domenica 31 maggio 2009

Il Festival di Gavoi e "Indignazione Continua"

Il Festival di Gavoi “L’isola delle storie” si farà, come è bene che sia. E sono curioso ora di vedere le reazioni di Indignazione Continua che già aveva riempito i giornali e internet di vibranti proteste contro la “incompetenza della Regione”, le “schifezze di Cappellacci” e l’attacco “della destra” portato all’ultimo baluardo della Cultura. Tutto nasce da una riflessione molto interna alla sinistra: “Come ci saremmo comportati noi in circostanze del genere?”
Il presidente della Provincia di Nuoro, appena eletto, aveva smantellato l’ufficio provinciale della lingua sarda e nominato altri dirigenti. E dire che quelli di prima non erano stati scelti da partiti a lui avversi ma da un amico-nemico del suo stesso schieramento. Memore di questo comportamento, qualche giorno fa ha pensato che il centrodestra, vittorioso a febbraio, non avrebbe potuto comportarsi nella maniera vendicativa conosciuta. Di qui, un durissimo attacco alla “incompetenza della Regione”, seguito dalla mobilitazione di Indignazione Continua.
In una lettera ai giornali, il presidente della Regione ha assicurato che i soldi per il Festival ci sono e che “L’isola delle storie” li riceverà persino in anticipo rispetto al consueto. Non tutti ne saranno contenti. Qua e là in internet si leggono articoli di chi contesta la filosofia degli organizzatori, tesa a trasformare i sardi in ascoltatori passivi di “storie altrui” e mai in protagonisti di una cultura, anche letteraria, originale. Ma non è nella vocazione liberale del centrodestra il finanziamento di avvenimenti solo se in sintonia con questa ispirazione. Si tratta di un’altra cultura (?) politica quella che prende questa strada.
Dicevo delle possibili reazioni. Una è scontata: “Si tratta delle solite promesse”, l’altra è classica: “Il movimento creatosi ha costretto Cappellacci a fare retromarcia”. Questa la darei quantitativamente vincente: è già stata sperimentata con la questione delle scorie nucleari che avrebbero dovuto inondare la Sardegna. Si trattava di una invenzione a tavolino, ma il fatto che le scorie radioattive non sono arrivate nell’Isola non è dovuto, secondo Indignazione Continua, al fatto che non esistesse alcun progetto del genere. E’ dovuto alla sua mobilitazione. Ma si tratta evidentemente un’arma spuntata, anche se con monotonia la si vuole usare con la bufala delle centrali nucleari in Sardegna, e ora con il Festival di Gavoi. Se l’intellighetsia di sinistra ha piacere di usarla, faccia pure. Andrà incontro a delusioni sempre più cocenti.

venerdì 29 maggio 2009

Zone interne: ma l'economia non basta

L’on. Pietrino Soddu, sulla Nuova Sardegna di ieri, si è occupato di un problema che, come un fiume carsico, di tanto in tanto affiora per poi scomparire: la sofferenza delle Zone interne della Sardegna. E avanza una proposta di soluzione che può essere così riassunta: “Occorre localizzare nella Sardegna interna alcuni degli elementi costitutivi della società moderna post-fordista, perlomeno quelli disponibili alla manovra strategica del potere politico”.
Come non essere d’accordo? E come non essere d’accordo con una delle sua proposte operative? Quella secondo cui è necessaria “la creazione di una Agenzia per lo sviluppo delle zone interne dotata di personale, di risorse straordinarie, di procedure semplificate (ad esempio come quelle del G8) e di poteri sostitutivi in carenza di iniziativa delle autorità amministrative ordinarie”.
Ce ne sarebbero anche altre, come la creazione di zone franche. Ma capisco l’imbarazzo dell’on. Soddu, visto che l’amministrazione Soru ha fatto trascorrere tutta la sua legislatura senza delimitare le zone franche come, pure, avrebbe potuto fare, autorizzato dalla legge. Credo avrebbe provato un qualche disagio nel rispondere ad una domanda: “Perché durante il governo Soru non è stato fatto alcunché?”
Ma resta, al di là di ciò, la sensazione che gli sia difficile sottrarsi ad una malattia, quella dell’economicismo, che pure in tempi passati aveva individuato come pecca nel modo di pensare e di agire delle classi dirigenti sarde ai tempi della Rinascita e non solo allora. Non c’è dubbio che i pericoli stiano, per i paesi delle Zone interne, nel differenziale di sviluppo economico fra la Città e la Campagna, fra, appunto, le Terre dell’interno e quelle delle coste. Ma non basta questo a spiegare la fuga dai paesi e dai villaggi verso i poli considerati centro di possibile benessere. Come un cane che si morde la coda, i servizi fuggono dai centri troppo deboli per poter ospitare servizi. Un fenomeno che non riguarda solo la Sardegna, ma quasi tremila paesi e villaggi in tutta la Repubblica.
Dove questi problemi non si pongono o si pongono in maniera meno drammatica? Capita nelle regioni, come la Valle d’Aosta e il Sud Tirolo, dove l’autonomia è più forte e dove il regime di bilinguismo garantisce ai cittadini bilingue una protezione rafforzata del loro diritto ad abitare nei piccoli o piccolissimi centri. Lì è improponibile l’apertura di un libro mastro che regoli la vita dei cittadini secondo il dare e l’avere, dove, fuori di metafora, per esempio l’istruzione pubblica non è soggetta a criteri validi in realtà non bilingui.
Mi sono già occupato in questo blog della notizia secondo cui in Valle d’Aosta crescono gli impieghi di maestri nelle scuole elementari mentre altrove diminuiscono. Ciò che fa la differenza fra i maestri valdostani (e la complessiva società della Vale d’Aosta) e gli insegnanti sardi (e la nostra società) è, appunto, la consapevolezza che ad uno status di bilinguismo reale deve corrispondere uno status legale di bilinguismo.
So benissimo che una buona soluzione di questo problema non comporta di per sé l’arresto dei processi di spopolamento e di degrado. Ma so che la conservazione di scuole nei piccoli centri sarebbe un importante segnale di attenzione che alimenta, insieme a misure economiche che da sole non bastano, la speranza che ci sarà un futuro per i paesi altrimenti condannati.

giovedì 28 maggio 2009

Caro Massidda, sbaglia. Caro Addis, è lei in errore

di Daniele Addis

Guardi, l'articolo [dell’Atto unico di Helsinki citato nel suo post] recita così:
"IV. Integrità territoriale degli Stati
Gli Stati partecipanti rispettano l'integrità territoriale di ciascuno degli Stati partecipanti. Di conseguenza, si astengono da qualsiasi azione incompatibile con i fini e i principi dello Statuto delle Nazioni Unite contro l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o l'unità di qualsiasi Stato partecipante, e in particolare da qualsiasi azione del genere che costituisca minaccia o uso della forza.
Gli Stati partecipanti si astengono parimenti dal rendere il territorio di ciascuno di essi oggetto di occupazione militare o di altre misure di forza dirette o indirette in violazione del diritto internazionale, o oggetto di acquisizione mediante tali misure o la minaccia di esse. Nessuna occupazione o acquisizione del genere sarà riconosciuta come legittima."
I casi di Kosovo, Abkazia e Ossezia sono tutti caratterizzati dall'uso della violenza, lotta armata e/o terrorismo, oltre all'intervento di eserciti stranieri, come ad esempio quello russo.
Vogliamo quindi estendere l'integrità ai rapporti intranazionali che implicano terrorismo o lotta armata? Stando a quello che sta scritto nel trattato di Helsinki mi pare una forzatura (a meno che non siano stati stranieri a finanziare i terroristi o gli eserciti che si combattono), ma per me va bene. Però continua a non riguardare popoli che chiedono pacificamente l'indipendenza, a meno che non si voglia paragonare la Sardegna al Tibet e l'Italia alla Cina, ossia un regime che soffoca con la forza le velleità indipendentiste dei tibetani. Anche nel caso di Ossezia e Abkazia ricordo che l'integrità è stata tirata in ballo per intimare alla Russia di non intervenire, non per dire a quegli stati che non avevano alcun diritto di chiedere l'indipendenza.
Io sono sicuro che, in questo momento, un referendum per l'autodeterminazione della Sardegna vedrebbe la netta sconfitta di chi aspira all'indipendenza, infatti non si sta chiedendo nessun referendum. I sardisti vogliono aprire un dibattito in regione per parlare di quei temi, mentre altri movimenti come IRS agiscono sul territorio cercando il confronto aperto con i sardi, vittime di decenni di pregiudizio contro l'indipendentismo.
Non è meglio prendere atto che l'autonomia, in 70 anni di esistenza della nazione italiana, non ha funzionato? Non è meglio prendere atto del fatto che i discorsi dei politici sono sempre gli stessi laddove continuano ad auspicare un'autonomia che non arriva mai?
Quelle nazioni senza stato cui lei fa riferimento godono della sovranità necessaria al proprio sviluppo culturale, linguistico, sociale ed economico PROPRIO PERCHÉ al loro interno ci sono delle FORTI minoranze indipendentiste.
L'autonomia è di solito un qualcosa che viene "concesso" dallo stato centrale ed è tanto più forte quanto più insistenti sono le spinte indipendentiste delle varie regioni. Se in Spagna la Catalogna o i Paesi baschi non fossero regioni fortemente autonome non ci sarebbe modo di tenere unita la nazione, se non la repressione armata. Questo è possibile perché la minaccia di indipendenza di quelle regioni pende sempre sulla corona spagnola. Altri casi di regioni fortemente autonome in cui gli indipendentisti sono numerosi sono la Scozia (lo Scottish National Party è a capo del governo scozzese) e il Galles.
Non conosco casi di buone autonomie non accompagnate da un forte indipendentismo, e queste tra l'altro riguardano territori il cui confine è evidente sulla carta, quando si tratta di isole è tutto un altro paio di maniche. Là bisogna considerare esempi come Irlanda e Islanda, oppure Malta... per tenersele avrebbero dovuto concedere un'autonomia di gran lunga superiore a quella concessa a regioni come Scozia o Galles.

Mi sono permesso di trasformare in articolo il commento scritto da Daniele Addis, per la cui assiduità di interlocutore di questo blog lo ringrazio, perché egli pone problemi tutt’altro che banali. Forse lo stupirà, ma sono d’accordo con lui nel sostenere che la presenza di forti minoranze indipendentiste rappresentano un insostituibile stimolo ad una buona autonomia e più in generale ad un buon autogoverno. Come, del resto, in ogni campo forti minoranze svolgono la funzione di stimolo alle maggioranze. Di più, caro Addis, io sono in sintonia con una sentenza del Tribunale di Cagliari, pronunciata alla fine di un processo (l’unico che io ricordi) per “fatti di separatismo”. I giudici, che pure condannarono gli imputati per fatti commessi, sostennero che “l’ideale indipendentista è di per sé costituzionalmente lecito e può essere coltivato non solo come manifestazione di pensiero, ma anche a livello di azione politica… La Costituzione già prevede (all’art. 80) la possibilità di variazioni del territorio dello stato, e non si può certo sostenere che la norma riguardi solo modificazioni in aggiunta e non in perdita”. Detto questo, le ricordo che al momento di entrata in vigore della Costituzione italiana, il diritto internazionale era ben povero in materia di diritto dei popoli all’autodeterminazione e che solo dopo quasi trent’anni l’Osce (Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa) si occupò della armonizzazione del diritto dei popoli all’autodeterminazione con quello degli stati all’integrità territoriale. Caro Addis, lei cita correttamente l’articolo IV del trattato uscito da quella conferenza, ma vi trova elementi che, diciamo così, portano acqua al suo mulino. Certo, si tratta di un patto fra stati e di un impegno reciproco a non aggredirsi. Ma c’è qualcosa di più di un richiamo alla non aggressione, c’è il divieto di “qualsiasi azione incompatibile con i fini e i principi dello Statuto delle Nazioni Unite contro l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o l'unità di qualsiasi Stato partecipante”. Compresa, quindi, ogni azione contro l’unità degli stati. E che cosa sarebbe, se non una “azione incompatibile”, il riconoscimento di una entità che rompa integrità e unità? Come dire, sulla base del diritto all’autodeterminazione non è possibile evitare una dichiarazione unilaterale di indipendenza (come nel caso di Cipro Nord), ma gli stati dell’Osce si impegnano a non riconoscerla. Ha senso, ammesso che si voglia far parte dell’Europa, costituirsi in stato la cui esistenza non è riconosciuta? Che cosa comporterebbe, se non un destino di marginalità, di isolamento e di sottosviluppo? Lei potrebbe, con ragione, obiettare che non sempre gli stati dell’Osce sono stati fermi nei principi. Non lo sono stati quando la dissoluzione dell’Unione sovietica e la creazione delle repubbliche baltiche e caucasiche fu presa come ottima occasione per tentare di sconfiggere definitivamente il blocco sovietico. Né lo sono stati con il Kosovo, riconosciuto da molti (non tutti). La Russia non lo è stata con l’Abkazia e con l’Ossezia che pagheranno con l’isolamento e altro il fatto che solo i loro protettori li hanno riconosciute. Ma stiamo parlando nel primo caso di prevalenza della real-politik sui principi e, nel secondo caso, dell’epilogo di un lungo e sanguinoso conflitto, nel terzo di piccole pedine in uno scontro fra giganti. E allora mi chiedo e chiedo a lei, vale la pena di trascinare la Sardegna verso il baratro dell’isolamento internazionale o verso altri gravi rischi? O non è molto meglio lavorare con il massimo di unità possibile alla conquista degli stessi spazi di autogoverno della Catalogna, del Paese basco, del Galles, restando all’interno della Repubblica italiana e dell’Europa. Naturalmente, in questo processo di autogoverno, lo stimolo e l’azione dei movimenti indipendentisti (finalmente uniti?) è più che indispensabile, desiderata. Quanto a me, ma questo è un altro discorso, tengo all’idea di una Italia unita, erede istituzionale del Regno di Sardegna, e non solo perché i miei antenati contribuirono a renderla tale.
Nella foto: un'immagine della guerra in Ossezia

mercoledì 27 maggio 2009

Sarroch: ripensiamo ai subappalti

Tragedie come quella di Sarroch dovrebbero lasciare chi ha responsabilità politiche senza parole che non siano quelle capaci esprimere vicinanza alle famiglie colpite e immenso dolore. Entrambi moti d’animo che sento profondamente, insieme alla rabbia per il fatto che all’alba del terzo Millennio ci sia ancora chi perde la vita lavorando. Ma il silenzio, per rispettoso che sia, non è in grado di rendere onore ai morti né alle famiglie.
Le inchieste che sono state aperte appureranno i fatti e eventuali responsabilità, colpe che non possono, oggi, essere attribuite se non da parte di coloro che ideologicamente sono convinti che il “padrone” sia antropologicamente un assassino. Gentaglia, i portatori di furori ideologici e di certezze apodittiche, insensibile al dolore e sensibile solo ad un remoto beneficio per i propri dogma.
Ma questo è, soprattutto, tempo di riflettere sul metodo dei subappalti e la cessione di parti dei lavori ad aziende più piccole, metodo che costringe queste ultime a tempi e costi di realizzazione dimezzati a scapito della sicurezza e la salute dei lavoratori. Questo è un meccanismo perverso che può portare ad altre tragedie sul lavoro. Lavorare con serietà alla cancellazione delle norme che rendono possibili tragedie come quelle di Sarroch non restituirà ai propri cari né questi morti né le centinaia di altri caduti sul lavoro. Significa, però, avere la capacità di trarre lezioni da quanto succede e, in definitiva, rendere onore ai morti da lavoro.

martedì 26 maggio 2009

Povero Franceschini, ridotto al pettegolezzo

So che non è politicamente corretto per un uomo politico provare sentimenti di pietà per un avversario. Ma non riesco a non provare un senso di profonda pena per il capo del più grande partito dell’opposizione, costretto a racimolare voti con il ricorso a pesanti insulti nei confronti del popolo sardo che avrebbe eletto un lacchè. Se ciò non bastasse, a dare il segno della disperazione pre-elettorale di Dario Franceschini, c’è l’uso che egli fa dei gossip di giornali scandalistici per gettare fango sul capo del governo.
In Sardegna per poche ore, cercando di rendere meno disperata la condizione dei suoi due candidati alle Europee, l’uomo che gode dell’esser definito “moderato” ha dato ieri il peggio di sé prima offendendo gli elettori sardi che appena tre mesi fa avevano eletto il presidente della Regione e poi, come un bambino ancora macchiato di marmellata, cercando di nascondere le mani. Roba da rimpiangere il vecchio Pci.
Dove però ha dato prova del suo funambolismo dialettico è nel dare animo ai suoi due candidati: “Votandoli entrambi la Sardegna potrà avere i suoi rappresentanti”. Come dire: se date i voti necessari all’elezione dell’una e dell’altro, vedrete che saranno eletti. Monsieur De la Palice non avrebbe saputo dire meglio. Franceschini sa, naturalmente, che gli elettori con molta difficoltà assegnano più di due preferenze, una al capolista e uno al candidato preferito. Lo sa, ma mica poteva andarlo a dire ai due candidati in corsa, ovviamente, l’uno contro l’altro.
Forse si è accorto che il Pd in Sardegna, nel tentativo di comporre i gravi dissidi interni, ha commesso un grave errore. Lo sbaglio l’ha fatto quando ha deciso di non decidere e ha candidato due persone a una elezione di per sé difficilissima anche, ma non solo, per via dell’accorpamento della Sardegna con la Sicilia. L’odio viscerale e assai poco “moderato”, condito di improperi autolesionisti e di spazzatura scandalistica, non è se non il tentativo di nascondere la disperazione per un esito elettorale che, evidentemente, sa già scritto. Di qui la mia personale compassione per questo avversario che non riesce a rassegnarsi.

lunedì 25 maggio 2009

Indipendenza no, autodeterminazione sì

Io non sono indipendentista ma sono molto d’accordo con quanto il presidente della Regione ha detto sa Die de sa Sardigna davanti al Parlamento sardo: “il federalismo deve essere foedus, ovvero libero patto fra pari”. Parrebbe una contraddizione, posto che anche io, come Cappellacci, sono per un patto fra pari e oggi, al di là della equiordinamento tra Regione e Stato sancito dall’articolo 114 della Costituzione, la parità non esiste e va, dunque, conquistata.
Ma è una contraddizione solo apparente e, anzi, quanto sostengo è ben detto nell’Atto unico di Helsinki del 1975. “In virtù del principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'autodeterminazione dei popoli, tutti i popoli hanno sempre il diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno, senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale.” Questo articolo del Trattato, sottoscritto da 35 stati fra cui l’Italia, riprende del resto il Patto internazionale dell’Onu sui diritti civili e politici del 1966, sulla base del quale decine di nazioni senza stato nel mondo hanno conquistato la loro indipendenza.
Lo stesso Atto di Helsinki, però, sancisce anche “il diritto di ciascuno Stato … alla integrità territoriale. Questo per dire che il diritto all’autodeterminazione è (può essere) compatibile con la non dissoluzione degli stati esistenti. La compatibilità, come è noto, non è stata possibile in diversi casi: le repubbliche baltiche che si sono rese indipendenti dall’Urss “prigione dei popoli”, quelle balcaniche dalla Croazia alla recente indipendenza del Kosovo, al divorzio consensuale di Cechia e Slovacchia. In quasi tutti questi casi, i processi sono cominciati perché gli stati hanno badato solo alla loro integrità e non al diritto dei popoli a “stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno, senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale”.
Al di là delle questioni di principio ed ideologiche pur rispettabili (il diritto all’autodeterminazione senza se e senza ma), un popolo e le sue classi dirigenti hanno il dovere di ragionare seriamente sia sull’autodeterminazione sia sul loro diritto di esercitare o non esercitare la potestà che la legge internazionale riconosce loro. Di che cosa ha bisogno la Sardegna? Di un’astratta idea di Stato o di una concreta sovranità che consenta ai sardi, come dice il diritto internazionale, di stabilire in piena libertà i poteri e le competenze necessari.
Nessun tabù, dunque, ma un sereno e laico ragionare sui contenuti reali della nostra autodeterminazione.

venerdì 22 maggio 2009

Che bello, se ci fosse un'opposizione

Non solo tutti i cittadini, ma anche una maggioranza ha bisogno di una opposizione come dell’aria. Pare una banalità e lo sarebbe se il governo dello Stato e quello della Sardegna si trovassero a che fare con oppositori che traggono dai fatti la loro severità e, perché no?, durezza. Succede, invece, che in Sardegna, ma non solo qui, che non sono i fatti a ispirare l’opposizione ma i pregiudizi da essa stessa creati a tavolino. È simile ad un autore di favole che si comporti come se i suoi parti fantastici siano per incanto realtà.
Vive dentro un clima di catastrofi da essa annunciate e va all’attacco della maggioranza nella speranza che, nel frattempo, la sciagura avvenga e confermi, così, il suo pregiudizio. È quel che capita sulla questione della o delle centrali nucleari che l’orco cattivo ha deciso di impiantare nei posti più belli dell’Isola. O con la questione della scuola in Sardegna che lo stesso malvagio vuole desertificare di aule e di insegnanti. È quel che capita con il trasferimento del G8 all’Aquila e, quindi, con la decisione del mostro di danneggiare irreparabilmente la Sardegna e la sua economia. La lista dei pregiudizi è lunga assai, lunga almeno come i fatti che li smentiscono.
Come un mediocre giocatore di poker, quando si accorge che l’allarme gettato (sulla continuità territoriale o sulla sospensione dei lavori alla Maddalena, per esempio) è infondato, questa opposizione rilancia la posta, nella speranza che gli elettori apprezzino il suo sprezzo del pericolo. E del ridicolo.
La questione delle opere programmate per il G8 è esemplare. L’opposizione e alcuni suoi corifei mediatici hanno imbastito per giorni una campagna basata su diversi assunti, il più importante dei quali è che il governo italiano avrebbe sospeso il finanziamento delle opere in corso e, ancora peggio, detto ai sardi: “Se le volete, pagatevele”. Il governo ha smentito e ieri il Senato ha approvato un emendamento al decreto sulle provvidenze all’Abruzzo che mette a tacere l’allarmismo di quelli che Ugo Cappellacci ha giustamente definito “grilli parlanti”.
Mi chiedo, con un po’ di ambasce per la sorte di una indispensabile opposizione, quanto a lungo dovrà durare questo suo gridare “al lupo al lupo” e questa sua incapacità di basare la sua azione sui fatti e non sui indimostrati pregiudizi. Anche i suoi elettori, un giorno o l’altro, si stuferanno di correre al grido di allarme per l’arrivo del lupo che non arriva mai.
Quello sarà un giorno tristissimo per la democrazia. È la vita democratica nel suo complesso, non solo la maggioranza, che ha bisogno di stimoli provenienti da un’opposizione che critichi le scelte politiche, economiche, culturali, sociali e che opponga soluzioni diverse a quelle di chi governa. Se così non succede è l’intera società che si isterilisce.

giovedì 21 maggio 2009

Scuola: l'apocalisse non ci sarà. Ora si pensi alla lingua sarda

L’ecatombe di classi e insegnanti, dunque non ci sarà. Secondo quanto riferisce il direttore regionale scolastico, Armando Petrella, in una intervista con La Nuova, il disarmo della scuola pubblica in Sardegna non avverrà. Non patiranno i piccoli centri, in cui ci saranno classi con 15 e anche 10 alunni. Nessuno sarà licenziato e la moria di maestri e professori resterà negli allarmati (e allarmistici) comunicati sindacali e nei titoli dei giornali.
Insomma, tutto sarà come aveva annunciato il ministro della Pubblica istruzione, Gelmini: nessuno resterà senza lavoro, pur nella razionalizzazione del sistema scolastico, imbalsamato dal fatto che il 97 per cento delle risorse va in stipendi. Le cifre della strage in Sardegna erano impressionanti: 1500, 1800, 2000 o addirittura 2200 padri di famiglia destinati alla disoccupazione. Secondo quanto dice il prof. Pietrella, nei suoi ultimi conti, la Cgil ha affermato che in Sardegna gli esuberi sarebbero 57.
Intendiamoci, i sindacati hanno fatto il loro mestiere, mettendo in allerta i sardi sul rischio che si potessero perdere, con la riforma scolastica, posti di lavoro e, di conseguenza, numerosissime classi alle elementari e alle medie. E non escludo a priori che il risultato annunciato dal direttore regionale possa anche essere frutto della protesta sindacale. Ciò che, invece, trovo personalmente sbagliato è l’intolleranza barricadiera di quanti hanno pensato bene si alzare il tono di voce, condendolo con insulti. È come se si temesse che la realtà dei fatti dovesse smentire l’allarmismo e, dunque, fosse necessario provocare reazioni forti.
A settembre, all’inizio dell’anno scolastico, si vedrà se la protesta sindacale aveva fondamento o se si è trattato di un pregiudizio antigovernativo, molto politico e poco sindacale. Si vedrà quale sarà la condizione della scuola sarda, frutto di una oculata e responsabile gestione del denaro pubblico, statale e regionale. Allora, una accorta classe dirigente sindacale in Sardegna avrà la possibilità di dimostrare quale interesse abbia nello sviluppo della scuola in una terra che ha una specificità culturale ed etnica tutta sua.
Se gli insegnanti, quelli sindacalizzati in primo luogo, vorranno accorgersi che la lingua sarda, e insieme ad essa il gallurese, il sassarese, il tabarchino e l’algherese, è un patrimonio da coltivare e sviluppare, la scuola del futuro sarà migliore di quella che ci siamo lasciati alle spalle. Sta soprattutto a loro, insieme a genitori che da parte loro sono pronti, insistere su questa prospettiva futura.

mercoledì 20 maggio 2009

Sulla crisi della chimica, diciamoci la verità

Il presidente della Regione Veneto, Giancarlo Galan, ha preso il coraggio a due mani e ha suonato la sveglia alle classi dirigenti della sua regione: “Bisogna avere il coraggio di dire con onestà che la chimica, a Venezia, è finita”. Naturalmente bisogna assicurare – ha detto – che nessun deve essere lasciato solo davanti a questo ineluttabile declino della chimica. “Politici coraggiosi dovrebbero avere il coraggio di dirlo e di creare fin da oggi le alternative, in modo che le sofferenze siano ridotte il più possibile”.
Immagino che chi coltiva “la solita retorica sul cloro” (sue parole) non sarà contento né d’accordo per una analisi tanto chiara, al più sussurrata negli ambienti che si trovano alle prese con una crisi non solo veneta. Qui in Sardegna, dove la crisi è, se possibile, ancora più grave, si è portati a confondere l’imperativo categorico della difesa ad oltranza dell’occupazione con l’illusione che basti la politica ad aggirare le leggi del mercato.
Al di là della propaganda e dalla demagogia, si può davvero pensare che un governo, per quanto amico sia della Sardegna e dei suoi lavoratori, possa imporre per un lungo periodo all’Eni di far finta che il mercato non conti? La straordinaria unità d’intenti mostrata a Porto Torres da cittadini, istituzioni e forze sociali ha segnalato che non è accettabile lo smantellamento di migliaia di posti di lavoro e l’impoverimento di una intera regione della Sardegna.
Una classe dirigente coraggiosa (politica, imprenditoriale, sindacale, culturale) non può perpetuare nei lavoratori e nelle loro famiglie il convincimento che la Sardegna sia un’isola felice, dove le crisi che si aprono nel mondo non abbiano riflessi. È un’isola felice, ma per altre ragioni. Sta ad essa mostrare quali sono queste ragioni e creare fin da oggi le alternative ad un modello di sviluppo economico arrivato al capolinea.
Nessuno, io non di certo, ha una bacchetta magica capace di trasformare in politiche concrete una necessità avvertita. Ma non credo si possa sfuggire ancora a lungo all’impegno comune di disegnare un futuro per la nostra terra e per la sua economia. Anche nel tavolo di concertazione fra forze sociali e Regione, io credo, le prospettive di un modello di sviluppo alternativo dovranno essere al centro degli sforzi di tutti.
Nella foto: il petrolchimico di Gela

lunedì 18 maggio 2009

Disperato cinismo e timore nucleare

Ricordo un’audizione in Senato di un folto gruppo di medici e, particolarmente, quella di uno di essi il quale sosteneva che la medicina tradizione era da buttare via. L’unica vera, per questo medico che produsse argomenti neppure troppo banali, quella che avrebbe dovuto ispirare la medicina in Italia, era quella tibetana. È una fortuna che queste cose, il medico le abbia dette lontane da una campagna elettorale. Altrimenti, con l’opposizione che ci ritroviamo e con il sistema mediatico che le tiene bordone, oggi saremmo in piena sarabanda: “Berlusconi vuole abolire la medicina tradizionale”. È quello che sta succedendo, in questi giorni, perché uno scienziato ha detto in Commissione al Senato che, a suo parere, la Sardegna era, per la sua a-sismicità, la terra ideale per le centrali nuclerari.
Ripensavo a quella vecchia audizione, in questi giorni di finta battaglia contro il finto bersaglio delle centrali nucleari in Sardegna. In questa battaglia delle indignazioni, c’è chi infioretta timori ambientali con preoccupazioni economiche, e c’è chi, invece, va al sodo della questione: le elezioni europee. Pensa, insomma, a come mettere a profitto, in campagna elettorale, le paure sincere di tante brave persone frastornate da una campagna mediatica inventata a tavolino. Ho letto stamani, su un quotidiano, il resoconto di una manifestazione in Ogliastra organizzata dal centrosinistra contro l’installazione di una centrale alla foce di Riu Mannu, una delle tre che una fantasiosa costruzione mediatica (e politica, ma spesso è la stessa cosa) vorrebbe destinate alla Sardegna.
I rappresentanti delle forze politiche hanno teso, a quel che si legge nell’articolo, a buttarla sul generale, sulla battaglia di principio. A una signora, come voce dal sen fuggita, è scappato il vero senso della manifestazione: “Fermiamo queste iniziative terribili del premier Berlusconi e del centro-destra. Ne abbiamo l’occasione, adesso con le europee”. Viva la sincerità.
Non so se gli organizzatori della manifestazione abbiano avuto, di fronte alla schiettezza della signora, un moto di fastidio perché essa aveva denudato il re o fatto una compiaciuta strizzatina d’occhio perché, tanto, era “una del popolo” a dirlo. Fatto sta che emerge con sempre maggiore chiarezza la strumentalità del “timore nucleare”. Sanno benissimo, nel centro sinistra isolano, che né a Riu Mannu, né a Capo Comino, né a Cirras, né in negli altri luoghi su cui la fantasia si eserciterà fino alle Europee, saranno costruite centrali nucleari. Non foss’altro che per l’impegno assunto dal governo sardo di non fare un’intesa in merito con lo Stato.
Ma che importa: in campagna elettorale, nell’idea che il centrosinistra ne ha, tutto è permesso: anche cavalcare cinicamente un timore che molte persone nutrono, come ultima spiaggia in una disperata corsa europea.

sabato 16 maggio 2009

Unità di popolo per il Petrolchimico e pregiudizi sconfitti

Le drammatiche notizie sulla sorte del Petrolchimico di Porto Torres hanno prodotto un effetto scontato per chi conosce l’animo sardo, un ancestrale rinserrate le fila davanti a un pericolo collettivo. Dai lavoratori minacciati di restare senza lavoro al presidente del governo sardo, dai sindacalisti alla Confindustria, dai sindaci di ogni colore al presidente della Provincia di Sassari viene un’unica voce. È un effetto naturale che è anche una sconfitta per i pregiudizi politici che hanno alimentato le vicende di questi ultimi mesi sia durante la campagna elettorale sia dopo.
Il pregiudizio, per altro infondato, basta leggere la realtà delle cose, è che il centro sinistra sia il luogo geometrico dei difensori del lavoro, dell’ambiente, della cultura e che dall’altra parte stia il male dell’insensibilità e del liberismo senza principi, oltre a quello della dipendenza e della subalternità. È un pregiudizio talmente radicato e tanto capace di fare scuola che, per esempio, un lettore di questo blog, pur non prevenuto nei miei confronti, così commenta il mio deciso impegno a contrastare la remotissima possibilità che una centrale nucleare sbarchi in Sardegna: “Non capisco come mai anche lei onorevole, pare velatamente favorevole ad un eventuale centrale in Sardegna”. Che cosa dire di più se non ribadire per l’ennesima volta che sono contrario al nucleare in Sardegna?
Non sono i valori condivisi della solidarietà, del lavoro, della tutela ambientale, della forza della cultura a distinguere il centrodestra sardo dal centrosinistra. Sono, invece, quelli che fanno perno sul diritto dell’uomo ad autodeterminarsi, sulla sua facoltà di crescere secondo il proprio impegno, sul diritto delle comunità locali a decidere del proprio futuro al di fuori di gabbie ideologiche e accentratrici. E sul rispetto reciproco, al di là delle differenze politiche, culturali e sociali. Ma ci sarà tempo per discutere su questi principi di civiltà e di convivenza.
Quel che importa è, oggi, che la necessità di unione abbia fatto breccia nelle coscienze di quella importante fetta di popolo sardo che si sente direttamente minacciata dalle scelte dell’Eni. Popolo è, secondo i classisti, un concetto ambiguo perché comprende operai e imprenditori (che nella loro ottica sono naturalmente nemici), progressisti e conservatori, borghesi e proletari. Sarà. Ma solo l’unità di popolo, come sempre è accaduto in Sardegna, è capace di vincere le sfide importanti.
Quando si sente dire al presidente di tutti i sardi: “Se c’è da incatenarmi, mi incatenerò con voi”, un ceto politico senza paraocchi si sente più sicuro del fatto che l’obiettivo è a portata di mano. Non mi illudo che così sarà, visto che nuove elezioni sono alle porte, quelle europee. Ma è certo che questa unità deve essere rafforzata. E anche io farò la mia parte: se lo decideranno mi incatenerò con i lavoratori di Porto Torres, con i loro sindacalisti, con i loro amministratori. E con il presidente Cappellacci. Del resto, nella mia lunga attività parlamentare, mi sono diverse volte metaforicamente incatenato a difesa degli interessi dei sardi, anche se quasi mai tutto ciò ha avuto riscontro sui media e, dunque, nella conoscenza degli elettori.

venerdì 15 maggio 2009

Perché sì in Continente e no in Sardegna

Mentre sono stato costretto a cancellare dal mio blog altri due articoli, al solito anonimi, pieni di insulti e di denigrazioni nei confronti di chi non è d’accordo con loro, sono felice di ragionare con chi, come voi, esprime con raziocinio le sue argomentazioni. Non credo che raggiungeremo un accordo, ma spero di dare a voi gli stimoli che date a me.
Non ne sono così certo, ma non ho difficoltà a credere la parola di Marina secondo cui l’ultima centrale negli Usa sia del 1978. Ma vicinissimo a casa nostra, la Francia ne ha costruito anche nel 1999. Lei può pensare seriamente che mentre negli Usa sono preoccupati, e perciò non costruirebbero più centrali, in Francia siano degli sconsiderati? Mi perdoni, ma questo del timore per catastrofi nucleari è argomento assai debole. Anche l’ultimo incidente a una centrale francese si è tradotto nell’invito alla popolazione di non bere l’acqua per un paio di giorni. Né più né meno di come i sindaci di comuni a valle di qualche diga, invitano a non consumare acqua “per usi umani” nei giorni in cui, per dire, più alta è la concentrazione di una particolare alga.
Marina dubita che le centrali “si costruiranno per davvero così come il ponte sullo stretto”. E allora perché protestare, perché sprecare intelligenza e passione contro qualcosa che non si farà?
Il signor Porcu trova una contraddizione fra la mia opposizione alla centrale in Sardegna e il mio sì alle centrali nella Penisola. “Sì, ma non nel mio giardino”, “Not in my back yard”, sarebbe, insomma ciò che mi ispira. Ma non è così. A lui che si dichiara indipendentista, vorrei scherzosamente chiedere, che diritto ha a ingerirsi negli affari di uno “Stato estero”. La questione è però seria e parte, per me che in Senato rappresento la Sardegna ma che sono un parlamentare della Repubblica, dalla considerazione che il tabu nucleare è caduto in larghissimi strati dei cittadini di regioni che vorrebbero l’energia nucleare. E sta lentamente cadendo in mezzo alla totalità dei cittadini.
Secondo un sondaggio di Eurobarometro, i contrari al nucleare in Italia sono passati dal 55% nel 2005 al 45% attuale. Sempre più dei favorevoli, che rappresentano il 43 per cento, ma la tendenza a non allarmarsi è in crescita. Secondo, invece, una ricerca demoscopica della Demos, i risultati sono capovolti: il 47% è favorevole all’energia nucleare e il 44 per cento le è contrario. Interessante è vedere dove si è più favorevoli e dove si è più contrari. Nel Nord-ovest la percentuale dei favorevoli sale al 54 per cento. La stessa percentuale, per altro, che un sondaggio della Confesercenti attribuisce agli italiani favorevoli all’energia nucleare.
Non solo, ma – è notizia di avantieri – il Consiglio regionale della Lombardia ha bocciato la mozione proposta da Rifondazione, Verdi, Pd e Sinistra democratica che chiedeva alla Regione di dichiararsi contraria all’installazione di impianti nucleari sul suo territorio. È nota, del resto, la propensione del Veneto e della Lombardia ad ospitarne uno per regione.
Mi chiedo e chiedo a Porcu: con quale diritto, ammesso che fossi contrario per principio all’energia nucleare, il che non è, potrei dire di no a regioni che, a larga maggioranza, decidono di ospitare una centrale nucleare? Come sempre faccio, per cultura e indole personale, io ho un profondo rispetto delle opinioni altrui, soprattutto se espresse con civiltà. Posso chiedere che con altrettanto rispetto siano accolte le opinioni mie e di chi la pensa come me?
Si potrebbe obiettare: ma la decisione del Parlamento mette a rischio non solo chi è favorevole al nucleare, ma anche chi è contrario. Potrei rispondere che questa è la democrazia: decide chi ha la maggioranza dei consensi. Ma la questione è un'altra: si veda la cartina più sopra, è la mappa delle centrali francesi come l’ha pubblicata La Stampa qualche mese fa. Dalla centrale di Phénix in Francia alle prime coste sarde ci sono 390 chilometri; dal Veneto alla costa est della Sardegna oltre 540. La Sardegna avrebbe da temere più Phénix che una centrale in Veneto o Lombardia e non mi pare sia all'ordine del giorno la richiesta a Parigi di smantellare questa e altre centrali.
Come sardo, l’ho detto e lo ripeto, condivido la decisione del governo Cappellacci di dire no ad una centrale in Sardegna e sono pronto a battermi perché sia rispettata.

giovedì 14 maggio 2009

Nucleare: come vincere una finta battaglia

Leggo nel blog dell’amico Paolo Maninchedda questa affermazione: “Leggete i resoconti dell’approvazione al Senato del disegno di legge 1195. Troverete che ormai anche deputati sardi (on. Massidda) parlano apertamente di nucleare. Provino a farlo in Sardegna. Ieri abbiamo detto in Aula che un attimo dopo dovesse essere presa questa decisione, che ci pare ben avviata a Roma, noi saremmo in piazza e fuori dal governo regionale.”
Credo si sia lasciato trascinare da una vis polemica che, per quanto mi riguarda, è assolutamente fuori luogo: anche io sarei con lui a contestare l’istallazione di una centrale nucleare in Sardegna. Per tre ragioni fondamentali: la prima è che con il partito di Maninchedda abbiamo firmato un accordo che esclude questa eventualità e noi siamo persone serie, rispettiamo gli accordi con gli alleati; la seconda è che il presidente della Regione ha, in modo tassativo, espresso la sua opposizione; la terza è che il nucleare in Sardegna porrebbe tali e tanti problemi di trasporto dell’energia da rendere inattuale la costruzione di una centrale nucleare.
Se avesse letto il mio intervento in Senato, e lo avesse riportato correttamente, si sarebbe accorto che io ho fatto un discorso generale, riguardante l’insieme dello Stato che non può rinunciare all’energia nucleare. Nucleare che necessariamente dovrà essere utilizzato, pur con tutte le precauzioni necessarie, anche e soprattutto di ordine istituzionale, visto che è prevista l’intesa fra lo Stato e le Regioni. La Sardegna è decisa, anche ma non solo per iniziativa del Psd’az, a non dare il consenso.
Nella polemica pretestuosa, montata con cinica determinazione dalla sinistra a da qualche media, l’amico Maninchedda sembra voler cavalcare un cavallo vincente per avere poi la possibilità di annunciare una vittoria senza battaglia. Intanto, sul suo blog, ha cominciato a raccogliere le adesioni degli indignati a prescindere.

Parlamento europeo: ecco perché ce la possiamo fare

Nei miei precedenti articoli sulle imminenti elezioni europee ho scritto (e confermo) che la Sardegna ha serie possibilità di inviare al Parlamento europeo un suo rappresentante. Paradossalmente, ma neppure tanto, è più facile ottenere questo risultato senza la legge che prevedeva lo scorporo della Sardegna dalla Sicilia. Essendo previsto da quella legge che la Sardegna potesse esprimere due candidati per lista, si sarebbe potuto verificare che nessuna lista raggiungesse il quorum che, si sa, è uguale per tutte le circoscrizioni, indipendentemente dalla loro popolazione.
La ipotizzata circoscrizione sarda ha un milione e quattrocento mila con diritto di voto. Con la percentuale delle scorse politiche (73%), i votanti sarebbero stati 978 mila. Con la partecipazione al voto europeo di una percentuale vicina a quella sarda, il 70%, il quorum necessario per la elezione di un deputato sardo sarebbe stato quasi 470 mila: neppure gli elettori del Pdl, che ottenne alle politiche 421 mila voti, sarebbero stati sufficienti di eleggere un deputato europeo. Figurarsi gli altri partiti, il più votato dei quali, il Pd, ottenne 393 mila voti. I due seggi destinati alla Sardegna, insomma, sarebbero andati a regioni continentali o alla Sicilia.
Il fatto è che il conteggio dei voti, e l'assegnazione dei seggi, non avvengono come per il senato, ma come per la camera. Mentre per il senato ogni regione elegge i propri rappresentanti all'interno della stessa regione (9 in Sardegna), alla camera il conteggio avviene su base statale. Per esempio, nel 2006 al Molise spettavano 3 deputati ma ne sono stati eletti soltanto 2 con una perdita secca di un terzo della rappresentanza. Il conteggio su base statale comporta che il quoziente sia unico in tutta Italia, qualunque sia il numero di voti validi nelle diverse zone della penisola, e, conseguentemente è logico che minore è la circoscrizione elettorale e più difficile è ottenere seggi.
Ma allora i sardi possono eleggere qualcuno con la legge ora in vigore? Certo che sì, fosse anche per via del resto più alto, meccanismo possibile proprio perché la Sardegna è insieme alla Sicilia. E, soprattutto, in conseguenza del fatto che gli elettori possono esprimere fino a tre preferenze: si può votare il capolista e, insieme, un candidato sardo. Diventa chiaro, a questo punto, che la maggiore possibilità l’ha chi è il solo sardo candidato nella lista.
Per essere il più chiari possibile, la candidata Maddalena Calia non deve dividere il consenso con nessun altro sardo presente nella lista del Pdl. Teoricamente, avendo anche gli elettori del Pd tre preferenze a disposizione, potrebbero assegnarne una a ciascuno dei suoi candidati sardi e dare lo stesso consenso numerico ad entrambi: poniamo, per stare ai risultati delle politiche del 2008, 393.078 all’una e 393.078 all’altro. Ma i due candidati sono in concorrenza l’uno con l’altra e i reciproci sostenitori sanno che un voto in più o un voto in meno determina la vicinanza ad un possibile ripescaggio con i resti.
Si parla di uomini (e donne): e voi pensate che questa concorrenza non abbia riflessi su chi, magari deciso a votare, di fronte alla lotta per la cattura del consenso, si inquieti e decida di votare solo il capolista, l’ottima signora Borsellino, che già si è impegnata a rappresentare, se eletta, sia la sua Sicilia sia la Sardegna degli altri? Dico se eletta, perché tutto questo ragionamento è fondato su una cosa che, dicono i sondaggi più o meno segreti, è alquanto improbabile: che il Pd conservi i voti delle ultime politiche.
Del resto, se dovessimo riferirci al passato e a un’esperienza personale, se nel 2004 ci fosse stata la possibilità di dare le preferenze come oggi, e se anche solo la metà degli elettori di Forza Italia (quasi 195 mila) avesse voluto esprimere le preferenze, Maddalena Calia ed io avremmo potuto essere eletti. Avremmo avuto più voti dell’on. Musotto, eletto con 84 mila preferenze, e dell’on Castiglione, eletto con 85 mila preferenze. Oggi che, secondo tutte le previsioni, i voti del Pdl saranno molti di più di allora, volendo gli elettori sardi, quelli del Pdl certamente, potrebbero eleggere facilmente Maddalena Calia. È vero che i se non valgono nella costruzione di una storia, ma l’esperienza sì che vale. Insomma: non è vero che con questa legge elettorale, non possiamo mandare un sardo a rappresentarci in Europa.
A questo punto, le domande sono due sole: riteniamo che avere la Sardegna rappresentata in Europa sia un valore aggiunto per la nostra autonomia? o la cosa è indifferente? Perché se la risposta è sì alla prima domanda, la possibilità esiste. Ed è quella che, appunto, offre il Pdl, candidando per la Sardegna la sola Maddalena Calia.
Certo, la legge elettorale europea va cambiata. Basterebbe che alle elezioni europee, una volta scorporata la Sardegna (e perché no? le altre regioni speciali come la Valle d’Aosta) e costituita in circoscrizione unica, il voto avvenisse secondo i criteri usati per la elezione del Senato, su base regionale. Io, per mio conto, ho intenzione di chiedere a tutti i parlamentari sardi, di ogni schieramento, di valutare insieme se sia possibile presentare una proposta di legge in questo senso. Lasciando da parte, la ricerca di responsabilità pregresse.

mercoledì 13 maggio 2009

Risposta ad avversari non fanatici

Cari Europeista, Nicola e Rita Ruggiu,
è legittimo che voi aspiriate all’indipendenza ed è legittimo che io la ritenga dannosa alla Sardegna. Ne potremmo parlare pacatamente uno di questi giorni. Ma questo reciproco rispetto è il minimo indispensabile perché il dialogo continui e si faccia non solo stimolante ma anche utile.
Sono contento, signora Ruggiu, che lei non si senta né sia una fan di qualcuno. Ma difendere chi ha sollecitato moti di disprezzo nei miei confronti o ne ha goduto, non va a suo onore. Vuole che le ricordi alcuni commenti di fan del sig. Addis? “Mi sembri un pastore fonnese: hai dato un bel morso e ora non lasci la presa”, D'ASI FATTU A SALI...”, “Ora l'hai messo per bene con le spalle al muro”, “Hai chiuso una ad una tutte le uscite di sicurezza lasciando aperta all'Onorevole solo l'uscita principale”, “Probabilmente avrà già sguinzagliato il suo pool di consulenti e tirapiedi, e aspetta le loro conclusioni per replicare più seriamente”. Dove “replicare più seriamente”, immagino, stia per “dar ragione a noi”.
Ribadisco la mia critica all’appello ad annullare il voto e quello all’astensione. Ne avrò diritto, senza essere accusato di essere sprezzante e, magari, contrario ai diritti del popolo sardo? Voi ponete, però, ciascuno naturalmente per proprio conto, una serie di questioni che attengono alle elezioni europee e da altro. Europeista parla di elezioni-farsa, affermando che “sono solo una fucina di interessi per partiti centralisti i quali devono parcheggiare dei signori da qualche parte”. Gli andrebbe meglio se fossero “una fucina di interessi per partiti nazionalisti o indipendentisti?”
Mi pare di capire, dal suo soprannome di Europeista, che non sia contrario alla elezione di sardi al Parlamento europeo (lasciamo stare per ora come e con quale legge). Vorrebbe parcheggiare chi? Solo chi supera il suo rigoroso esame su che cosa? Si affiderebbe a quella stramaledetta democrazia che consente la elezione di qualcuno solo con il voto popolare, o comunque manderebbe a Bruxelles (il Parlamento siede anche lì, non solo a Strasburgo), qualcuno che non gode di consenso popolare, ma si dichiara indipendentista? Europeista è contento anche del fatto che i sardisti hanno scelto di “non svergognare ulteriormente il senso del partito solidarizzando con la Calia”. Che finezza.
Pone, invero, un problema serio, quando si chiede “che vantaggi nei rapporti con la comunità europea possiamo avere se non siamo rappresentati?”. Vantaggi ce ne sarebbero, e ce ne sono, comunque, posto che anche la Sardegna ho goduto dell’essere stata nel cosiddetto “Obiettivo 1” e gode di non pochi finanziamenti. Ma non è tanto questo il problema: una soggettività internazionale, piccola o sostanziale, della Sardegna sarebbe cosa ben diversa. Che si può ottenere attraverso un nuovo Statuto fortemente voluto da tutti i sardi, anche da quelli che non ritengono necessaria l’indipendenza. L’elezione di uno o più parlamentari sardi sarebbe un segno che alla Sardegna questa soggettività interessa, anche al di là delle recriminazioni sulla mancata concessione del collegio unico.
Ma come si fa, chiede Nicola, “a votare la rappresentante di uno schieramento politico che rifiuta l'asilo politico a dei disperati che fuggono dalle guerre, muoiono di fame e stenti nei deserti e sulle navi per raggiungere il nostro paese”? Una questione di metodo e una di sostanza. Lei ha mai chiesto a Maddalena Calia che ne pensa del cosiddetto “respingimento” e che cosa, per dire, farebbe al Parlamento europeo? Lei condanna a prescindere, per partito preso.
Ma veniamo alla questione di sostanza, con una domanda. Nella Sardegna indipendente, lei accetterebbe che sulle sue coste sbarchino tutti i dannati della terra in fuga dal mondo dei disperati? Se no, quanti? Uno per sardo residente, due, tre? Un milione e mezzo, tre o cinque? Con la retorica e l’ipocrisia, certo che sì. Ma con realismo no. Ma, dice, sono stati respinti (in acque internazionali, ma questo lo ha rimosso) possibili rifugiati. Questi rifugiati (che comunque potranno far valere il loro eventuale status anche se respinti) è sicuro che si siano trovati in un certo punto della Libia per un loro passaparola, o è pensabile che siano stati intruppati dai mercanti di carne umana che così si guadagnano la loro sporca esistenza?
Da sardo, ho orrore del razzismo e della xenofobia (non saremmo la nazione che siamo se non come risultato un infinito meticciato), e non esiterei un secondo a denunciarlo se queste metastasi dell’animo umano stessero alla base dei “respingimenti”. La mia idea di Europa non è diversa dalla sua, caro Nicola, ma non penso la si possa costruire consentendo ai mercanti di schiavi di sbarcare nel punto a loro più comodo i disperati in fuga, dopo aver fatto loro pagare un salatissimo passaggio in una carretta. Purtroppo, l’Europa, in questo momento, non considera sue frontiere quelle italiane e non resiste alla tentazione di dire: arrangiati.

PS – Scrivo questo post in un intervallo dei lavori del Senato, dove si discute della cosiddetta influenza suina. È noto che è notevolmente sopravalutata, mentre – se ne discute in Senato – sono sottovalutati due fenomeni davvero preoccupanti: l’aumento della tubercolosi che ci trova impreparati e, soprattutto, irrompere di malattie tropicali che, se non proprio disarmati, ci trova sguarniti di difese. Ricordate l’insorgere dei molti oppositori ai controlli sanitari ai confini? Anche quella normale precauzione fu fatta passare per razzismo.

martedì 12 maggio 2009

Perché il Pdl ha scelto un solo candidato sardo alle Europee

L’articolo Parlamento europeo, iRS e il "dispetto alla moglie" ha suscitato e sta suscitando interesse (e critiche) nel forum dell’Irs e in questo stesso blog, dove stanno scrivendo militanti e simpatizzanti del movimento indipendentista. Particolarmente gradevoli gli articoli di Addis e Nicola, per la civiltà con cui espongono le loro tesi e per la perizia con cui lo fanno.
Il loro punto di vista e il mio sono diversi e da qui, evidentemente, discendono tesi discordi, anche se non necessariamente conflittuali. Addis, Nicola e tutti gli altri sostengono che solo con l’indipendenza della Sardegna si potrebbe risolvere anche la questione della partecipazione autonoma dei sardi al Parlamento europeo e qualcuno di loro afferma che solo la statualità garantisce una rappresentanza europea. Cita, non senza fondamento, il fatto che i 400 mila abitanti di Malta, per il solo fatto di essere stato, inviano sei deputati a Bruxelles.
Il mio punto di vista è diverso. Io non ritengo l’indipendenza una parolaccia né qualcosa di cui non si può nemmeno parlare. Penso che la costituzione di un nuovo stato in Europa sarebbe un danno prima di tutto per la Sardegna che ha bisogno, questo sì, di tutta la sovranità necessaria e che potrebbe esserle assicurata da un nuova Carta quale quella elaborata dal “Comitato per lo Statuto” e da me presentata al Senato.
Quanto alle prossime elezioni europee, mi si rimprovera di aver messo in luce solo le responsabilità del senatore diessino Gavino Angius e non quelle del governo italiano che, nel 2004, si oppose alla istituzione del collegio unico per la Sardegna. Il problema qual è, a mio parere? È, in quell’occasione, quello della disunità dei sardi. Mi spiego: il governo di uno Stato nella sua politica deve necessariamente badare a contemperare le esigenze diverse che vengono prospettate; in questo caso dalle regioni. Lo scorporo della Sardegna dalla circoscrizione delle Isole, lo si può capire, aveva forti avversari in Sicilia e avrebbe dato il là ad altre legittime richieste.
Di fronte ad una unità di intenti forte e compatta dei parlamentari sardi, il governo avrebbe in quella occasione insistito nel suo atteggiamento? Non lo so, forse sì o forse no. Fatto sta che con il suo voto, il sen. Angius ha segnalato al governo che la Sardegna era divisa nella sua giusta rivendicazione. Vogliamo dire che ha fornito una occasione in più al governo per “premiare” la compattezza dei siciliani?
Nemmeno la proposta Calderoli di scorporo della Sardegna ci avrebbe garantito la sicura elezione di due rappresentanti. In un prossimo articolo dirò perché. La possibilità di eleggere un rappresentante della Sardegna nel PE, invece, oggi esiste. Ed è legata all’opportunità che l’elettore ha di dare tre preferenze. Naturalmente, requisito fondamentale è che i sardi vadano a votare, coscienti che questa volta possono inviare un loro rappresentante a Bruxelles. L’annullamento del voto ottiene il risultato esattamente opposto a ciò che vorrebbe manifestare: una protesta per l’esclusione dei sardi dal PE. Favorisce, consapevolmente o inconsciamente ha poca importanza, la elezione di candidati non sardi.
Il Pdl ha fatto una scelta doppiamente coraggiosa: ha candidato una sola persona e ha scelto una donna coraggiosa, l’ex sindaco di Lula Maddalena Calia. Fra la prospettiva di raccogliere più voti candidando due o tre persone e quella di offrire ai sardi la possibilità di essere rappresentati, ha scelto quest’ultima. Non voglio indulgere nella polemica, ma il Pd ha scelto la prima prospettiva: raccogliere voti per il partito, non per la Sardegna.
Maddalena Calia non è solo deputato europeo uscente, non è solo una stimata professionista, è anche il primo sindaco di Lula, eletto dopo dieci anni che nel piccolo centro della Baronia gli elettori rifiutavano di avere un sindaco e una amministrazione. Consiglio, a chi volesse capire quale fosse la situazione di Lula nei dieci anni di mancata democrazia consiliare e nei venti che li hanno preceduti, la lettura del lungo saggio di Gianfranco Pintore che apre il volume “Lula. Trent'anni di viaggio per un tempo che esiste, 1972-2002” (Soter, Villanova Monteleone 2005).
Io sono convinto che Maddalena Calia, per la sua storia di donna balente, sia in grado di rappresentare pienamente quel sentimento di sardità che spinge all’unità dei sardi e non alla loro divisione. Se gli amici di Irs e dei movimenti che si richiamano a questi valori volessero mettere da parte, a giugno, la loro idea di purezza ideologica, sono convinto che un pezzo di strada verso la soggettività internazionale della Sardegna potrebbe essere fatto.

sabato 9 maggio 2009

Parlamento europeo, iRS e il "dispetto alla moglie"

di Anonimo (*)

O Massidda, perché non scrivi che è il tuo PDL che non ha fatto la modifica alla Legge che avrebbe scisso il collegio elettorale? Non prendiamo per il culo ancora i Sardi. Se voleste far passare un candidato dovreste concordarlo con la sinistra, propononendo magari un candidato trasversale. Ovviamente lungi da centrodestra e centrosinistra. L'unica alternativa è dire "Cara Europa, vorrei ma non posso" come ha proposto iRS. Un gesto puramente civile.

(*)

Non ho mai preso per il c… i sardi, e lei che mi sembra un buon conoscitore di internet, viaggiando nella rete può verificare con facilità sia questo sia la veridicità di quanto affermo . Temo che sia lei a lasciarsi imbrogliare, magari solo dalla scarsa conoscenza delle cose. Il Governo italiano, come lei dovrebbe sapere, ha fatto di tutto per rimediare agli effetti di un voto, dato in Senato nell’aprile del 2004, dall’allora capogruppo dei Ds Gavino Angius. Con la sua astensione impedì che diventasse legge la proposta del suo compagno di partito, Caddeo, sottoscritta anche da senatori di Forza Italia, An, La Margherita, Ds, Udc.
Se la decisione del Governo di scorporare la Sardegna dalla Sicilia, e di rimediare all’atto del sen. Angius, non è andata a buon porto, lo si deve principalmente al fatto che troppo per le lunghe è andato il dibattito sulla legge elettorale per le Europee e che non c’è stato il tempo per cambiare la circoscrizione Isole. E’ buona norma non cambiare il giuoco, quando esso è cominciato.
Il Pdl ha mirato alla sostanza: candidando un solo sardo nella Circoscrizione Isole, ne ha reso possibile l’elezione. La proposta dell’Irs che lei tanto apprezza (annullare il voto) darà forse visibilità al movimento, ma come quel tale si taglia gli attributi maschili per fare un dispetto alla moglie. Buon godimento. Quanto all’alleanza con la sinistra per rendere sicura l’elezione di un sardo, in un clima normale in cui si privilegino gli interessi della Sardegna, sarebbe un’ottima idea. Ma, come ha dimostrato il Pd candidando due suoi esponenti, solo per racimolare voti nel desiderio di una molto improbabile rivincita, da quelle parti non c’è volontà di affermare le necessità della Sardegna.
C’è solo quel che le dicevo: voglia di raccogliere voti per il Partito. Tant’è che, negli incontri elettorali, il Pd si affretta a dire che la signora Borsellino, ottima persona ma certo non particolare interprete di sardità, in Europa rappresenterà, nell’ordine, la Sicilia e la Sardegna. Mio caro Anonimo temo che, come altri partiti, il movimento che lei stima cerchi solo voti e visibilità e non il bene della Sardegna: messo a scegliere fra un sardo in Europa e stereotipi, si è schierato decisamente dalla parte dei pregiudizi ideologici. A proposito, perché non firma le sue legittime opinioni? Il fatto che io non concordi con lei, non mi fa diminuire il rispetto che ne ho.

giovedì 7 maggio 2009

Un sardo al Parlamento europeo? E' possibile

Abbiamo la possibilità concreta di far rappresentare la Sardegna nel prossimo Parlamento europeo. Naturalmente, per sfruttare questa opportunità, è necessario mettere da parte una certa tentazione a piangerci addosso. E decidere se è una cosa buona che la Sardegna sia rappresentata a Strasburgo e a Bruxelles con almeno un deputato o se è meglio dare un voto al partito del cuore, pur sapendo che questi consensi andranno ad eleggere un siciliano.
Il partito che meglio degli altri ha puntato alla sostanza, alla possibilità di eleggere un sardo, è il Pdl che per la Sardegna ha indicato l’amica Maddalena Calia, deputato uscente, unica candidato sardo. L’altro partito che, teoricamente, avrebbe avuto una qualche chance, il Partito democratico, ha indicato due candidati, con ciò dimostrando che ai suoi dirigenti non interessa la elezione di un sardo, ma solo rastrellare voti per una sorta di rivincita elettorale.
Gran parte dei commentatori e dei politologi ha avvertito, in questi giorni, che il voto europeo rischia di trasformarsi in prova elettorale tutta interna allo Stato italiano e che la funzione del Parlamento europeo sia l’ultima delle preoccupazioni. Un rischio che è presente al Pdl il quale, infatti, ha puntato a rinnovare le sue liste, a mettere insieme l’esperienza di chi in Europa sa come muoversi e la necessità di far crescere una nuova generazione colta, interessata alla battaglia europea. Dall’altra parte, nel centro sinistra, c’è solo un disperato tentativo di frenare la sua marginalità e di raccogliere più voti possibile.
La vicenda sarda è emblematica. A meno che il Pd sardo non creda ai miracoli, è difficile pensare che due candidati sardi riescano a battere quelli siciliani, destinati come sono i due a dividersi i voti. Di qui il sospetto, direi la certezza, che ci sia una corsa a portare il maggior numero di voti possibile al bottino elettorale del partito: la Sardegna può attendere.
Certo, tutto avviene in un quadro legislativo assai sfavorevole alla Sardegna che ha un quarto degli elettori che votano in Sicilia. La sinistra ha perso la memoria delle responsabilità che un suo uomo ha avuto nel bocciare una riforma che oggi avrebbe consentito la creazione di un collegio sardo e tende a gettare le colpe all’attuale maggioranza che si è trovata nella impossibilità di mettere rimedio a quell’errore.
Ma, ripeto, oggi noi sardi abbiamo una concreta opportunità. Anzi, una sola concreta possibilità: quella di concentrare i nostri consensi su Maddalena Calia.

mercoledì 6 maggio 2009

E adesso prima lo Statuto, poi la Statutaria

Non sono fra coloro che gioiscono quando una legge fatta da avversari incontra la bocciatura del Governo e, poi, della Corte costituzionale: si tratta pur sempre di una ferita inferta all’autonomia. Non mi rallegro neppure quando è una pessima legge come la Statutaria approvata dal centro sinistra. Né mi consola il fatto che non solo il centro destra, ma anche spiriti liberi dello schieramento di sinistra avevano chiesto all’ex presidente della Regione di non promulgarla.
Sarebbe stato meglio che l’ex presidente della Regione avesse fatto prevalere, come fu consigliato anche da suoi sostenitori, il buon senso e, in nome proprio dell’autonomia speciale, messo da parte quello spirito di arroganza che spesso lo ha indotto a mettere il rispetto delle regole sullo sfondo della sua concezione illuminista del potere. Il braccio di ferro ingaggiato dal centrosinistra contro le regole, ancor prima che con lo Stato, ha portato alla quasi certa bocciatura della Statutaria (la sentenza sarà conosciuta solo fra qualche giorno). E la bocciatura di una legge del Parlamento sardo rappresenta comunque un vulnus per la nostra autonomia.
Resta il fatto che la Sardegna ha bisogno di una buona legge che, come detta l’articolo 15 del nostro Statuto speciale, “determina la forma di governo della Regione e, specificatamente, le modalità di elezione, sulla base dei principi di rappresentatività e di stabilità, del Consiglio regionale, del Presidente della Regione e dei componenti della Giunta regionale, i rapporti tra gli organi della Regione, la presentazione e l'approvazione della mozione motivata di sfiducia nei confronti del Presidente della Regione, i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con le predette cariche, nonché l'esercizio del diritto di iniziativa legislativa del popolo sardo e la disciplina del referendum regionale abrogativo, propositivo e consultivo”.
Tutti aspetti istituzionali che, però, dovrebbero, a mio parere, derivare da un nuovo Statuto speciale e non precederli. Il fatto che la legge Statutaria sia stata approvata sei anni dopo la norma costituzionale imposta allo Statuto (L.Cost. 31 gennaio 2001, n. 2), sta a significare che non vi sono problemi di urgenza. Un impegno di tutte le forze politiche a elaborare un nuovo Statuto renderebbe possibile una sua approvazione entro questa legislatura. Non è detto che la previsione dell’attuale articolo 15 non possa far parte di una Carta nuova della nostra autonomia, la sola in grado di modificare gli attuali aspetti troppo rigidi, fra i quali, per esempio, lo scioglimento del Parlamento sardo dopo le dimissioni, comunque motivate, del presidente della Regione, la sua malattia o altro grave impedimento.

lunedì 4 maggio 2009

Is Arenas, Sic e apocalisse mancata

Prima, durante e dopo la campagna elettorale, la sinistra e i suoi alleati avevano disegnato uno scenario apocalittico: se vince il centrodestra l’ambiente sarà distrutto e le coste saturate di mattoni e di cemento. Una sciocchezza, naturalmente, cui gli elettori sardi non hanno dato peso e che, però, aveva allarmato tante brave persone, giovani soprattutto, che nell’ambiente vedono i fondamenti del proprio futuro.
Neppure due mesi dopo il suo insediamento, uno dei primi atti del nuovo governo sardo in materia ambientale ripara all’improvvisazione del governo di centro sinistra che, presidente regionale Federico Palomba, firmò un accordo di programma per la costruzione di un complesso turistico ad Is Arenas nel comune di Narbolia. Il complesso insiste in un Sic, Sito di importanza comunitaria, e poco dopo questa firma la Commissione europea avviò una procedura di infrazione contro l’Italia e la Sardegna, ritenendo il progetto suscettibile di impatti rilevanti sul bellissimo ambiente di Is Arenas.
La notizia, sottaciuta dai disegnatori di apocalissi incombenti per la vittoria del centro destra, è che il governo sardo ha approvato, proprio Sa die de sa Sardigna, una delibera che punta ad evitare l’applicazione alla Sardegna delle sanzioni comunitarie, attraverso la modifica del vecchio accordo di programma. E, naturalmente, salva il frutto di importanti investimenti fatti a Is Arenas, in conseguenza dell'accordo fra la Regione e i comuni dell’Oristanese interessati. Come dire che non si possono far pagare agli imprenditori scelte fatte dalla politica.
In questi giorni, il dossier della Regione sarda sarà recapitato alla Commissione europea che dovrà decidere se le misure decise dalla Giunta regionale sono in grado di bloccare la procedura di infrazione che sulla Sardegna pende fin dal 1998, dall’anno successivo, cioè, alla decisione della giunta di centro sinistra.
Resta una considerazione da fare e riguarda proprio i Sic, punta di lancia della politica vincolistica della sinistra anche in Sardegna. Per tutta la passata legislatura, il centro sinistra ha tentato di imporre ai comuni Sic e Zps (Zone a protezione speciale) con l’ingannevole promessa che nessun vincolo ci sarebbe stato per le attività umane. Non pochi comuni, per lo più governati dalla sinistra, hanno applicato le norme, tentando di subornare le comunità.
La più che decennale vicenda di Is Arenas, dichiarata Sic, mostra quanto ingannevoli siano le promesse del centrosinistra che ad un franco dibattito con le comunità ha preferito dare assicurazioni che non era in suo potere dare.