mercoledì 25 novembre 2009

Ma Stato e Regione non possono fare da salarifici

Con sfiducia nei partiti che la politica non riesce a rovesciare almeno in apertura di credito, sulla mia pagina in Facebook un amico mi ricorda crisi occupazionali dimenticate (la Valriso) dai più e nella mente di chi, come lui, ne paga ancora le conseguenze. Questa dannazione della memoria è la logica conseguenza di una azione politica costretta a star dietro alle ultime emergenze e, per molti motivi, poco incline ad avere in mente disegni strategici di nuovi modelli di sviluppo. L'attuale governo regionale, con il suo Piano regionale di sviluppo, inverte questa tendenza alla rincorsa dell'emergenza, ma certo non basta a produrre di per sé un cambio di mentalità.
Troppo deboli sono, ancora, i segnali che la politica, le forze sociali e la cultura autonomista danno di aver compreso la necessità di utilizzare la crisi industriale attuale e futura per affontare il nucleo del problema. Per prendere atto che il modello industriale esistente è in agonia, ci vuole un coraggio che solo pochi hanno, pochi e guardati con sospetto. La tentazione è quella di pensare che dall'agonia si potrà uscire con una ripresa di vita e che i drammi di migliaia di persone potranno essere risolti o con operazioni dirigistiche o con la messa a busta paga statale/regionale di chi rischia la disoccupazione.
Gli aiuti di Stato sono vietati dall'Unione europea, la politica può regolare il mercato ma non abolirne le leggi (lo si chieda ai cittadini ex sovietici o a quelli cinesi che cosa ne pensano dello statalismo in economia); non resta se non trovare meccanismi che accompagnino, senza eutanasia, l'agonia di questo sbagliato sistema industriale che in Sardegna provoca emergenze su emergenze. E che impegna enormi risorse, distraendole da impieghi capaci di creare prosperità per il milione e seicento mila sardi. Come rintracciare i meccanismi economici, politici e culturali capaci di far uscire la Sardegna dalla “cultura dell'emergenza” io non lo so, e del resto un disegno del genere può essere il frutto solo di un grande e partecipato dibattito a cui anche io potrò partecipare con le mie proposte.
La “cultura dell'emergenza” provoca irragionevoli e a volte paradossali conseguenze che, se pur fondate su ragioni di disperazione, non smettono di essere tali. Si leggono qua e là esempi di tale irragionevolezza. Da quello del sindacalista che, contrario ai parchi eolici, li vorrebbe solo se utili ad alimentare un'industria energivora come quella di Portovesme a quello del sindaco di Orgosolo che appoggia l'occupazione del suo comune da parte di 20 membri di una cooperativa senza lavoro. Detta così, sembrerebbe persino giusto e opportuno. Il fatto è che cooperatori e sindaco protestano perché la Regione non avrebbe previsto in Finanziaria quel che resta del magnieloquente “Progetto Supramonte”, voluto dal governo Soru come grande disegno economico per i paesi dei supramonti, e ridotto a cantiere forestale per accompagnare alla pensione una ventina di soci della cooperativa voluta negli anni Settanta dal Pci.
Io non so se, in realtà, la Finanziaria regionale abbia revocato il provvedimento di Soru, fra l'altro molto controverso all'interno della comunità. Ma questa protesta strumentale la dice lunga sul desiderio di una certa cultura politica di trasformare la Regione in un salarificio. Superfluo dire, credo, che i venti cooperatori di Orgosolo hanno tutta la mia solidarietà, come l'hanno, del resto, i lavoratori dell'Alcoa, quelli di Ottana e di tutte le altre aree di crisi. E come l'hanno anche i giovani intellettuali, impiegati negli uffici comunali della lingua sarda, a rischio di disoccupazione senza che a loro favore si levino i sindacati, i sindaci e, purtroppo, la politica. Rischiano di essere dei disoccupati figlio di un dio minore, non coperti dalla “cultura dell'emergenza”.

Nella foto: il Supramonte di Orgosolo

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