sabato 29 agosto 2009

Una firma contro l'Alzeimer

Già 1213 persone hanno firmato ad oggi la petizione che chiede la rapida approvazione del disegno di legge che ho presentato al Senato e il cui testo è in questo blog. Un risultato non da poco, visto il silenzio che ha circondato questa iniziativa, rotto solo dal Televideo della Rai. Eppure, come ricorda il testo della petizione “i malati di Alzheimer in Italia sono attualmente circa 600.000 (un milione se si considerano anche gli altri tipi di demenza”, aggiungendo che “entro il 2025 è previsto il raddoppio dei casi”.
Le firme, come si può vedere nel sito in cui è depositata la petizione provengono da tutte le parti d'Italia, così come da ovunque arrivano commenti come questo: “Sostenere economicamente e moralmente i malati di Alzheimer e le loro famiglie e' doveroso da parte dello Stato, nonche' segno di grande civiltà". Sarei grato agli amici di questo blog se volessero aggiungere la loro alle tante altre firme cliccando qui.

venerdì 28 agosto 2009

Federalismo, solidarismo, egoismo e altri stereotipi

Confesso di provare una fastidiosa sensazione di trovarmi davanti a luoghi comuni e a frasi fatte, quanto sento parlare di “federalismo egoista” e del suo contrario “federalismo solidale”. Come tutti gli stereotipi, esibiti come se fossero il riflesso logico della Verità, anche questi sono orticanti. Lontani come siamo dalla ripresa piena dell'attività politica e della conseguente ripresa della polemica dei “solidaristi”, forse è il caso di ragionarci su, senza richiami alle certezze assolute.
Intendiamoci, nessun con buon senso può pensare ad una organizzazione della Repubblica in cui le entità economicamente più forti e demograficamente più consistenti facciano carne di porco delle entità più deboli. Del resto, neppure i rapporti fra stati all'interno dell'Europa sono improntati a una concezione tanto aberrante. Esistono meccanismi per cui la ricca Germania non si può disinteressare della più povera Lituania, senza che questo comporti per l'Europa il gravame dell'appellativo “solidarista” che una cultura politica comunista ha trasformato da pratica religiosa, individuale e collettiva, in ideologia politica.
Esistono, anche all'interno della legge sul federalismo fiscale, meccanismi che vanno naturalmente sperimentati ma che sono in grado di assicurare una equità di base alle parti del nuovo stato federale che si va lentamente creando. Sta a queste parti utilizzare con intelligenza le condizioni di base e le loro potenzialità per far sì che le nuove competenze federali creino ricchezza; e spetta alle loro classi dirigenti complessivamente intese, la politica, la sindacale, l'imprenditoriale, la culturale, l'amministrativa, di trasformarsi da dipendenti in capaci di autogoverno.
Per quanto riguarda la nostra Terra, il federalismo già alle viste e quello che risulterà da un profondo rinnovamento del nostro Statuto possono essere un'occasione straordinaria per la screscita economica, sociale e culturale della Sardegna. Si tratta, fondamentalmente, di aggredire il paradosso per cui un'isola appena più piccola della Sicilia e con un quarto di abitanti supera appena di un migliaio di euro annui pro capite il Pil dell'isola più grande. Nessuno di noi può dire di aver fatto tutto il possibile per sconfiggere quel paradosso, pur se tutti noi possiamo accampare la giustificazione che la Sardegna, intesa come entità istituzionale, non ha avuto tutti i poteri e le competenze necessari ad incidere con forza sulle cause dell'arretratezza.
Adesso attraverso la legge sul federalismo e, poi, attraverso un nuovo Statuto coraggioso e rispettoso del patto costituzionale ci avviciniamo al momento in cui non avremo più scuse. La sconfitta del clientelismo e dell'assistenzialismo dovrà essere la prima dimostrazione che la Sardegna è capace di contare sulle proprie forze, sotto la protezione non di un paternalistico solidarismo ma di leggi costituzionali, prima fra tutta quella di approvazione della carta costituzionale sarda che saremo capaci di darci.

giovedì 27 agosto 2009

I cafoni di mezza estate

Fossi un lettore esclusivamente della stampa di sinistra (dal moderato Liberazione all'estremista La Repubblica) e fossi in partenza per le vacanze in Sardegna, non avrei dubbi. L'isola che mi aspetta è una landa del Far West, dove tutto è possibile dopo che a governarla sono entrati “quelli della destra distruttrice dell'ambiente”. Per mesi, prima, durante e dopo le elezioni di febbraio, i lettori delle diverse “Pravda” (Verità, in russo) sono stati, per così dire, informati che con il nuovo governo sardo: a) l'assalto dei mattonari alle coste sarà incoraggiato; b) le spiagge saranno privatizzate; c) la tutela dell'ambiente sarà l'ultima delle preoccupazioni.
Insomma, i cafoni di mezzo mondo troveranno pane per i loro denti. Si potrà scorrazzare con auto anfibie fin nelle spiagge ambientalmente più sensibili come Budelli (nella foto), si potrà sbarcare da una barca di lusso e cacciare i bagnanti, si potrà far provvista della sabbia più fine, gli albergatori potranno chiudere tutti gli arenili che vogliono e così via nefandezze commettendo. In più, niente timore: i cafoni saranno padroni del terreno, perché la catastrofe economica è incombente e in Sardegna arriverà pochissima gente. Immagino la delusione: l'isola straccolma di turisti, le finte concessioni e quelle truffaldine prontamente denunciate, gli arenili controllati e gli abusi denunciati. Il sognato Far West non c'è.
Quel che l'anonima cafoni fa o lo compie con favore delle tenebre, scaricando la spazzatura lungo le strade e in vicinanza di pregevoli beni ambientali, o è costretta a risponderne. Quando, fra qualche settimana, faremo i conti, ci accorgeremo che il catastrofismo economico ha fatto un buco nell'acqua e che, semmai, i problemi all'ambiente sono creati dal troppo affollamento. E ci accorgeremo anche che, forse, il supplemento di problemi risponde alla logica perversa del guastare l'immagine della nostra Isola.
Ma c'è chi non si rassegna alla sconfitta della propaganda politica e mediatica. E anzi rilancia, come fa oggi in un'intervista alla Nuova Sardegna l'ex assessore dell'ambiente Cicitto Morittu, corresponsabile dei disastri che i sardi dovranno pagare chi sa per quanto tempo. Adesso se la prende con la politica dei Parchi che il centrodestra vorrebbe mettere a rischio. Figlia del talebanismo ambientalista degli anni Novanta, la legge sui Parchi, voluta e votata dalla sinistra, sta mostrando tutte le sue pecche di accentramento, di ministerialismo, di messa ai margini delle comunità interessate.
Rimpiange, l'on Morittu, i tempi in cui c'era lui a governare e senza un minimo di pudore dimentica che dal suo governo “sono stati stralciati oltre un milione di euro destinati al Parco” della Maddalena. Non lo dico io, lo dice l'attuale direttore, Bonanno, nominato dal ministro Pecoraro Scanio d'intesa con l'ex presidente della Giunta, oggi deciso a far valere l'impostazione vincolista e accentratrice della legge voluta dai suoi patron politici: chiudere, vincolare, scremare le visite.
Ma c'è anche chi, oltre a Morittu e Bonanno, accettate senza colpo ferire ed ha anzi esaltate le magnifiche sorti e progressive dei parchi come L'Asinara e La Maddalena, adesso ha da obiettare contro il centralismo della Legge 394 (istitutrice dei parchi) che prima hanno accolto come salvifica dell'ambiente. Naturalmente, chiunque ha il sacrosanto diritto di cambiare idea: purché abbia il pudore di dirlo e, soprattutto, di non addossare ad altri i gravissimi errori fatti in nome di una vecchia e fallimentare politica di tutela ambientale.
Credo che tutti noi dobbiamo essere riconoscenti alle popolazioni montane del centro della Sardegna che hanno capito gli inganni nascosti dietro la legge sui parchi voluta da una sinistra giacobina nemica dei diritti di autodeterminazione delle comunità.

martedì 25 agosto 2009

La catastrofe mancata e le insufficienze di Abbanoa

Ci sarà un motivo per la crescente levata di scudi contro Abbanoa? La società che gestisce la nostra acqua e la sua depurazione sarà trascinata davanti alla Giustizia da un numero crescente di comuni che obbligatoriamente si sono consorziati. Da Villanova Monteleone a Dorgali, da Arzachena a Orosei le denuce sono sempre più numerose circostanziate e a chi legge i giornali di questo scorcio d'estate ha l'impressione che la Spa abbia mancato in maniera clamorosa ai suoi doveri d'ufficio.
Spiagge invase dai liquami, depuratori saltati, paesi rimasti senza acqua: insomma un lungo elenco di fallimenti. Come ho scritto qualche giorno fa, il catastrofismo della sinistra circa l'imminente e sicura bancarotta economica e sociale si è rilevato per quel che era: un bluf propagandistico. I cittadini, naturalmente quelli non colpiti gravemente dalla crisi, hanno smentito le cassandre e hanno continuato ad andare in vacanza, solo modificando i propri comportamenti. Almeno in parte, visto che la concentrazione delle proprie ferie ad Agosto è continuata e continua.
Fare un esame quantitativo di tutto ciò è, allo stato delle cose, impossibile. La frequentazione degli alberghi sulle coste è – dicono alcuni dei loro titolari – ha subito un calo. Forse è in calo anche l'ospitalità nelle seconde case, pur se sarà difficile avere cifre da chi continua nel mal costume di non pagare le tasse e, quindi, di non denunciare la quantità di persone ospitate. Di sicuro sono in crescita gli ospiti di B&b, di agriturismo, di case affittate solo per un paio di giorni. La sensazione è, comunque, che il numero di turisti in Sardegna sia se non in aumento, almeno stabile.
Che le persone siano ospitate in albergo, in campeggio, nei B&b, negli agriturismo, nelle seconde case (molte delle quali trasformate in locande), sta di fatto che la gran mole di turisti consuma acqua e produce rifiuti organici. La prima deve comunque essere fornita, i secondi comunque smaltiti da Abbanoa.
Anch'essa, insomma, è vittima di un turismo per lo più improvvisato e non censibile, oltre che del catastrofismo che ha avuto come effetto quello di far trovare le strutture esistenti assolutamente impreparate. Ci si aspettava un crollo di presenze, il crollo non c'è stato e non mi stupirei se, alla fine del consuntivo, trovassimo che la gente sbarcata delle navi e dagli aerei quest'estate è superiore a quella arrivata lo scorso anno. Questo, sia chiaro ed esplicito, nulla toglie alle responsabilità di chi dirige Abbanoa. L'incapacità a mantenere l'impegno per cui i dirigenti di Abbanoa sono stati a qualsiasi titolo nominati non può non provocare una seria ricerca delle responsabilità.
Sta però alla politica fare anch'essa una riflessione molto approfondita sul modello di sviluppo del turismo. La promozione che la Regione fa dell'immagine turistica della Sardegna sui grandi quotidiani insiste giustamente sulla pluralità di occasioni turistiche: il mare e le coste ne fanno parte ma non le esaurisce. Questa è, credo, la strada più giusta per lanciare l'idea che in Sardegna si può fare turismo tutto l'anno e che anche d'estate quest'Isola non è solo mare.
Insistere su questo, sempre e non solo d'estate, contribuirà a richiamare visitatori in ogni periodo dell'anno. E, visto da dove ho cominciato, anche a risolvere i problemi che la concentrazione di turisti sulle coste e in una cinquantina di giorni l'anno crea alla distribuzione e alla depurazione delle acque.

venerdì 21 agosto 2009

Patto di cittadinanza sì, ma anche patto fra diverse nazionalità

Il presidente della Camera ha lanciato in un suo articolo la necessità di “rilanciare un patto di cittadinanza fra gli italiani”. Quello di Gianfranco Fini è, ovviamente, un intervento assai più articolato di quanto possa far pensare una singola frase, ma è questa che mi suggerisce più di altre qualche considerazione che spero utile a un dibattito. Credo un buon titolo della discussione possa essere “Patto di cittadinanza fra gli italiani nel rispetto delle nazionalità degli italiani”. Tanto per segnalare che è utile a tutti e all'unità della Repubblica riconoscere che una cosa è la cittadinanza, altra cosa è la nazionalità.
Una paura di origine giacobina, di cui si è preda a sinistra come a destra come al centro, nega fino alla mistificazione la possibilità che all'interno dello stesso Stato possano convivere nazionalità diverse (e insieme ad esse le rispettive lingue e dialetti). Ma è un paura che ha solo fondamenti ideologici, tant'è che stati di origine non giacobina come la Spagna e l'Inghilterra non solo non hanno timore di riconoscere nazionalità diverse al loro interno, ma le promuovono. In Spagna esistono anche le nazionalità catalana, basca, gallega, nel Regno unito quelle scozzese, irlandese, gallese.
In Italia esiste, insieme ad altre, la nazionalità sarda. Fino a non molto tempo fa, quando ad essere egemone era la cultura giacobina della sinistra e di suoi inconsapevoli alleati “egemonizzati”, il riconosimento della nazionalità sarda era patrimonio di non molti intellettuali, pochi dei quali indipendentisti, che hanno dato il via ad un dibattito culturale di grande rilievo, pur se osteggiati dalla gran parte della politica social-comunista. In realtà, questi intellettuali interpretavano un sentimento molto diffuso fra i sardi che pure hanno sempre votato, all'80-85 per cento, per partiti per niente indipendentisti o separatisti.
Da tempo, l'espressione “nazione sarda” è entrata nel lessico della politica che, è onesto riconoscerlo, su questo si è dimostrata capace di interpretare il sentimento della maggioranza dei sardi molto di più e meglio dei ceti intellettuali e sociali dipendenti, per cultura e per rendita di posizione, dallo statalismo e dal quella “idea di Patria – come scrive Fini – dalle degenerazioni nazionalistiche e razziste che hanno funestato la storia del Novecento”. La cosa singolare, sia detto per inciso, è che gran parte di quei ceti intellettuali rifiutavano il concetto di “nazione sarda” non in nome della Patria (che anzi li infastidiva) ma di quello di un internazionalismo variamente coniugato: proletario, cosmopolita, antilocalistico, etc.
Dicevo dell'ingresso di “nazione sarda” nel lessico della politica e del governo. Se ne parla nel programma con cui Ugo Cappellacci ha vinto le elezioni e poi in due suoi alti discorsi per Sa die de sa Sardigna e per il Sessantesimo del Consiglio regionale, ne ha parlato più volte la presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo. Ne parlano nella loro proposta di nuovo Statuto speciale intellettuali come Francesco Cesare Casula, Gianfranco Pintore, Mario Carboni, Gherardo Gherardini, Massimo Delogu, Rita Dedola e molti altri. Hanno sottoscritto questa impostazione tutti i capigruppo del centro destra nella passata legislatura insieme a deputati e senatori. Io stesso ho condiviso questa Carta de Logu nova de sa Natzione sarda che ho presentato in Senato come disegno di legge.
Nessuno di noi è separatista né vuole la rottura dell'unità della Repubblica: “La Regione autonoma è parte della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea” è sancito nella proposta di Statuto”. Questo per dire che non esiste alcuna contraddizione fra l'essere di nazionalità sarda e di cittadinanza italiana, fra l'essere parte della Nazione sarda ed esser parte della Repubblica italiana. Solo un vecchio e obsoleto nazionalismo negatore delle diversità può pensare che “un patto di cittadinanza fra gli italiani” debba comportare l'annullamento delle diversità nazionali. Sì, dunque, al patto proposto da Gianfranco Fini, purché contempli le diversità che, del resto, il cammino intrapreso verso uno stato federale inevitabilmente dovrà promuovere. Con saggezza ma senza paure ottocentesche.

giovedì 20 agosto 2009

Spiagge inquinate: ripensare a una politica per il turismo

I giornali raccontano in questi giorni di spiagge invase da liquami dopo che sono saltati i depuratori che le servono. Da Baia Sardinia e Dorgali, da Alghero a Orosei, le segnalazioni di inquinamento si susseguono e danno un quadro magari esageratamente cupo ma certo non tranquillizzante. Ci sono modi diversi per leggere queste notizie; quello allarmista si qualifica da solo e non vale certo la pena di insistervi. Si può, credo, ragionare con più profitto sugli aspetti economici e di costume di quanto è successo e continua a capitare.
I depuratori sono saltati perché insufficienti a trattare gli scarichi prodotti da una mole di persone (residenti e turisti) assolutamente sproporzionata alla capacità di depurare per cui sono stati costruiti. Centri abitati che normalmente hanno una popolazione di mille persone (naturalmente si tratta di una astrazione) possono prevedere di averne dieci volte di più in estate e attrezzarsi con depuratori capaci di trattare i relativi rifiuti; ma se la popolazione diventa cinquanta volte tanto, è chiaro che quelle attrezzature si fanno assolutamente insufficienti. Ed è quanto è successo, almeno a leggere i giornali.
Intanto una considerazione generale: il catastrofismo economico montato da una propaganda politica irresponsabile è stato sconfitto più che dai fatti dalla gente che non vi ha creduto e che mostra una fiducia nel futuro più alta della paura in cui si è cercato di coinvolgerla. La crisi economica c'è, il suo superamento non è facile né rapido, ma le persone tendono a cambiare i propri comportamenti senza mettersi in balia degli uccelli del malaugurio. I giorni di ferie magari si contraggono, si scelgono i Bad and breakfast piuttosto che gli alberghi, i campeggi piuttosto che i resort, ma non si rinuncia a fare un salto in Sardegna.
E qui nascono i problemi. Che sono principalmente quelli della proporzione fra i servizi offerti (compresi quelli della depurazione) e la quantità di persone che si vogliono ospitare. Il cambiamento delle abitudini dei turisti pone questioni serie ai comuni prima che agli operatori turistici. Gli alberghi saranno anche mezzo vuoti (o mezzo pieni, secondo la prospettiva personale), ma le spiagge sono affollate anche da chi è ospite di strutture alternative che, comunque, producono materiale per i depuratori.
Di qui la necessità di una politica del turismo che deve essere complessiva. Non basta richiamare in Sardegna il maggior numero di turisti possibile, sia che a fare questo siano i comuni, gli operatori turistici o la Regione. D'altra parte, una Terra che è abitata normalmente da 1.600.000 abitanti non può prevedere la costruzione di depuratori che solo per 90 giorni servano gli otto milioni e passa di visitatori delle sue coste. Tutti siamo d'accordo che la stagione del turismo debba essere dilatata a molto di più dei tre mesi di affollamento. Tutti dovremmo essere d'accordo sul fatto che questo sia possibile se il turismo diventerà una vera impresa, seria e duratura, fondata sì sulla qualità delle sue coste ma anche sulla straordinaria ricchezza degli altri beni ambientali e sulla unicità del nostro patrimonio storico e culturale.

mercoledì 19 agosto 2009

Favorire il ritorno dei giovani all'agricoltura? E' possibile

L'idea del ministro dell'Agricoltura, Luca Zaia, di affidare a giovani agricoltori le terre demaniali dello Stato non è per niente male. Tanto non è male che anche noi in Sardegna potremmo farci un pensiero, naturalmente con la prudenza suggerita dal fatto che nella nostra Isola esistono vastissime estensioni di terre comunitarie regolate da usi e costumi millenari e che molte di esse sono protette da usi civici. Questi diritti costituzionali delle comunità sono stati sospesi, con l'accordo delle popolazioni, per dar modo alla Forestale di creare cantieri di rimboschimento che occupano molte centinaia di persone e, a volte, lo sono stati per affidare le terre a cooperative locali.
A queste aree si aggiungono quelle di proprietà del Demanio regionale, anch'esse interessate a lavori di forestazione e di conservazione. Questo per dire che non è facile prevedere in Sardegna quel processo di occupazione di giovani nel Demanio regionale che ha ispirato la proposta del ministro Zaia. Non facile, ma non impossibile, visto che niente vieta la coesistenza sugli stessi terreni di attività forestali e attività agricole. Del resto, nelle foreste demaniali il pascolo è consentito.
Quel che è, però, più interessante è la disponibilità di molti giovani ad occuparsi nuovamente di agricoltura, anche lasciando posti di lavoro e reinventadosi un nuovo mestiere, secondo quanto risulta da diverse inchieste giornalistiche. Segno che la sbronza industrialista sta lentamente passando, pur se è difficilissimo capire con quale velocità o lentezza. Da noi, le terre comunali (tali non perché delle amministrazioni comunali, ma perché delle comunità) sono prevalentemente sulle montagne, poco interessate alla privatizzazione perfetta successiva all'Editto delle Chiudende o difese da insurrezioni popolari. Nel passato furono utilizzate dai pastori che, salvo non molti casi, ne sono fuggiti principalmente per due ordini di motivi: il primo riguarda l'enorme disagio non commisurato al reddito che vi si poteva produrre; il secondo riguarda un eccesso di protezionismo ambientale che ha impedito anche le minime trasformazioni che, senza deturpare l'ambiente, avrebbero consentito condizioni di lavoro più umane.
Un ripristino non invasivo delle strade di penetrazione, una elettrificazione anch'essa non invasiva degli ovili e delle altre attività possibili sui monti, la cattura delle acque, il riconoscimento del plusvalore della qualità dei prodotti, insieme alla incentivazione al ritorno sui monti di giovani con buone idee progettuali, tutto questo produrrebbe, ne sono convinto, non solo nuovi redditi ma anche una riantropizzazione dei nostri monti. Una giusta miscela di tutela ambientale, presenza umana, possibilità di produzioni pregiate e redditi potrebbe dare ai nostri monti, quasi tutti beni comunitari o demaniali, la caratteristica di produttori di prosperità.

martedì 18 agosto 2009

E se fossero i neogiacobini a minare l'unità della Repubblica?

Il sardo, e insieme ad esso il gallurese, il sassarese, il catalano d'Alghero, il tabarchino, sono lingue tutelate dalla Regione e dallo Stato (e quindi dalla Repubblica). In più, il governo Cappellacci ha preso solenne impegno a investire sulla valorizzazione della lingua sarda e il governo Berlusconi ha appena emanato un provvedimento che favorisce l'insegnamento nelle scuole del sardo e in sardo. Per questo, il dibattito suscitato da Umberto Bossi intorno ai dialetti potrebbe non interessarci se non per i suoi risvolti politici.
Concordo, per esempio, con quanti nel mio partito pensano e dicono che questa e altre esternazioni della Lega (dalla questione delle bandiere regionali a quella dell'inno Fratelli d'Italia all'altra delle impropriamente dette gabbie salariali) sono tentativi per accrescere il consenso al partito di Bossi con scarsa cura per le sorti dell'intera coalizione. Dissento, invece, da quanti pensano che nel dibattito politico ed istituzionale ci siano tabù intoccabili; solo l'unità e indivisibilità della Repubblica sono principi inviolabili.
Detto questo e limitando volutamente il mio ragionamento alla questione dei dialetti, mi pare che questa estate ci abbia, per così dire, regalato una galleria infinita di reazioni scomposte e, qui sì, bipartisan. È come se il giacobinismo di destra e di sinistra abbia formato un partito trasversale terrorizzato dall'idea che l'unità della Repubblica possa essere messa a rischio dal riconoscimento delle sue diversità. Inconsapevolmente, credo, questa crociata contro i dialetti conferma l'idea degli indipendentismi sparsi un po' in tutta Italia, secondo cui l'unico collante della unità della Repubblica sta nella sua forza nel reprimere le diversità, quelle dialettali e linguistiche in primis.
Se così fosse, ma non penso affatto che sia così, che senso avrebbe proclamare l'unità dello Stato? Se per gridare all'unità in pericolo basta prevedere la tutela e la valorizzazione dei dialetti, che comunque la gente continua a parlare, basta pensare al loro insegnamento nelle scuole per evitarne la scomparsa, vuol dire confessare l'estrema fragilità del tessuto unitario della Repubblica. Io non credo affatto che tale tessuto sia tanto fragile da poter essere sfilacciato dalla tutela dei dialetti. Ma credo che il giacobinismo trasversale, coalizzatosi in questa estate con un furore ideologico da ultima spiaggia, possa portare alla lunga ad un conflitto dagli esiti terribili fra il diritto alle diversità e l'adesione all'unità.

domenica 9 agosto 2009

Crisi: senza un nuovo Statuto, vano pensare a soluzioni permanenti

Nel suo editoriale domenicale, il direttore dell’Unione sarda fa una analisi implacabile della crisi economica che ci attanaglia e delle responsabilità della politica, lenta nel pensare e nell’agire. Un’accusa, questa, che ha valore se rivolta all’intera classe dirigente sarda e quindi sì alla politica, ma anche ai sindacati, agli imprenditori, alla cultura, alle amministrazioni locali, altrimenti rischia di ridursi a una invettiva, cosa che sicuramente Paolo Figus non aveva in mente. La politica ha il dovere di governare i processi, ma in una società complessa come la nostra, in questi processi è coinvolta tutta la classe dirigente, con i suoi legittimi interessi fra di loro contrastanti.
Leggo altrove, per esempio, che in Gallura la sinistra sta capeggiando un “no” alla centrale del gasdotto che dovrà lì dovrà essere fatta. Non dico che il “il fronte del no” non possa essere, alla fine, indotto a dire “sì” e ad abbandonare l’idea del no nel mio giardino. Ma sarebbe ingeneroso addebitare alla politica di governo ritardi, maggiori prezzi, rallentamento nella crescita dell’occupazione. La difesa ideologica della chimica, la non disponibilità a prendere atto della sua crisi internazionale, la poca propensione a elaborare da subito un modello di sviluppo che renda il meno dolorosa possibile la fuoriuscita dal presente modello industriale, sono responsabilità della sola politica?
Ma mi interessa, nell’editoriale di Figus (che per altro largamente condivido) un aspetto che trovo inquietante e che mi ricorda l’eterno ritornello economicista di una cultura politica che, credo, non appartiene al direttore dell’Unione: alle riforme non economiche si potrà pensare solo dopo che siano risolte le questioni economiche. Come non ricordare i tempi del dibattito sulla Rinascita, largamente egemonizzato dalla sinistra socialcomunista e democristiana, quando lo sviluppo economico era condizionato alla messa in mora della identità sarda e delle leggi per il suo radicamento?
Potrei continuare a lungo, mostrando come, a mio parere, sia l’intera classe dirigente ad essere coinvolta. Prendersela con la politica di governo, che ha molte responsabilità ma non tutte, è una troppo facile soluzione. Il problema vero è che la società sarda e le sue classi dirigenti non hanno, dato lo Statuto vigente, tutte le competenze e i poteri necessari ad affrontare e risolvere le questioni economiche, sociali, culturali che la presente crisi pone e che porranno le crisi avvenire.
Scrive il direttore dell’Unione sarda: “In questi giorni, tra le altre cose, abbiamo anche sentito parlare di questioni legate all'autodeterminazione dei sardi, alla possibilità di fare da soli. Parole sante, giuste, firmate dal presidente del Consiglio regionale Claudia Lombardo. [...] di quale autodeterminazione possono parlare i poveri? Raramente le disquisizioni teoriche e la filosofia hanno dato da mangiare ai disoccupati”. Eccola qui la questione, mutuata da un vetusto economicismo. Ma quelli della capacità e possibilità dei sardi di autodeterminarsi non sono un ragionare di filosofia e un abbandonarsi a “disquisizioni teoriche”. Ma cose che “danno da mangiare ai disoccupati”.
Disegnare un quadro costituzionale entro cui i problemi economici e sociali trovino gli strumenti giusti per essere affrontati e risolti è l’unica maniera per non essere in balia degli eventi economici. Tutti si aspettano regali dalla propria lista di nozze, ma senza nozze, è chiaro, nessun regalo. La metafora di un importante politico europeo si applica bene al rapporto che esiste fra i benefici economici e sociali e un nuovo quadro costituzionale per la Sardegna: senza il secondo è quasi inutile sperare nei primi. Altro che filosofeggiare. A meno che qualcuno, ma non mi pare questo il senso dell’editoriale di Figus, non fondi tutto sulla speranza che lo Stato sia generoso e magnanimo con noi.

venerdì 7 agosto 2009

Sardo e italiano: non prima o dopo, ma insieme

La mia adesione a su Comitadu pro sa limba sarda ha suscitato reazioni positive e negative su questo blog e nella mia pagina su Facebook, come è naturale e giusto che sia. Sul blog ho risposto a “Claudio” e a Antonimaria Pala che ho ringraziato per l’apprezzamento dato alla mia adesione.
Ci sono, in Facebook, insieme a valutazioni positive una serie di considerazioni che partono da timori comprensibili, ma a mio parere non fondati, sulle sorti della lingua italiana. L’italiano vive, è vero, un processo di anglicizzazione spesso inutile, quasi sempre frutto di mode esterofile molto provinciali e assai poco cosmopolite. Ma come pensare che responsabile di questo processo sia la lingua sarda? Le due lingue, l’italiano e il sardo, non dovrebbero mai essere considerate antagoniste, anche se è la seconda ad aver subito per secoli un assalto ingiustificabile da parte della prima. Tant’è che la Costituzione italiana, nel suo articolo 6, s’impegna a tutelare le lingue di minoranza (compreso il sardo) come riparazione ai torti da esse subiti sia durante il fascismo sia nei decenni precedenti. Vero è che questa previsione costituzionale ha dovuto attendere mezzo secolo per essere attuata, ma ora lo è.
Dicevo dei timori di alcuni miei interlocutori, come quello di chi invita a insegnare meglio l’italiano prima del sardo. Francamente non capisco questa gerarchia di lingue: il cervello riesce, per nostra fortuna, a imparare una grande quantità di lingue e le dispone sullo stesso piano. Conosco giovani che insieme all’italiano parlano correntemente il sardo, l’inglese, lo spagnolo, l’arabo, il francese e passano dall’una lingua all’altra con assoluta naturalezza, senza sentirsi abitante di una Torre di Babele e rifuggendo dall’idea di un’unica lingua massificante. Usare una lingua che, come dice una gentile interlocutrice, ci unisca nel Mondo è, del resto, un desiderio suicida, visto che la realizzazione di questo sogno comporterebbe la scomparsa anche dell’italiano, parlato si e no da centomilioni di persone contro i miliardi che usano l’inglese. Molto più giusto conoscere l’inglese e insieme a questa lingua internazionale tutte le lingue possibili, compresi il sardo e l’italiano.
“I dialetti per me rimangono dialetti... ma non una lingua” dice un’altra signora. Mi verrebbe di rispondere con il linguista secondo cui “una lingua è un dialetto con alle spalle un esercito”, per significare che quasi sempre nella storia dell’umanità un “dialetto” è diventato “lingua” non per ragioni interne alla parlata ma per ragioni di potere. Ma c’è, per fortuna, qualcosa di meno greve a definire lo status di una lingua. Quella sarda lo è perché tale la sente il 90 per cento dei sardi (inchiesta sociolinguistica delle Università di Cagliari e di Sassari) e perché la comunità scientifica la definisce lingua neolatina, fra l’altro cugina dell’italiano. D’altra parte è noto a tutti che i sardi sono considerati quelli che meglio parlano l’italiano come capita a chi deve imparare una lingua diversa dalla propria.
Due ultime considerazioni, suggerite dagli amici che mi hanno onorato del loro interesse. La prima: in Sardegna si parlano cinque lingue autoctone, il sardo, il gallurese, il tabarchino, il sassarese, il catalano d’Alghero e, per quanto riguarda il sardo, molte varietà, pressoché una per paese. Sono una enorme ricchezza che va tutelata, promossa, aiutata a radicarsi. Ognuna di queste parlate locali è degna di essere parlata, scritta e normalizzata. E insegnata a scuola, anche per contenere la dispersione scolastica tipica delle aree a bilinguismo negato o osteggiato.
La seconda: il fatto che la lingua sarda sia una non impedisce (ci mancherebbe altro) che ciascuno di noi parli il dialetto del proprio paese o della propria città, il cagliaritano i cagliaritani, l’iglesiente a Iglesias, il laconese a Laconi, il bittese a Bitti e così via. Senza forzature e incrostazioni di obblighi, come suggerisce un altro amico, ma con spontaneità. E, mi si permetta l’aggiunta, con studio.

mercoledì 5 agosto 2009

Perché sto col Comitadu pro sa limba sarda

Ieri ho aderito al Comitadu pro sa limba sarda. L’ho fatto di cuore, contento di trovarmi insieme a persone con cui sono in sintonia per scelta politica e ad altre con cui, politicamente parlando, divergo. Quel che apprezzo è che queste persone e altre che si aggiungeranno abbiano deciso di tacere sui contrasti e di gridare la loro passione comune per l’elemento fondante della nostra identità di popolo: la lingua sarda.
Parlo, sia chiaro, della lingua sarda e insieme ad essa del gallurese, del sassarese, del tabarchino già tutelate dalla legge regionale n. 26 e della lingua sarda che, insieme al catalano d’Alghero, è tutelata dalla legge dello Stato 482. La mia adesione, vorrei essere il più chiaro possibile, è ai punti che il Comitadu ha prospettato alla Regione:
1) applicare il Piano Triennale linguistico con le modifiche più opportune per accrescerne l’efficacia di intervento e con il mantenimento degli interventi a favore della cultura assicurati dalla legge 14 sui beni culturali (patrimonio immateriale) e dall’ISRE
2) provvedere al forte coordinamento regionale per tutta la politica linguistica che eviti la caduta in localismi
3) impegnare nel collegato alla finanziaria che si sta per approvare in Consiglio maggiori risorse finanziarie nel sardo nella Pubblica Amministrazione e nella Scuola
4) assumere l’impegno politico di finanziare decorosamente (almeno 4 o 5 milioni di euro) la politica linguistica a partire dal bilancio 2010 di prossima scrittura
5) assumere l’impegno a continuare nella sperimentazione amministrativa di uno standard della lingua sarda, favorire la standardizzazione delle varietà alloglotte e formulare una proposta di grafia ortografica per la difesa di tutti i dialetti della lingua sarda e delle lingue alloglotte
6) assumere l’impegno a riconoscere nello Statuto speciale il sardo come lingua unitaria e, ovviamente, e a tutelare le 4 lingue alloglotte nei territori di riferimento.
Sono convinto già da tempo, e ne ho scritto, che la salvezza della lingua sarda (e insieme ad essa delle altre quattro lingue alloglotte) stia nella sua costituzionalizzazione, nel suo riconoscimento, vale a dire, all’interno del Nuovo statuto speciale che, penso, debba essere uno dei primi argomenti in discussione nel nostro Parlamento regionale. Sulla necessità che si debba trattare di una Carta sarda coraggiosa, tesa a dare alla Sardegna l’autogoverno di cui ha bisogno col solo obbligo a rispettare l’unità della Repubblica, esistono oggi convergenze molto più ampie di quel che normalmente farebbe pensare la battaglia politica in corso. Ed esiste, in più, un formale impegno del governo sardo.
La società sarda che il Nuovo statuto disegnerà non può che essere unita nei suoi fondamenti, a partire da quello linguistico. La legislazione statale e quella regionale individuano “il sardo” come lingua da tutelare. Sta alla nostra intelligenza coniugare la diversità delle parlate, il loro diritto alla tutela, alla normalizzazione e allo sviluppo in tutte le forme, con la necessità di una lingua scritta che serva all’amministrazione e a chiunque ne voglia liberamente farne uso. So che non si tratta di un processo di breve tempo, che ci vorranno aggiustamenti in corso d’opera, ma sono convinto che la lingua standard già in uso nella Regione sia un punto fermo. Perfettibile come tutti i prodotti delle scelte politiche – e uno standard è una scelta politica, pur fondata su basi scientifiche – anche lo standard è soggetto a una sperimentazione di cui si conosce solo la data d’inizio. Nazioni senza stato ben più forti e ricche di tradizioni linguistiche scritte, penso alla Catalogna, continuano ad investire ogni anno importanti risorse finanziarie sulla normalizzazione del catalano.
Ed hanno imparato a loro spese che su una questione del genere sono naturalmente ammessi dibattiti e scontri culturali, ma non può essere concessa l’opera disgregatrice di chi pensa di poter piegare le questioni linguistiche ad esigenze di propaganda elettorale o di agitazione di partito. Con la sua proclamata, e spero praticata fino in fondo, imparzialità partitica, su Comitadu pro sa limba sarda mi ha convinto ed anche per questo ne sono un sostenitore.

sabato 1 agosto 2009

Giustizialisti sull'orlo di una crisi di nervi

Non mi pare di aver visto sui giornali grandi servizi sull’inchiesta che a Bari sta mettendo in crisi la sinistra e il centrosinistra. Per un garantista quale io sono è un tuffo nella civiltà, le cui acque sono state per mesi agitate da pettegolezzi, gossip, sventolio di slip. Gli indagati di Bari sono persone innocenti fino a quando la magistratura non sarà di parere contrario fin all’ultima sentenza. Tutti, che si trattino di privati cittadini e che si tratti di influenti uomini politici e checché ne pensino i giustizialisti, oggi un po’ imbarazzati perché la magistratura sta dirigendo le sue attenzioni in ambienti che del giustizialismo ha fatto una sua bandiera.
Naturalmente non mi illudo che la moderazione con cui certi giornali parlano dell’inchiesta barese sia da ascrivere ad una improvvisa folgorazione garantista: è semplicemente perché i guai familiari (per lo più delitti economici, secondo i pm) sono in fondo perdonabili. Basta, per convincersene, dar uno sguardo al quotidiano-partito che, forse presagendo quanto stava per accadere ai partiti della sinistra barese, ha tentato la strada del pettegolezzo contro Berlusconi. Un modo come un altro per distrarre l’opinione pubblica dall’imminente scandalo della sanità.
Miserie umane e professionali. Che però fanno sollevare la pelle d’oca. Quel giornale-partito che ha tentato di sporcare il G8, di delegittimare il presidente del consiglio alla vigilia, addirittura montando un clima di suspense intorno ad una bomba mediatica pronta a scoppiare nei giorni dell’assise internazionale; quel giornale che ha inventato (insieme a un settimanale suo confratello) tombe fenice del IV secolo aC a Villa Certosa; quel quotidiano-partito non è, per fortuna, al potere. Immaginate solo per un attimo che ne sarebbe della Repubblica italiana se quelli di La Repubblica fossero i metodi della lotta politica. Da rimpiangere la Stasi di Ulbricht.