chi già dichiara di non volere il nucleare ovunque nel territorio della Repubblica. Come tutti i dogmatismi anche questo è infantile, ingiustificato, antiscientifico e, soprattutto, profondamente offensivo delle autonomie regionali.
Salvo scoprire, un giorno, che l'allarmismo, come già è successo in Sardegna, si crei a tavolino per poi ascriversi la vittoria contro un disegno che mai c'è stato.

martedì 8 dicembre 2009

Vigiliamo per la Sassari-Olbia, ma Dio ci liberi dagli agit-prop

L'unità di intenti e di mobilitazione per la Olbia-Sassari sta per raggiungere il suo obiettivo, se venerdì prossimo il Cipe darà il suo via libera come ha assicurato il presidente del Consiglio. È un risultato importante che, al di là dell'importantissimo obiettivo, dà un segnale di che cosa possa l'unione dei cittadini e dei loro rappresentanti a tutti i livelli e senza distinzione di colore politico. Forse c'è anche l'annuncio che i sardi stanno imparando la lezione che viene loro dai fratelli siciliani i quali, di fronte alle grandi questioni, smettono di fare come i capponi di Renzo. Una lezione, per varcare i confini dello Stato, viene anche da altre nazionalità europee.
È anche giusto, come affermano di voler fare i protagonisti della mobilitazione di queste ultime settimane, non abbassare la guardia. La promessa di Berlusconi non è fatta a cuor leggero, ma il Cipe, come dice la sigla, è un comitato interministeriale, composto, cioè, di tanti ministri. Li ricordo a chi già lo sa e ne informo chi non lo sa: il Ministro dell'economia e delle finanze; quello degli affari esteri e quelli dello sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti, del lavoro, salute e politiche sociali, per le politiche agricole e forestali, dell'ambiente e tutela del territorio e del mare, per i beni e attività culturali, dell'istruzione, università e ricerca, per le politiche europee, per i rapporti con le Regioni, per il Turismo. Insieme a loro ne fa parte anche il Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e Province Autonome, l'emiliano Vasco Errani.
Chi fa politica e non propaganda, sa che ognuno di questi componenti potrebbe avvertire gli altri che, strada facendo, si sono aperte altre urgenze e battersi perché siano queste ad essere risolte prioritariamente. È già successo nel passato e questo rende indispensabile che i sardi non si distraggano e continuino a vigilare fino al momento in cui la Sassari-Olbia non abbia avuto il via libera.
Che ci sia, nell'opposizione, qualcuno tentato di remare contro per evitare che l'azione del governo tagli l'erba sotto gli agit-prop, è cosa purtroppo normale: fa parte di una certa concezione della politica lontana dall'imperativo del bene comune. Ci sono, così, ancora oggi che c'è l'impegno di Berlusconi, personaggi che giocano al rilancio e altri che non nascondono il timore che, davvero, venerdì il Cipe approvi questa benedetta delibera.
Mi è capitato di leggere questo, oggi, su un quotidiano che si fa portavoce dell'opposizione: “ Come nei migliori giochi di prestigio, con un colpo di scena i soldi riappaiono. La Sassari-Olbia si farà subito. I fondi arriveranno nella prossima riunione del Cipe. La nuova promessa arriva da Silvio Berlusconi, l’uomo che li aveva portati via. Il premier sabota la madre di tutte le battaglie, quella per la 4 corsie...”. Si può esprimere meglio di così la rabbia per vedersi portar via un prezioso strumento di propaganda?

lunedì 7 dicembre 2009

I rifiuti pericolosi di una industrializzazione sbagliata

Quando si parla di produzione di rifiuti pericolosi da parte dell'industria sarda, tutti sappiamo che, detta alla grossa, si tratta di numeri importanti. È quando si passa dalla sensazione alle cifre che ci si rende conto di quanto disinvolta sia stata l'industrializzazione nei decenni passati. Soprattutto nelle aree, come il Sulcis, in cui più acuta si è fatta in questi ultimi tempi la crisi. La Sardegna, dice l'Istat, produce 220.969 di tonnellate di rifiuti pericolosi, quelli non pericolosi sono 4.100.000 tonellate. Ogni cento chili di rifiuti prodotti nell'Isola, qualcosa più di 5 chili sono pericolosi.
Sono di per sé numeri rilevanti, che diventano inquietanti se letti così come si ricava dall'Istat. L'istituto di statistica segnala i parametri per fare un raffronto: in tutta Italia il 90 per cento dei rifiuti recuperati è rappresentato da quelli non pericolosi, in Sardegna “la quota di rifiuti speciali non pericolosi scende al 58,7 per cento a fronte del 41,3% di rifiuti pericolosi recuperati soprattutto nella produzione di metalli”. E dove si producono metalli, se non nel Sulcis? È lì, scrive il mio amico Mario Carboni, dove sono state impiantate “le ultime industrie coloniali;” ed è da lì che vorrebbero fuggire lasciando a casa migliaia di lavoratori e senza futuro le loro famiglie, dopo aver inquinato tutto ciò che c'era da inquinare.
Un altro caro amico mi racconta di aver visto su un quotidiano brasiliano molti anni fa una pagina pubblicitaria con la quale il governatore del Mato Grosso invitava le industrie straniere a installarsi in quel poverissimo stato, assicurando loro che non sarebbe stato lì a sottilizzare sull'impatto ambientale delle future fabbriche. È chiaro che ad ispirare il governatore era lo stato di disperazione dei suoi cittadini che avrebbero preferito morire, il più tardi possibile, avvelenati ma, per la vita concessa, a stomaco pieno.
La spaventosa crisi delle miniere che si è abbattuta prevalentemente sul Sulcis (ma anche all'Argentiera, a Gadoni, a Lula), assortita ad un dottrinarismo industrialista che ha confuso le menti della politica e del sindacato in quegli anni, ha comportato un abbassamento di attenzione sia nei confronti dell'industrializzazione proposta sia per quanto riguarda la certezza del rispetto ambientale. Certo, non ci fu la spregiudicata faccia tosta del governatore brasiliano, ma, questa sì, una negazione ostinata degli effetti inquinanti dei fumi d'acciaio, per esempio, e dei fanghi rossi.
Adesso migliaia di lavoratori e con essi le forze politiche, i sindacati, le amministrazioni e le istituzioni regionali fanno quel che è doveroso fare: difendere i posti di lavoro. Qualche partito e qualche sindacalista non riesce ad esimersi dall'utilizzare la disperazione della gente per fini propagandistici (si pensi solo all'allarme creato all'Alcoa, servendosi di una informazione falsa), ma queste sono le piccinerie di chi pensa che l'esibizione muscolare sia meglio del dialogo.
I dati preoccupanti forniti dall'Istat credo dovrebbero convincere tutti che da questo modello di sviluppo (che sviluppo non è, ma faticosa difesa dell'esistente) bisogna quanto prima passare ad un nuovo ed altro modello. Battersi con la massima unità possibile per salvare i posti di lavoro è un imperativo per tutti, ma la stessa unitarietà dovrà da subito essere raggiunta per progettare un modello di civiltà condiviso.

domenica 6 dicembre 2009

Giovanni Pusceddu: come fondare lo sviluppo sulla cultura

Mentre altrove, si pensava come inserire il proprio paese nella catena dello “sviluppo industriale” costasse quel che costasse, il sindaco di Villanovaforru pensava a come rendere la cultura e l'identità motore di un altro tipo di sviluppo economico. Ieri Giovanni Pusceddu se ne è andato, una trentina di anni dopo che il suo paese, destinato allo spopolamento, al degrado e a un lenta agonia, ha ripreso a vivere e a svilupparsi, grazie a un complesso nuragico di straordinaria bellezza.
Chi ha conosciuto Villanovaforru agli inizi degli anni Settanta, prima che il grande nuraghe di Genna Mara fosse stato scavato, stenta a riconoscerlo oggi, con il suo Museo, i suoi ristoranti, l'albergo, i B&B. E con attività, come il laboratorio di restauro, che allora, quando il paese perdeva censimento dopo censimento un centinaio di abitanti non erano pensabili. Quel che pareva una inarrestabile emorragia si è bloccata e da vent'anni il numero degli abitanti è stabile. Migliaia di visitatori del nuraghe e del Museo (e degli altri beni culturali del paese) portano ora ricchezza e occasioni di lavoro.
Questa intuizione di Giovanni Pusceddu e soprattutto i risultati dati dagli investimenti su cultura e identità hanno lentamente contagiato un'altra ventina di paesi, consorziati nell'altra sua creatura: Sa corona arrubina”. I risultati di questa volontà di puntare sulla cultura per innescare crescita economica stanno, per esempio, nei 150 mila visitatori della mostra sui dinosauri, e poi quelli che hanno visitato le mostre successive: sui pittori spagnoli, Leonardo, gli egiziani, i precolombiani, gli etruschi, i mammut.
Ecco un esempio di quanto da tempo vado sostenendo su questo blog: abbiamo bisogno di un modello di sviluppo diverso da quello fino ad oggi conosciuto nella nostra Isola. Certo sarebbe puerile cercare di copiare l'esempio di Villanovaforru e, che so?, ripetere questo schema ovunque esistano emergenze archeologiche. L'esempio di Pusceddu va colto nel suo significato più profondo: la Sardegna è terra di mille occasioni di sviluppo economico fondato sulla sua peculiarità. Sta alla nostra intelligenza farle emergere ed utilizzare sia nel campo del turismo culturale sia in quello della organizzazione dell'industria intorno alle nostre risorse, particolarmente quelle agroalimentari.
La grande crisi che ha colto in pieno l'industrializzazione della Sardegna, con la miriade di drammi individuali che vanno trasformandosi in dramma collettivo, non ci consente di pensare che i governi sardo e dello Stato, e insieme ad essi l'Europa, possano da un momento all'altro tirar fuori una bacchetta magica. Sta ad essi impedire la desertificazione industriale della Sardegna, con la riconversione e, soprattutto, con la salvezza dei posti di lavoro esistenti. A tutti noi, nel massimo di unità possibile, batterci perché ciò avvenga, ma contemporaneamente spetta mettere in moto tutte le nostre intelligenze per fare in modo che lo sviluppo futuro sia autocentrato, fundato cioè sulle nostre risorse ambientali, culturali, linguistiche e umane.

Nella foto: il complesso di Genna Mara

venerdì 4 dicembre 2009

I precari stabilizzati? Certo, ma non per fedeltà di partito

È legittimo che il governo dello Stato impugni leggi regionali che a suo parere travalichino le competenze attribuite dagli statuti e dalla Costituzione. Lo prevede proprio quest'ultima. Ciò non toglie che provo profondo dispiacere quando questo capita perché, di qualsiasi colore sia il governo, così prevale una cultura accentratrice, poco consona con il processo in atto di creazione di una repubblica federale. È il rammarico che ho provato davanti alla decisione di impugnare la legge del Consiglio regionale sulla stabilizzazione dei precari.
Pur contando che la Consulta dia ragione al Consiglio regionale, se e quando l'impugnazione governativa arrivi, credo sia opportuno che gli enti locali, e fra questi la Provincia di Cagliari, si servano di questa decisione del Governo per riflettere su due aspetti della questione.
Il primo è che è necessario utilizzare al meglio le competenze di alta qualità che esistono e che oggi, se penso alla Provincia di Cagliari, sono mortificate per la non nascosta urgenza di utilizzare la questione dei precari per fini elettorali.
Il secondo aspetto è che la selezione dei precari da stabilizzare deve abbandonare il costume clientelare che ha largamente caratterizzato i primi passi fatti da molti enti locali e imboccare la strada della scelta sulla base del merito e delle capacità. Sono caratteristiche, queste, che, anche nella Provincia di Cagliari , sono presenti nella generalità dei candidati alla stabilizzazione e non solo nei prescelti per merito di partito.

mercoledì 2 dicembre 2009

Un "fuori onda" inquietante: il caso e il disegno

La pubblicazione di frasi dette quando si pensa che i microfoni siano spenti suona – dice oggi un commentatore – un furto di buonafede. Sto parlando, si sarà capito, dell'ultimo “scandalo mediatico” che ha avuto come protagonisti il presidente della Camera Gianfranco Fini e il procuratore Nicola Trifuoggi, conosciuto ai più perché 25 anni fa tentò di bloccare le trasmissioni di Fininvest.
La vicenda può essere letta in diverse maniere: come “furto della buona fede” e quindi prendersela con la stampa che, invece, secondo me ha fatto il suo lavoro; come un normale ribadire da parte di Fini della persino banale considerazione che il governo deve rispetto agli altri poteri dello Stato; come presa di distanza da parte di Fini dal partito che ha contribuito a fondare; ed altro ancora. Tutte cose, comunque, che riguardano i rapporti politici fra il presidente della Camera, il governo, la maggioranza che lo ha eletto a quell'alta carica e il presidente del Consiglio.
Non sono cero indifferente a questo ingarbugliarsi della situazione e, per mio stile di vita, provo sconcerto per le frasi di Fini contro Berlusconi, così come per quelle pronunciate dal procuratore della Repubblica: Berlusconi "è nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l'imperatore romano". Sta parlando, sia pure “fuori onda”, del presidente del Consiglio scelto dalla maggioranza degli elettori con il presidente della Camera, senza che questi almeno prenda le distanze da un giudizio offensivo di un uomo e dimostrazione di quanto poco ci si curi del rispetto per altri poteri dello Stato.
Ma non è questo, o non è solo questo, che mi sconcerta. Fin qui si sta in uno scambio di opinioni, per inappropriate che siano dati i ruoli dei protagonisti, fra due che non sanno di essere registrati. Quel che sconcerta è lo scambio di informazioni giudiziarie su una torbida vicenda che vede al suo centro un pentito e le sue “rivelazioni” che dovrebbero essere coperte dal segreto. Nella trascrizione del video che da ieri circola in Internet, si legge, detto da Fini: “Il riscontro delle dichiarazioni di Spatuzza ... speriamo che lo facciano con uno scrupolo tale da... perché è una bomba atomica". Va ancora più in là il presidente della Camera: "Si perché non sarebbe solo un errore giudiziario, è una tale bomba che... lei lo saprà .. Spatuzza parla apertamente di Mancino, che è stato ministro degli Interni, e di ... (Berlusconi?)... uno è vice presidente del CSM e l'altro è il Presidente del Consiglio...". Il procuratore conferma quanto sa, non è dato sapere perché, Fini: "Pare che basti, no?".
Certo, è importante che Fini abbia richiamato la necessità che le dichiarazioni del pentito siano controllate con “scrupolo”. Ed è importante che questo scrupolo sia stato assicurato dal procuratore suo interlocutore. Così, immagino, sarà fatto sino a concludere, come lo stesso Fini si è premurato di dire telefondando a una rete televisiva, che “Berlusconi non c'entra con la mafia”. Ma un conto saranno le risultanze delle indagini, altro conto è il bailame politico che si è sollevato. Sarà un caso che ad autorizzare la diffusione del video sia stato il presidente del “Premio Paolo Borsellino” e a farsi carico di diffonderlo per prima sia stata La Repubblica?

martedì 1 dicembre 2009

Assemblea del popolo sardo: un buon inizio anche se...

Forse c'è stato un surplus di enfasi nel definire “Assemblea del popolo sardo” quella che si è svolta ieri a Cagliari. Ma l'iniziativa di tre dei sindacati sardi, Cgil, Cisl e Uil, costituisce una svolta importante per l'aver saputo legare strettamente i temi del lavoro e dello sviluppo economico a quelli della riforma istituzionale più rilevante: quella dello Statuto speciale. E di questa svolta si deve dare atto ai tre sindacati.
Di fronte a ciò, diventa piccola cosa la contestazione scatenata da un gruppetto per l'assenza del presidente della Regione a letto con l'influenza, fischi che, invece, stando al titolo in prima pagina su un quotidiano, sarebbero l'avvenimento principale. Misteri del giornalismo militante. La coscienza che chiave di volta del possibile sviluppo sia la riscrittura dello Statuto, scontata per me, non lo è per tutti. Sia all'interno dei partiti sia all'interno delle forze sociali sia dentro il mondo della cultura sarda, assente non so se perché non invitato o se perché da troppo tempo si è estraniato dal dibattito sullo Statuto e da quello sui temi dell'identità.
Sintomo di questa assenza è, a ben vedere, lo scarso rilievo che i media hanno dato ai contenuti dell'assemblea, preferendo sottolineare i momenti di frizione (i fischi a Cappellacci e la protesta della presidente del Consiglio perché il parlamento sardo non è stato coinvolto) a quelli della unitarietà dei propositi riformatori. È come se, nei media ma anche altrove, non si comprenda a pieno la presa di distanza dei sindacati dall'economicismo quale unico contenitore dei processi sociali.
Fatto sta che la “Assemblea del popolo sardo” è stato un momento alto di proposizione di un cammino istituzionale, economico e sociale. Non solo, ma anche di rivendicazione del ruolo che il popolo sardo deve avere nella riscrittura della nostra carta fondamentale. Una riscrittura, si è sentito spesso dire, e non una semplice perifrasi dello Statuto esistente, fatta con qualche aggiustatina qua e là. Le fondamenta per un dibattito che coinvolga il popolo sardo e il suo Parlamento, a cui spetta l'ultima parola, sono state poste. A proposito del nostro Parlamento capisco e condivido le preoccupazioni espresse dalla presidente Lombardo: è stato un grave errore escludere dall'assemblea la massima istituzione della Sardegna anche per la considerazione che ad essa spetterà approvare lo Statuto.
Tutti abbiamo la consapevolezza che questo dibattito non sarà facile né piano: troppi conservatorismi politici, sindacali, culturali si sono messi e si metteranno di traverso. C'è un giacobinismo politico che permea la politica, ma ce ne è anche sindacale, accademico, imprenditoriale, culturale di quanti temono che uno Statuto davvero speciale comporti l'abbattimento di inutili sacche di centralismo. Non si può essere autonomi dallo Stato se poi ad una sua concezione centralista si voglia far ricorso per conservare privilegi e stereotipi organizzativi.
Il tempo ci dirà quanto si vorrà davvero per un nuovo Statuto. Quanto nel dibattito che si vuole aprire nel e con il popolo sardo, prevarranno la voglia di novità o il sicuro riparo della conservazione o anche il gattopardismo. Il problema è che non abbiamo moltissimo tempo e che rischiamo di dover subire uno Statuto concesso dallo Stato anziché conquistarcene uno a nostra misura.