giovedì 26 novembre 2009

Lo Statuto una perdita di tempo? Ma quando mai

In un suo editoriale su L'Unione sarda di oggi, il professor Beniamino Moro svolge un ragionamento sul futuro dell'autonomia sarda assai difficilmente condivisibile anche da chi, come me, ho dell'amico Moro un'altissima considerazione e stima. Tre sono i cardini del suo articolo.
1.Una corrente del pensiero politico ritiene che le ragioni dell'autonomia speciale “accordata” siano venute meno. Anche la Sardegna non è riuscita a approfittare della specialità per promuovere lo sviluppo economico, ma ha utilizzato le risorse pubbliche “per sostenere le clientele politiche e per acquisire il consenso elettorale”. Moro, per la verità, ritiene “discutibile” questa tesi.
2.Il “federalismo fiscale” è il quadro entro cui, necessariamente, deve muoversi ogni progetto di riforma dello Statuto che non potrà credibilmente prevedere competenze diverse da quelle previste nella legge costituzionale sul “federalismo fiscale”.
3.Piuttosto che “distorcere l'attenzione” con il discutere di specialità e di strumenti (la Costituente) per rafforzarla, è meglio puntare al “vero obiettivo” che è lo sviluppo economico regionale.
Augurandomi di aver riassunto correttamente il pensiero dell'amico Moro, devo dichiarare il mio stupore per il fatto che un così insigne intellettuale sardo possa dar credito, sia pure critico, a ipotesi di revoca della specialità sarda. L'utilizzo delle risorse pubbliche per clientelismo e per cattura del consenso è un male endemico nella vita politica della Repubblica. Tanto che oggi il governo si trova a dover combattere contro un debito pubblico tanto grande da rendere difficile reperire risorse per lo sviluppo. Eppure ai critici della specialità verrebbe mai in mente di proporre la revoca della sovranità dello Stato.
A quelle suggestioni di cancellazione della specialità si arriva per via di una profonda incomprensione delle sue ragioni. La Sardegna, ma lo status è simile per le altre regioni speciali, è peculiare non tanto per motivi economici e geografici (l'insularità) quanto per ragioni culturali, storiche, linguistiche che ne fanno una Nazione distinta da quella italiana, entrambe parte della Repubblica. Questa sua condizione permarrebbe non solo nel caso in cui le classi dirigenti fossero esecrabili, ma anche in quello in cui la Sardegna diventasse prospera, sviluppata e ricchissima.
Lo sviluppo economico della nostra Terra e uno Statuto di reale autogoverno sono strettamente legati e interdipendenti. Più competenze e poteri avrà la Regione più avanzato sarà lo sviluppo della Sardegna e, come dimostra per esempio l'esperienza catalana, più accentuato sarà lo sviluppo maggiori dovranno essere i poteri per rendere più governabile lo sviluppo stesso. Noi sardi, ma non solo noi dentro la Repubblica italiana, paghiamo lo scotto di essere sotto la cappa opprimente di quell'economicismo che pervade anche culture politiche che dovrebbero portarcene fuori. Il più rapidamente possibile.
Ma, dice il professor Moro, tutto deve accadere sotto l'egida della legge sul “federalismo fiscale”. Chi lo ha detto? Forse che la legge 42 ha abrogato la previsione costituzionale secondo cui la Sardegna e le altre regioni speciali “dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”? Il “federalismo fiscale” è solo un primo passo per il federalismo tout court e con un nuovo Statuto speciale, la Sardegna è in grado di accompanare la realizzazione di un progetto che in Sardegna, ma non solo, ha profonde radici politiche e culturali. Io ho fatto mia la proposta del Comitato per lo Statuto e ho depositato da tempo in Senato un ddl a proposito.
Sia la proposta del Comitato sia il mio disegno di legge sono, come tutte le cose umane, discutibili e migliorabili. Ma ci sono, sono documenti che sono in grado di far uscire la discussione dalla nebulosa delle cose evanescenti. Perché non discuterne?

mercoledì 25 novembre 2009

Ma Stato e Regione non possono fare da salarifici

Con sfiducia nei partiti che la politica non riesce a rovesciare almeno in apertura di credito, sulla mia pagina in Facebook un amico mi ricorda crisi occupazionali dimenticate (la Valriso) dai più e nella mente di chi, come lui, ne paga ancora le conseguenze. Questa dannazione della memoria è la logica conseguenza di una azione politica costretta a star dietro alle ultime emergenze e, per molti motivi, poco incline ad avere in mente disegni strategici di nuovi modelli di sviluppo. L'attuale governo regionale, con il suo Piano regionale di sviluppo, inverte questa tendenza alla rincorsa dell'emergenza, ma certo non basta a produrre di per sé un cambio di mentalità.
Troppo deboli sono, ancora, i segnali che la politica, le forze sociali e la cultura autonomista danno di aver compreso la necessità di utilizzare la crisi industriale attuale e futura per affontare il nucleo del problema. Per prendere atto che il modello industriale esistente è in agonia, ci vuole un coraggio che solo pochi hanno, pochi e guardati con sospetto. La tentazione è quella di pensare che dall'agonia si potrà uscire con una ripresa di vita e che i drammi di migliaia di persone potranno essere risolti o con operazioni dirigistiche o con la messa a busta paga statale/regionale di chi rischia la disoccupazione.
Gli aiuti di Stato sono vietati dall'Unione europea, la politica può regolare il mercato ma non abolirne le leggi (lo si chieda ai cittadini ex sovietici o a quelli cinesi che cosa ne pensano dello statalismo in economia); non resta se non trovare meccanismi che accompagnino, senza eutanasia, l'agonia di questo sbagliato sistema industriale che in Sardegna provoca emergenze su emergenze. E che impegna enormi risorse, distraendole da impieghi capaci di creare prosperità per il milione e seicento mila sardi. Come rintracciare i meccanismi economici, politici e culturali capaci di far uscire la Sardegna dalla “cultura dell'emergenza” io non lo so, e del resto un disegno del genere può essere il frutto solo di un grande e partecipato dibattito a cui anche io potrò partecipare con le mie proposte.
La “cultura dell'emergenza” provoca irragionevoli e a volte paradossali conseguenze che, se pur fondate su ragioni di disperazione, non smettono di essere tali. Si leggono qua e là esempi di tale irragionevolezza. Da quello del sindacalista che, contrario ai parchi eolici, li vorrebbe solo se utili ad alimentare un'industria energivora come quella di Portovesme a quello del sindaco di Orgosolo che appoggia l'occupazione del suo comune da parte di 20 membri di una cooperativa senza lavoro. Detta così, sembrerebbe persino giusto e opportuno. Il fatto è che cooperatori e sindaco protestano perché la Regione non avrebbe previsto in Finanziaria quel che resta del magnieloquente “Progetto Supramonte”, voluto dal governo Soru come grande disegno economico per i paesi dei supramonti, e ridotto a cantiere forestale per accompagnare alla pensione una ventina di soci della cooperativa voluta negli anni Settanta dal Pci.
Io non so se, in realtà, la Finanziaria regionale abbia revocato il provvedimento di Soru, fra l'altro molto controverso all'interno della comunità. Ma questa protesta strumentale la dice lunga sul desiderio di una certa cultura politica di trasformare la Regione in un salarificio. Superfluo dire, credo, che i venti cooperatori di Orgosolo hanno tutta la mia solidarietà, come l'hanno, del resto, i lavoratori dell'Alcoa, quelli di Ottana e di tutte le altre aree di crisi. E come l'hanno anche i giovani intellettuali, impiegati negli uffici comunali della lingua sarda, a rischio di disoccupazione senza che a loro favore si levino i sindacati, i sindaci e, purtroppo, la politica. Rischiano di essere dei disoccupati figlio di un dio minore, non coperti dalla “cultura dell'emergenza”.

Nella foto: il Supramonte di Orgosolo

martedì 24 novembre 2009

Disastro industriale e cinismo politico

Il dramma vissuto da migliaia di lavoratori sardi dà la stura non solo ai comportamenti virtuosi di chi cerca di trovare soluzioni difficilissime (inutile pensare a ricette a portata di mano) ma anche ad atteggiamenti assolutamente cinici. Questi ultimi mirano a mettere in difficoltà i governi di Roma e di Cagliari giocando sull'esasperazione di chi vede incombere perdita di lavoro e un futuro più che incerto.
Non tutti sono come quel tal ex parlamentare comunista che propone soluzioni sovietiche (sia lo Stato a comprarsi l'Alcoa), ma in troppi sperano che a Roma e Cagliari non si riesca a trovare vie d'uscita dalla crisi. Sarebbe, per loro, una carta da giocare nell'opposizione ai governi Barlusconi e Cappellacci. E siccome la speranza va assistita e aiutata ad avverarsi, eccoli soffiare sulle braci già incandescenti. C'è chi cerca solo visibilità personale e chi, invece, programma di “sollevare il livello dello scontro”, immaginando spallate per far cadere i due governi.
È una situazione molto pesante, in cui la normale aspra dialettica fra opposizione e maggioranza, invece di ricomporsi in vista di un bene comune (la salvezza delle aziende e dei lavoratori), decide di trasformarsi in scontro frontale: e pazienza se a farne le spese saranno i lavoratori e le loro famiglie. Tutti sanno che la questione del prezzo dell'energia per l'Alcoa non è di quelle che possono essere risolte a Roma o a Cagliari, che l'Unione europea è rigida in materia di “aiuti di stato” e che la riduzione dei costi per le fabbriche energivore è problema che incide su meccanismi di mercato i quali possono essere regolati, ma non sconvolti: non lo si fa neppure in Cina.
A questo si aggiunge, sempre per Alcoa, il fatto che sulla soluzione trovata a Roma si è abbattuto il diverso pensiero della casa madre statunitense. Lo si sa, ma si fa finta che questi problemi possano essere risolti con un solo atto di volontà del governo italiano, quasi che una formula magica potesse interrompere in Italia la mondializzazione dei processi economici.
Solo un grande moto del popolo sardo, unito su obiettivi immediati e altri di prospettiva, potrebbe raggiungere risultati importanti. Ha ragione il responsabile della Cgil di Sassari, Rudas, quando, evocando questo moto popolare unitario, ha sottolineato la necessità di superare “le anacronistiche divisioni sindacali e partitiche. Abbiamo bisogno di uno scatto di orgoglio alto, di un vero e proprio moto popolare. È arrivato il momento, ancora una volta, di fare i conti con la nostra storia”. Questa è una prospettiva molto seria e meditata. Io ci sto.

venerdì 20 novembre 2009

D'Alema vittima dei suoi

L'Europa – è commento condiviso sui quotidiani italiani – ha scelto “un basso profilo” nel darsi un commissario permanente e un ministro degli esteri. A parte un sentore non proprio gradevole di provincialismo (fra l'italiano D'Alema e la inglese signora Nessuno, si è scelta questa), è pur vero che si è teso a non scegliere personalità di alta caratura per la difficoltà di trovarrne una condivisa. È già successo nella storia e non solo nella politica, salvo poi rendersi conto che persone appartentemente oscure e sconosciute avevano in serbo grandi capacità. Non darei, perciò, per scontato che Herman Van Rompuy e Catherine Ashton si rivelino, nel futuro, di “basso profilo”.
Quel che sconcerta, pur comprendendo che la nomina dei due abbia dovuto rispondere ad equilibri politici internazionali, è che ad affondare Massimo D'Alema siano stati i suoi compagni di schieramento e che lo abbiano fatto anche con motivazioni allucinanti. “D'Alema” ha detto Martin Schulz, capo gruppo dei socialisti europei “è un eccellente candidato, ma ha un problema, è il candidato di un governo non socialista”. Se questa è la visione che a sinistra si ha dell'Unione europea, c'è ben poco da sperare: pur di offendere il governo italiano non si bada a spese, neppure a bocciare un uomo del proprio schieramento.
Il Pd e la sua stampa hanno diffuso in Europa un'immagine disastrosa del governo Berlusconi e soprattutto del presidente del Consiglio, un'immagine fondata su gossip, su pettegolezzi ininfluenti, su pregiudizi tratti dagli atti di accanimento giudiziario di magistrati politicizzati e su altro ciarpame diffuso a piene mani. È persino comprensibile, anche se non giustificabile in politici europei che dovrebbero ragionare con la testa e non con i visceri, che questa campagna antiberlusconiana abbia prodotto effetti come quello di ieri. Verrebbe da dire che chi è causa del proprio male...
Ma non c'è di che gioire: anche per responsabilità dei suoi compagni di partito italiani, D'Alema non sarà ministro degli esteri europeo e l'Europa non si avvarrà dell'esperienza di un uomo cui tutti, me compreso, riconoscono competenza non comune.

giovedì 19 novembre 2009

Qualcosa sullo Statuto, eppur si muove

Lentamente qualcosa si muove intorno alla adozione di un nuovo Statuto di autonomia e anche dall'opposizione vengono segnali di disponibilità ad affrontare la questione con “un approccio non strumentale o giocato sulle divisioni della maggioranza” come avverte oggi l'ex presidente del Consiglio regionale, Giacomo Spissu. Meglio sarebbe, naturalmente, che questo atteggiamento non strumentale si manifestasse con continuità e che, per esempio, ieri, durante la riunione del Parlamento sardo a Nuoro, il Pd non avesse accusato di insensibilità il presidente della Regione. Pur sapendo che Cappellacci non poteva essere contemporaneamente a Nuoro e a Roma dove firmava l'accordo per l'Alcoa, qualcuno si è pesantemente lamentato dell'assenza. Piccinerie. Speriamo bene per il futuro.
Un futuro che è cominciato con fatti concreti e con pubblici impegni della maggioranza. I fatti concreti sono, come più volte ho detto, la elaborazione di un complesso e coraggioso articolato da parte del Comitato per lo Statuto e la presentazione da parte mia di un disegno di legge che sposa la proposta del Comitato. Il ddl, S.1244, presentato il 17 giugno 2009 con il titolo Statuto speciale della Regione Sarda denominato "Carta de logu de Sardigna", è già stato assegnato alla Prima commissione (Affari costituzionali). Questi i fatti.
Parlando al Congresso sardista, il presidente della Regione ha confermato il suo impegno con queste parole: “La riscrittura del nostro Statuto speciale è stata indicata coscientemente nel mio programma agli elettori e a loro ho il dovere di rispondere senza indugio, dopo un lungo lavoro preparatorio operato durante la passata legislatura con discrezione e serietà dalla maggioranza delle forze d'opposizione. Come ho ricordato in altre sedi si è trattato di un lavoro di ridiscussione dell'Autonomia reale, analisi di tutte le proposte di riforma presentate, confronto con analoghe esperienze italiane ed internazionali, portato avanti senza pregiudiziali e durato diversi anni ad opera di un Comitato appositamente formato e seguito direttamente dai capigruppo dell'opposizione. E' stata elaborata una proposta completa ed articolata di sovranità possibile, presentato più volte pubblicamente nelle varie stesure e sino al progetto finale condiviso nelle sue linee portanti e di principio da tutta la coalizione di centrodestra, che credo recepisca le principali aspirazioni sardiste diffuse nella nostra Nazione”. Vale la pena riportare le parole di Cappellacci, anche perché di esse non c'è traccia sui giornali che si sono occupati del Congresso sardista e quindi non sono conosciute.
Segnalo anche un'altra iniziativa, sfuggita all'attenzione dei media: facendo propria una mozione firmata dai consiglieri di centrodestra Mario Floris, Franco Cuccureddu e Massimo Mulas, 25 consiglieri dell'opposizione hanno sollecitato la presidente del Consiglio ad “avviare una sessione straordinaria sulle riforme e sul programma di approvazione del nuovo Statuto di autonomia”.
Qualcuno potrebbe vedere in questo atto dell'opposizione un approccio strumentale che si fonda su presunte “divisioni della maggioranza”, ma l'importante è che anche l'opposizione si muova, mettendo da parte le defatiganti discussioni sugli strumenti per scrivere lo Statuto (la “Consulta” voluta da Soru, per esempio) e affrontando i contenuti della nostra nuova Carta fondamentale.
Come si sa, il Psd'az e i Riformatori sardi vorrebbero che ad occuparsi della riscrittura dello Statuto sia una Assemblea costituente. Ho già scritto su questo blog che la proposta rischia di apparire dilatoria e in grado di mettere in pericolo la possibilità che esso possa essere approvato in questa legislatura. Ma condivido con il Psd'az la necessità che, prima di approdare al Consiglio regionale per l'approvazione, si apra in Sardegna un grande dibattito capace di coinvolgere il popolo sardo nel disegno del proprio futuro. A questo coinvolgimento si può arrivare sì attraverso una Costituente, ma anche indipendentemente da essa con la discussione sulla proposta del Comitato per lo Statuto, sul mio disegno di legge (entrambi esistenti) e su progetti alternativi che, se pure oggi non esistono, possono in breve tempo essere approntati. Dopo alcuni decenni di dibattiti sulla insufficienza dello Statuto vigente, non sarà difficile a chi non condivide le nostre proposte presentare le proprie.

mercoledì 18 novembre 2009

Sig. rettore, non è l'insularità la peculiarità della Sardegna

Il rettore dell'Università di Sassari, professor Attilio Mastino, ha anticipato ai giornali la sua intenzione di scrivere ai parlamentari sardi per sollecitarli a vigilare sul cammino della riforma universitaria proposta dal ministro Gelmini. Leggerò con la massima attenzione quanto il prof. Mastino scriverà, ma già da ora sono convinto che ci troverò importanti stimoli alla mia (e degli altri) attività in Parlamento per evitare il temuto degrado delle università sarde.
Segno di questo degrado è, secondo chi contesta la riforma, il taglio di circa 6 milioni di euro, dipendente anche dallo scivolamento dei due nostri atenei verso gli ultimi posti della classifica italiana. Per quanto mi riguarda, mi impegno a verificare che i criteri usati per stilare la graduatoria siano oggettivi e tengano conto della condizione socio-culturale della nostra Isola. “È bene che i nostri deputati e senatori tutelino i valori dell’insularità” ha detto il professor Mastino ai giornalisti.
Ebbene, a me sembra che “l'insularità” c'entri ben poco con la questione dei criteri usati, vedremo poi concretamente come, per mettere l'Università di Cagliari al 41° posto nei 60 atenei considerati e Sassari al 50 posto. C'entra molto di più il fatto che la Sardegna è sede della più numerosa minoranza linguistica della Repubblica e che le università di questa condizione speciale si siano costantemente dimenticate.
Lo Stato, secondo le cifre fornite dal passato governo regionale, ha, per esempio, erogato ai due atenei 713.100 euro perché li utilizzassero per corsi di formazione insegnanti e funzionari, come prevede la legge 482 che detta norme per la tutela delle lingue delle minoranze, fra cui, appunto, il sardo. Di questi fondi, le due università hanno speso appena il 25% e dovuto restituire il 75 per cento. Dico fra parentesi che questa della restituzione di soldi destinati alla lingua sarda non è una prerogativa delle università: la Provincia di Cagliari che molto ha gridato e poco fatto per la lingua ha dovuto restituire allo Stato quasi 500.000 euro non spesi. Ma di questo sarà il caso di riparlare.
Anche dei soldi ricevuti dalla Regione sarda per la tutela della lingua e della cultura della Sardegna, le università hanno fatto un uso decisamente criticabile. Dei 3.564.000 euro ricevuti fra il 2002 e il 2007, l'Università di Cagliari ha speso appena il 39 per cento, quella di Sassari, che aveva ricevuto la stessa cifra ha utilizzato il 98 per cento dei soldi.
Un'ottima percentuale, si dirà. Molto meno commendevole è l'uso che ne è stato fatto a favore della lingua per la quale è stato impiegato appena il 27 per cento; tutto il resto è andato alle aree disciplinari geografica, antropologica, storica, artistica, giuridica ed ecologico-ambientale. Molto peggio è avvenuto a Cagliari che per l'area linguistica ha speso solo il 10 per cento. Deprimente l'uso dei denari pubblici per l'uso veicolare della lingua, per l'insegnamento in sardo, cioè, delle altre materie. A Cagliari è stato impiegato lo 0,5 per cento degli oltre 3 milioni e mezzo, a Sassari lo 0 per cento.
Anche di qui, penso, la decisione dell'attuale governo sardo di affidare alle università 500.000 euro con la condizione che siano utilizzati per la lingua sarda.
La serie di numeri e di percentuali può apparire noiosa e difficile da seguire. Ma è utile a far capire e a capire due cose credo importanti: la prima è che non è elegante lamentarsi per la diminuzione degli stanziamenti, quando in certi casi o non sono stati utilizzati o sono stati mal utilizzati; la seconda è che le università sarde farebbero meglio a rivendicare la loro specialità e peculiarità non sulla base di ragioni geografiche (la insularità) ma sui motivi culturali e linguistici che dovrebbero fare di loro e della Sardegna davvero una regione speciale.
Detto questo, che mi sembra onesto far conoscere, il grido di allarme che si leva dagli atenei sardi non può non essere raccolto e io lo raccolgo. Con la speranza che gli odierni motivi di apprensione inducano per il futuro a considerare che la peculiarità della Sardegna non è solo di ordine economico e geografico.

PS – Ad oggi, scaduti già i termini per la presentazione degli emendamenti, non è arrivata né alla mia casella in Senato, né al mio indirizzo di casa, né alla mia posta elettronica, né ai telefoni del mio ufficio a Cagliari, né al telefono di casa (pubblicato nell'elenco telefonico, unico dei parlamentari sardi) alcuna lettera di sensibilizzazione al problema sollevato dai rettori delle università sarde. D'altra parte, quale sia l'ordine del giorno dei lavori del Senato è facilmente leggibile nel sito istituzionale di Palazzo Madama. Il rettore Mastino avrebbe agevolmente visto che se voleva inviare la lettera annunciata sui giornali doveva fare molto presto e non pensare che un annuncio sui media costituisca di per sé proposta di emendamenti alla legge che è già in discussione. Non vorrei che da questo annuncio non seguito da fatti, qualcuno traesse la conclusione di insensibilità mia o di altri colleghi a buoni motivi che ancora non conosco se non per una frase sui quotidiani.

martedì 17 novembre 2009

I magistrati facciano il loro dovere, il Parlamento il suo

“La legge è uguale per tutti” è un principio che definisce la qualità di una democrazia come quella in cui viviamo. In quanto tale è inderogabile per tutti, per cittadini, per i loro rappresentanti e anche per i magistrati. Ad essi, come è noto, spetta far rispettare la legge e applicarla, ma non di farne di nuove, compito che spetta al Parlamento, come sa la grande maggioranza di essi che di conseguenza si comporta. Lo sancisce la legge fondamentale della Repubblica, secondo cui i poteri non solo devono essere distinti ma anche rispettati nella loro autonomia. Se è vero, come è vero, che il potere esecutivo e quello legislativo non devono interferire con il potere giudiziario è altrettanto vero che quest'ultimo non deve interferire con i primi due: ciascuno deve svolgere il proprio ruolo in piena autonomia e nel rispetto delle leggi cui sono tenuti tutti, compresi i magistrati.
Mi perdonerete, cari amici, questa introduzione che sa un po' di pedanteria, ma, putroppo, di questi tempi tale principio va ricordato sempre più spesso. Anche, e soprattutto, all'opposizione che è avvolta in un maniacale desiderio di affidare ad una parte della magistratura un compito che la minoranza non riesce a svolgere: vincere la sua battaglia contro Silvio Berlusconi. Io conosco, e per loro nutro profonda stima, molti magistrati che mai e poi mai eserciterebbero la loro insostituibile funzione rispondendo alle proprie preferenze politiche. Ma quando, in Senato, getto lo sguardo ai settori dell'opposizione, non posso fare a meno di considerare che su quei banchi siedono ex magistrati che hanno lasciato il loro posto immediatamente prima di essere eletti al Parlamento.
La politicizzazione di ambienti della magistratura non è un teorema usato per criticarli o per atteggiarsi a vittime: è una realtà palpabile. E sfido qualsiasi cittadino in buona fede ad aver fiducia sulla imparzialità ed equanimità di un pm che prima chiama a processo il presidente del Consiglio e poco dopo si candida a rappresentare in Parlamento la parte politica contraria al premier.
Se si travolge il giusto equilibrio fra i poteri e si lascia ai giudici di cambiare quel che gli elettori hanno deciso, chi assicura gli attuali oppositori che domani, diventando essi maggioranza, non siano sottoposti agli stessi tentativi che oggi si compiono per far cadere l'attuale primo ministro? In uno stravolgimento dell'equilibrio dei poteri e nell'affidamento ad un “partito dei giudici” di competenze diverse da quelle proprio dell'ordine giudiziari,o c'è non solo un pericolo per la democrazia ma anche l'annuncio di un terrificante Stato etico. Uno Stato che, non si faccia illusioni l'attuale opposizione, domani non avrà alcun occhio di riguardo nei confronti di chi oggi si muove per aprirgli le porte. Il paragone è volutamente iperbolico, ma dà il senso delle cose: il ghigliotinatore Roberspierre finì ghigliotinato.
Riflettevo su questi amari aspetti dell'attacco di alcuni Pm al presidente del Consiglio, quando ho letto del pronunciamento di un magistrato milanese, secondo cui l'assemblea della Fao non rappresenterebbe un “legittimo impedimento” a che Berlusconi si presenti ad una udienza processuale: venga la mattina a Milano e nel pomeriggio potrà essere di nuovo a Roma, ha detto il pm. Dove mai, se non in una democrazia insidiata, un magistrato avrebbe osato dire a un capo di governo come organizzare i suoi impegni e i suoi appuntamenti istituzionali? Quando mai un magistrato può dettare un'agenda a un primo ministro?
Il fatto che questo pronunciamento non avrà conseguenze non ne diminuisce la gravità. Negli ultimi quindici anni la quantità di Pm che hanno appuntato la loro attenzione sul cittadino Berlusconi è abnome così come sproporzionato è lo sforzo per incastrarlo con ogni mezzo, con un accanimento che a nessun criminale conclamato è stato riservato. Né, secondo i rumors più o meno attendibili, i tentativi sono finiti, quasi ci fosse un impegno deciso ad ostacolare la fine naturale della legislatura. La legge è uguale per tutti, certo, e personalmente non condivido nella loro interezza tutti gli sforzi che si fanno per mettere al riparo Berlusconi dall'accanimento presente e futuro. C'è in alcuni di questi sforzi il rischio che scelte molto opportune di giustizia sostanziale per tutti i cittadini (penso al cosiddetto processo breve) prevalga l'idea che si tratti di leggi costruite intorno ad una sola persona invece che a tutte le persone di questa Repubblica.
Ma io credo in tutta sincerità che nessun organo dello Stato, al di fuori del Parlamento, nessun altro corpo che non sia quello elettorale possa mettersi in testa di bocciare un Esecutivo nei tempi e nei modi non previsti dalle leggi. Io mi onoro dell'amicizia di Berlusconi, ma il problema aperto dall'accanimento di una parte della magistratura travalica la persona e coinvolge la stessa tenuta del sistema democratico che, due secoli e mezzo dopo la scrittura di Lo spirito delle leggi, è regolato dalla divisione dei poteri indicata da Montesquieu.

lunedì 16 novembre 2009

Parchi eolici e dietrologie. Il problema sta nei poteri della Sardegna

Non mi appassionano le dietrologie e le teorie sui complotti, tanto in voga presso certa cultura mediatica e politica. Ricordate il “complotto” clerico-massone-mattonaro a cui, secondo questa teoria, si dovrebbe il fatto che oltre mezzo milione di sardi ha scelto il centrodestra? Sciocchezze allo stato puro, risibili se non entrassero nelle discussioni di tanta gente in buona fede e disarmata. Figurarsi se posso vedere un “disegno” o un “complotto” filo-nucleare nei ripetuti tentativi di creare parchi eolici in posti in cui non è tollerabile impiantarli: vicino alle coste, in prossimità di emergenze archeologiche, e così via.
La tesi del complotto o del disegno machiavellico, riecheggiata anche in questi giorni da qualcuno, è che da innumerevoli parti si vanno proponendo impianti eolici per sollecitare tondi e irriducibili No, in modo da dare al governo l'alibi di imporre esso delle soluzioni, come il nucleare. In termini di paradosso ho scritto qualche giorno fa che il fronte del No a tutto poteva indurre cittadini esasperati e disperati dalla crisi delle industrie energivore a rivendicare energia a basso costo quale che sia la fonte, anche la nucleare. Un paradosso, appunto, che non tiene conto delle volontà della politica, della società e, soprattutto, della grande maggioranza dei sardi.
La corsa a scoprire, nelle carte, nei progetti presentati, nelle voci nuovi insediamenti minacciati è un dovere di cronaca dei giornali e in questo lo adempiono con scrupolo. Di tanto in tanto, sbucano politici dell'opposizione per denunciare, certi di avere visibilità, le oscure manovre di un governo assetato di centralismo e di voglia di affossare le autonomie. Figurarsi, dicono, che il governo considera le acque intorno alla Sardegna come appartenenti allo Stato. Sarebbe curioso che così non fosse, per ragioni costituzionali. Ragioni modificabili con un nuovo Statuto speciale della Sardegna, naturalmente.
Nel disegno di legge che ho presentato al Senato e che riprende la proposta del Comitato per lo Statuto, è scritto, per esempio, che “il popolo sardo, il territorio della Sardegna e delle sue isole, il mare e il cielo territoriale, l’ambiente, la lingua, la cultura e l’eredità culturale, materiale ed immateriale, della Sardegna costituiscono la Nazione sarda”. Perché questa previsione di ordine costituzionale sia realtà è necessario che prima di tutto i sardi e il loro Parlamento regionale lo vogliano e si battano per ottenerla.
Non mi pare che ci sia in Sardegna una corsa a discuterne e a decidere. Da nessuna parte, né da chi questa proposta ha fatto propria, né da altre parti. Da queste, anzi, nelle poche volte in cui se ne parla, vengono critiche o strumentali (si tratta di una proposta “inadeguata e arretrata”, per l'amico Maninchedda”) o apocalittiche (è una proposta “separatista” per Gianfranco Sabatini). Se ci va bene che le cose continuino a stare come sono, almeno non ci si astenga da fare proteste sterili e prive di contropoposte che fanno la gioia di chi vuol conservare l'esistente.

venerdì 13 novembre 2009

La Soprintendenza risponde alla mia interrogazione a Bondi

La Soprintendenza archeologica ha affidato alla stampa una sua risposta alla mia interpellanza sullo scempio della cosiddetta Tomba del re nel complesso preistorico di Sos furrighesos di Anela-Ittireddu. Aspetterò naturalmente la risposta del ministro Bondi, a cui l'interrogazione è rivolta, per dire se le mie domande sono state soddisfatte, ma non posso non esprimere compiacimento per il fatto che la Soprintendenza abbia dato la sua versione dei fatti direttamente all'opinione pubblica.
Che cosa afferma? Il titolo dell'articolo che dà notizia della presa di posizione, “Nessun vandalismo ad Anela”, è smentito dal testo che racconta, invece, di un atto vandalico commesso nel 1971 e del sopralluogo fatto nei giorni successivi la mia interrogazione. “L’archeologo Giovanni M. Martis, assieme ai carabinieri del Nucleo tutela dei beni culturali, la mattina dell’11 novembre, nonostante le condizioni climatiche proibitive, con fortissime precipitazioni e nonostante i pericoli legati a un percorso in forte discesa, ha raggiunto il sito archeologico” è scritto nell'articolo che riporto perché nessuno fuori della Provincia di Sassari ne sarebbe informato..
“La tomba in questione è stata ispezionata con grande attenzione, in particolare le pareti della cella principale, interessate da un complesso di incisioni «stratificate» ascrivibili a diverse epoche. È stato poi effettuato un meticoloso confronto tra le decorazioni visibili nell’ipogeo e i rilievi delle incisioni, oltre alle fotografie contenute nella più importante pubblicazione della necropoli, che risale al 1984. È così risultato che la situazione della Tomba dei Re è identica a quella delle foto pubblicate 25 anni fa”.
L'archeologo Giovanni Demartis dà anche una possibile spiegazione al fatto che il Gruppo ricerche Sardegna (che ha lanciato l'allarme da me raccolto) abbia potuto pensare ad un vandalismo recente: il contrasto fra la parete annerita dalla fuligine e l’aspetto delle parti danneggiate, a prima vista può far pensare a una azione recente, ma così non è: il tentativo di asportare alcuni dei petroglifi della tomba risale proprio agli inizi degli anni Settanta.
Ripeto: attenderò dal ministro dei Beni culturali una risposta alle mie domande che prescindono dall'epoca in cui l'atto vandalico è stato commesso e che pongono più generali questioni di tutela del nostro patrimonio culturale. Al momento altro non mi resta se non sottolineare come la mia interrogazione abbia legittimamente posto all'attenzione di tutti lo stato di abbandono di beni tanto preziosi. Dal 6 aprile 1971 la necropoli di Anela è sottoposta a vincolo sulla base di una relazione dell’archeologo Ercole Contu. La fuligine trovata dal dr Demartis qualche giorno fa ad annerire la tomba, sta quanto meno a significare che il vincolo posto dalla Soprintendenza non è bastato a proteggere quel che resta della necropoli.

giovedì 12 novembre 2009

Sos furrighesos di Anela e il dibattitto sulla tutela dei beni culturali

Ringrazio tutti coloro che stanno partecipando alla discussione sullo scempio di Sos furrighesos di Anela, anonimi, semianonimi e persone che alle loro opinioni danno una faccia. Sapevo, evindentemente, che le questioni legate alla tutela del nostro patrimonio culturale sono di grande interesse. Oltre ai vostri post, ho ricevuto molte telefonate e mail personali, per lo più di sostegno, ma anche critiche della mia iniziativa. Succede spesso. Segno che l'uso dei blog per comunicare pareri e posizioni personali è molto meno diffuso di quanto si pensi: si legge in moltissimi, si scrive in molto pochi.
La discussione si è fatta accesa ed è comprensibile, dato che il problema della tutela dei beni culturali è appassionante, soprattutto in una terra come la nostra, ricchissima di monumenti e povera di mezzi. Apprezzo l'invito a moderare i toni e l'accoglimento dell'invito, anche se ho l'impressione che non sia del tutto chiaro quale sia il ruolo di un parlamentare. Uno domanda perché non sa tutto quel che c'è da sapere, altrimenti non esisterebbe l'istituto dell'interrogazione. Normalmente, le persone poco si curano di quanto un parlamentare scrive e dice svolgendo i suoi compiti di sindacato ispettivo e di proposta di leggi perché, normalmente, la stampa non se ne occupa.
Chi non avesse letto su questo blog del mio disegno di legge a favore dei malati di Alzheimer, nulla saprebbe né di che cosa propongo né del perché l'ho fatto. Questa proposta ha avuto a lungo una pagina sul Televideo della Rai e in appoggio al mio disegno di legge (n. 496) è in corso una petizione popolare che ad oggi ha raccolto 1692 firme, poche se la stampa ne avesse dato notizia, moltissime se si considera il silenzio che ha circondato sia il disegno di legge sia la petizione.
Eppure i malati di Alzheimer in Italia sono attualmente circa 600.000 (1.000.000 se si considerano anche gli altri tipi di demenza) ed entro il 2025 è previsto il raddoppio dei casi. Una piaga sociale di grandi dimensioni, insomma, e drammi umani indicibili stanno dietro i numeri. Ma, si sa, in una società della comunicazione come la nostra, ciò che non approda alle pagine dei media semplicemente non esiste. Non sono esistite interrogazioni che hanno segnalato e contribuito a risolvere importanti problemi, né sono esistite leggi che mi hanno trovato primo firmatario e coofirmatario come, faccio il primo esempio che mi viene in mente, le norme a favore delle Onlus.
Le domande che ho posto al mio amico ministro Bondi, domande pacate desiderose di risposte auspicabilmente rassicuranti, hanno suscitato discussioni pubbliche come quelle su questo blog, dialoghi privati fra me e miei interlocutori e, a quanto dice un anonimo, interessamento della Soprintendenza, non perché io ho chiesto delucidazioni al ministro dei Beni culturali, ma solo perché la notizia è apparsa in una cronaca. Come dire che se la questione si fosse risolta fra me e il ministro, con mie domande e sue risposte, nulla da ridire. Ancora meglio se neppure della risposta di Bondi si avesse avuto sentore.
Ora, amici intervenuti su questo blog – tralascio le reciproche pizzicature con un altro interlocutore – assicurano che sì lo scempio nelle Domus de jana di Anela c'è stato, ma trentanni fa, non quando lo ha scoperto e denunciato il Gruppo ricerche Sardegna. Se questa è la realtà delle cose, sono sicuro che il ministro dei Beni culturali ne sarà informato dalla Soprintendenza sarda che gli dirà anche quali indagini furono fatte per assicurare alla giustizia i criminali e per recuperare i bellissimi reperti asportati. In questa prospettiva, che l'atto vandalico sia avvenuto avantieri e trenta anni fa riguarda solo il fatto che il reato sia stato prescritto, non la gravità dello stato di abbandono di testimonianze preistoriche come questa che, mi si dice, è eccezionale.
Questa mia interrogazione, in più, ha anche lo scopo di sollecitare una maggiore attenzione che lo Stato e la Regione, in un costituzionale spirito di leale collaborazione, devono assicurare al nostro patrimonio culturale.
Nella foto: così era la parete della tomba prima del vandalismo

mercoledì 11 novembre 2009

Troppi no diventano insensati e controproducenti

Nella complessa vicenda dell'energia eolica si mescolano alcune cose prevedibili e qualche preoccupazione. Era prevedibile che suscitasse tanto interesse nei media, nei cittadini, nella politica ed è scontato che la malavita tentasse e tenti di mettere le mani in affari economici di enorme portata. La preoccupazione è che il No pregiudiziale, sempre e comunque, prevalga sul Sì motivato, molto attentamente valutato, capace di altrettanto motivati e valutati No.
C'è, al solito, un fronte del No che si estende dal nucleare in Sardegna (ed è un no giusto, naturalmente, da me più volte detto) all'attraversamento dell'Isola del gasdotto, alla costruzione della pur necessaria centrale di smistamento, all'uso del carbone per produrre energia, ai parchi voltovoltaici, agli inceneritori produttori di energia e, forse, dimentico qualche altro No. D'altra parte, alcuni dei patrocinatori del No sono personalmente o politicamente responsabili della calata in Sardegna di industrie cosiddette energivore, consumatrici di enormi quatità di energia, cioè.
Queste industrie, con il loro patrimonio umano di lavoratori, tecnici, dipendenti di industrie collaterali vanno salvate. Ed è giusto battersi in questo senso. Ma l'energia che “divorano”, da dove dovrebbe provenire se si dice di no a tutto ciò che potrebbe produrla? Io intravedo il rischio che, non so con quale inconsapelezza, questo fronte del No a tutto prepari le condizioni perché disoccupati, lavoratori a rischio e loro famiglie, per disperazione invochino la costruzione di una centrale nuclerare, sicura fonte di energia abbondante. È un paradosso, naturalmente, ma con la disperazione non è lecito giocare: non si può allo stesso tempo volere industrie energivore e negare la produzione di energia a basso costo, unica condizione perché esse sopravvivano.
Anche io ho detto con forza no alle pale eoliche a Is Arenas, nel Golfo di Cagliari e ovunque esse deturpino l'ambiente sardo, un bene non solo estetico ma anche economico. Ma il no sempre e comunque all'utilizzo di un qualcosa non consumabile come il vento è una pura sciocchezza. Discutiamo quale sia la strada migliore per produrre energia pulita e rinnovabile, ma non rassegnamoci ad una politica del No.
La criminalità organizzata vuol allungare le sue grinfie sull'energia eolica? È nell'ordine delle cose e, se anche è per ora una ipotesi di indagine giudiziaria, sia pure ben fondata a quel che si legge, per questo esistono le varie forze di polizia. Ovunque esistano interessi rilevanti, dallo smaltimento dei rifiuti all'attività infrastrutturale agli impianti eolici, la criminalità tenta di fare i suoi affari illegali. Ma a nessuno verrebbe in mente, per questo, di non raccogliere l'immondizia o di non costruire strade e ponti. Persone sensate hanno a disposizione non solo la personale vigilanza ma anche, e soprattutto, le forze dell'ordine e la magistratura.
Scagliarsi, come qui e là mi pare di intravedere, contro l'eolico perché c'è pericolo di infiltrazioni mafiose o camorriste è lo stesso del battersi contro una grande via di comunicazione perché c'è il rischio, o anche la certezza, che i criminali ci facciano un pensierino. In una società adulta, chi governa progetta e fa, chi tutela la legalità arresta e sbatte in galera chi delinque. A tutti gli altri, il compito di vigilare sull'uno e sull'altro.

lunedì 9 novembre 2009

I vandali di Sos furrighesos di Anela. Interrogazione

Ignoti vandali hanno fatto scempio di preziosi graffiti preistorici nelle Domus de jana di Anela-Ittireddu. In particolare, i criminali hanno devastato la cosiddetta "Tomba del re" nel sito meglio conosciuto come Sos furrighesos. Ne ha dato notizia il Gruppu ricerche Sardegna nel blog di Gianfranco Pintore. Su questo grave atto di vandalismo ho presentato una interrogazione al ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi. Questo il testo:

Premesso che
risulta dalla denuncia fatta dal Gruppo ricerche Sardegna sul un blog sardo che il giorno 4 ottobre scorso, membri del GRS stesso hanno verificato un atto vandalico nelle Domus de jana di Anala-Ittireddu, meglio conosciute come Sos furrigheddos;
nella cosiddetta “tomba del re”, ricca di segni preistorici, anonimi hanno probabilmente scalpellato e asportato le figure più significative:
una delle componenti il gruppo, facendo ricerche su pubblicazioni riguardanti quella e altre tombe ipogeiche, ha rintracciato una vecchia fotografia riproducente il sito originario:
dal confronto fra tale fotografia e lo stato attuale della parete della “tomba del re” risulta mancante lo splendido graffito di un cervo e quello di un altro animale, mentre non sono stati fortunatamente toccati altri disegni;

Considerato che:
i vandali hanno probabilmente asportato i due graffiti o per contrabbandare per proprio conto gli importanti reperti o dietro commissione di ignoti non sprovveduti estimatori dell'arte preistorica;
lo scempio commesso è di grande entità;
il danno arrecato al patrimonio culturale è in qualche modo recuperabile solo se i ladri saranno scoperti e i reperti rintracciati;

si chiede di sapere
se risulta alla Sovrintendenza della Sardegna la commissione del grave attentato al patrimonio culturale che essa è preposta a salvaguardare;
se essa Sovrintendenza abbia denunciato i fatti al Nucleo dei carabinieri per la tutela dei beni culturali e se sì se stiano svolgendo ricerche utili alla cattura dei responsabili del vandalismo e al recupero dei reperti;
se non ritenga, in uno spirito di leale collaborazione fra Regione sarda e Stato, interessare la prima alla necessità di vigilare sull'enorme patrimonio culturale presente in Sardegna.

domenica 8 novembre 2009

L'autonomia si esercita, non la si strilla

Cari amici,
intanto una considerazione generale: non mi irrita la contestazione anche quando, in alcuni casi, la foga fa allentare il bon ton e da la stura a frasi che, sicuramente, in un ragionamento pacato non sarebbero state scritte. La tolleranza e la moderazione sono caratteri che rivendico al mio modo di pensare. Del resto, ho scelto io di fare il lavoro che faccio e so che, per fortuna, in democrazia è naturale che un rappresentante degli elettori sia bersaglio sia di rappresentati sia, a maggior ragione, di chi non si sente rappresentato.
Detto questo, mi piacerebbe che nel dialogo, anche il più aspro, si tenesse conto di quel che si dice o scrive, senza che vi si cerchino pensieri non espliciti o, peggio, nascosti. Ma forse questo desiderio contrasta con le passioni e con le prevenzioni. Pazienza. Motivo conduttore delle critiche che ho raccolto sul mio articolo “Quella sconcertante sentenza sul crocifisso” è un supposto abbassamento della qualità autonomistica mia e di altri come me. Si vorrebbero più strilli e più indignazioni contro chi, il governo della Repubblica, ha o avrebbe atteggiamenti e pratiche lesive della nostra autonomia. In questo caso, si tratta della Sassari-Olbia che ancora non vede la luce.
Io sono dell'idea che l'autonomia si esercita non la si proclama. I proclamatori, di regola, fanno grande baccano e danno a intendere che così facendo si costringa il sistema accentratore a scendere a patti. È la obsoleta concezione rivendicazionista e piagnona che non mi interessa perché, il più delle volte, o è sterile o alla fin fine accomodante. Nei sessant'anni di autonomia questa della vertenza, della rivendicazione e del pianto contro l'Italia matrigna è stata una strada lungamente percorsa, anche se, per fortuna, non sempre.
Per me l'autonomia è una pratica che si fonda sui poteri e le competenze che abbiamo, troppo pochi e per questo da dilatare al massimo possibile. L'ho dimostrato anche presentando in Senato un disegno di legge che fa propria l'avanzatissima proposta di Carta de Logu noa elaborata dal Comitato per lo Statuto, aspramente criticata da intellettuali della sinistra e anche, misteriosamente, dall'amico Maninchedda. Una pratica, dicevo, non una declamazione che, in quanto tale, si fa voce debolissima quando si tratta di esercitare concretamente l'autonomia.
A che cosa serve essere autonomisti se non a conquistare alla Sardegna maggiori spazi di autogoverno? A che serve se non a vedere realizzati con gradualità i progetti condivisi dal sistema autonomistico sardo, come la Sassari-Olbia, per esempio? C'è chi preferisce gridare contro le inadempienze del governo centrale e chi, come me, lavorare con gli strumenti propri di un parlamentare affinché il governo centrale mantenga gli impegni presi. Se i media avessero attenzione a quanto accade in Parlamento, pubblicamente intendo, se non si limitassero a raccogliere le voci di chi strilla di più, forse ci sarebbe più considerazione di quanto i parlamentari governativi e di opposizione fanno.
Capisco che, informati molto delle grida e poco del pacato tallonamento del governo, i cittadini scambino le grida per l'unica maniera di incidere sulle decisioni. Chi fa opposizione dimentica spesso che cosa sia governare un'economia in crisi che ha a disposizione una coperta corta. Dimentica anche che, quando ha governato, è stata costretta a tirare la coperta ora da questa parte, ora dall'altra, contenta se alla fine riusciva a rispettare gli impegni presi. La situazione con la Sassari-Olbia è grosso modo questa: l'impegno è stato preso, un accordo è stato fatto fra i governi centrale e sardo, i finanziamenti sono stati individuati, si tratta di stanziarli con atto formale. Questo – afferma il governo – ci sarà in tempo utile per dare il via ai lavori. Sa, il governo, che non si può permettere di mancare l'impegno preso perché – mi si perdoni la brutalità – prima o poi dovrà presentarsi agli alettori per una conferma.
Io sono convinto che più delle grida varrà la pacatezza e la fermezza usata dai parlamentari sardi (anche quelli dell'opposizione che spesso mostrano indignazione a beneficio dei media) nell'aiutare il governo al rispetto dell'impegno assunto con l'autonomia sarda. Altrimenti, come ho detto e scritto una infinità di volte, tutti ci ricorderemo che siamo prima di tutto rappresentanti del popolo sardo e poi anche uomini di partito.

sabato 7 novembre 2009

L'Asinara resti com'è. Ma ci vuole faccia tosta a...

Va da sé che sono e resto contrario alla reintroduzione di un carcere speciale nell'Isola dell'Asinara. Capisco le difficoltà del ministro Maroni che si trova a gestire gravi problemi di ordine pubblico, ma la sua idea non va. Per questo ha trovato oppositori quasi unanimi in Sardegna (all'appello manca un sindacato della polizia penitenziaria) e in ministri colleghi di quello dell'Interno. Sarà, quindi, probabilmente catalogata fra le proposte inopportune.
Più interessante è capire con quale legitimità gridino oggi alla “autonomia” e alla “sovranità sarda” offese, coloro che accettarono senza batter ciglio la istituzione nell'Asinara del “Parco nazionale”, fortemente voluto dalla giunta di sinistra guidata dal mio amico Federico Palomba. La legge che ne prevedeva l'istituzione, la famigerata 394 del dicembre '91, è una delle leggi più centraliste e accentratrici che si possa immaginare. La volle con tutte le sue forze la sinistra ambientalista, che però non potè fare a meno, data la specialità dello Statuto sardo, di prevedere che “il Parco Nazionale del Golfo di Orosei, Gennargentu e dell'isola dell'Asinara” (così doveva essere il parco secondo l'idea originaria ed originale) si potesse fare solo d'intesa con la Regione sarda.
Nessuna imposizione governativa, quindi: stava alla Regione dire di sì o di no, sapendo – come più volte sottolinearono i critici – che dicendo di sì, la Regione si spogliava della sua “sovranità” sull'isola, consegnandola alla gestione dello Stato. Un atto volontario, cioè, di rinuncia alle prerogative della Sardegna. Volendo, vi si poteva istituire un Parco regionale, ottenendo la stessa salvaguardia e tutelando così la titolarità della gestione in capo alla Regione. Fu la sinistra a volere che fosse lo Stato a gestire tutto, lasciando alla Sardegna solo alcune briciole di rappresentanza.
I ministri competenti di questo governo hanno detto di no al loro collega Maroni. Ma se avessero detto di sì, noi sardi avremmo avuto una bella battaglia da combattere affinché l'Asinara (teoricamente regalata dalla sinistra alla gestione diretta dello Stato) non diventasse nuovamente carcere speciale.

mercoledì 4 novembre 2009

Quella sconcertante sentenza sul crocefisso

Comunque la si legga, e pur con tutto il rispetto dovuto, la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo è sconcertante. In primo luogo perché affermando la volontà di difendere “la libertà religiosa”, in realtà limita la libertà di manifestarla. In secondo luogo perché, quando la magistratura entra con tanta forza in questioni che attengono libertà individuali e coscienze collettive, qualcosa nella convivenza dei popoli si è rotto o rischia di rompersi. Voglio dire: se fossero stati i cittadini, credenti e no, a decidere sulla permanenza del crocefisso nelle aule delle scuole, a malincuore e condividendo moralmente l'opposizione della Chiesa, non avrei potuto, da membro di uno stato laico, che prenderne atto.
Il fatto è che l'estromissione del crocifisso dalle scuole è presa con una sentenza, fortunatamente appellabile e opportunamente contestata dal governo italiano in nome della stragrande maggioranza dei cittadini. Il crocefisso, infatti, non è solo un segno religioso ma è simbolo di amore fra gli uomini, di tolleranza e di libertà
Da sardo ho vivissimo il senso dell'ospitalità, che sento non come dovere giuridico, ma come modello morale della civiltà della mia Terra. L'ospite per noi è sacro e come tale è accolto e rispettato. Ma nessun ospite è legittimato a lagnarsi se in casa troverà un crocifisso o una qualsiasi icona religiosa che non sia consona al proprio credo o alla propria agnosticità, così come non mi permetterei mai di rimproverare chi mi ospita perché in casa sua o ci sono segni di altre religioni o non ce ne sono affatto. Non imporrei mai a qualcuno di liberarsi di un segno della sua identità religiosa, come a me è stato fatto in qualche viaggio in Paesi islamici, dove mi è stato imposto di nascondere la catenina con il crocefisso.
Non credo che un Paese islamico, di fronte alla immigrazione (numerosa o poca non importa) di cittadini di altre fedi debba essere indotto a liberare i luoghi pubblici dei segni religiosi, per timore di offendere la libertà religiosa degli ospiti. La prosopopea laicista (parte integrante dell'altra propopopea, quella eurocentrica), imponendo in Italia quel che certamente non potrebbe imporre in Arabia Saudita, sta in realtà affermando la supposta superiorità della concezione laicista su quella religiosa. Un modo, questo, per non affrontare con coraggio e decisione il complesso problema delle identità e delle diversità, senza capire che, in campo religioso come in quello politico, culturale e istituzionale, le une debbono necessariamente coesistere con le altre.
A me è capitato, negli anni 80, e ne parlò la stampa, di vedere un gruppetto di studenti iraniani strappare via il crocefisso da una parete della mensa universitaria di Sassari. Corsi a risistemarlo al suo posto, fra le minacciose proteste degli studenti che cercarono anche di darmi una lezione. Resistetti con un nutrito lancio di pane secco e riuscii ad andarmene. Non vorrei venire a sapere ora che avevano ragione gli studenti iraniani e torto io.