L’on. Pietrino Soddu, sulla Nuova Sardegna di ieri, si è occupato di un problema che, come un fiume carsico, di tanto in tanto affiora per poi scomparire: la sofferenza delle Zone interne della Sardegna. E avanza una proposta di soluzione che può essere così riassunta: “Occorre localizzare nella Sardegna interna alcuni degli elementi costitutivi della società moderna post-fordista, perlomeno quelli disponibili alla manovra strategica del potere politico”.
Come non essere d’accordo? E come non essere d’accordo con una delle sua proposte operative? Quella secondo cui è necessaria “la creazione di una Agenzia per lo sviluppo delle zone interne dotata di personale, di risorse straordinarie, di procedure semplificate (ad esempio come quelle del G8) e di poteri sostitutivi in carenza di iniziativa delle autorità amministrative ordinarie”.
Ce ne sarebbero anche altre, come la creazione di zone franche. Ma capisco l’imbarazzo dell’on. Soddu, visto che l’amministrazione Soru ha fatto trascorrere tutta la sua legislatura senza delimitare le zone franche come, pure, avrebbe potuto fare, autorizzato dalla legge. Credo avrebbe provato un qualche disagio nel rispondere ad una domanda: “Perché durante il governo Soru non è stato fatto alcunché?”
Ma resta, al di là di ciò, la sensazione che gli sia difficile sottrarsi ad una malattia, quella dell’economicismo, che pure in tempi passati aveva individuato come pecca nel modo di pensare e di agire delle classi dirigenti sarde ai tempi della Rinascita e non solo allora. Non c’è dubbio che i pericoli stiano, per i paesi delle Zone interne, nel differenziale di sviluppo economico fra la Città e la Campagna, fra, appunto, le Terre dell’interno e quelle delle coste. Ma non basta questo a spiegare la fuga dai paesi e dai villaggi verso i poli considerati centro di possibile benessere. Come un cane che si morde la coda, i servizi fuggono dai centri troppo deboli per poter ospitare servizi. Un fenomeno che non riguarda solo la Sardegna, ma quasi tremila paesi e villaggi in tutta la Repubblica.
Dove questi problemi non si pongono o si pongono in maniera meno drammatica? Capita nelle regioni, come la Valle d’Aosta e il Sud Tirolo, dove l’autonomia è più forte e dove il regime di bilinguismo garantisce ai cittadini bilingue una protezione rafforzata del loro diritto ad abitare nei piccoli o piccolissimi centri. Lì è improponibile l’apertura di un libro mastro che regoli la vita dei cittadini secondo il dare e l’avere, dove, fuori di metafora, per esempio l’istruzione pubblica non è soggetta a criteri validi in realtà non bilingui.
Mi sono già occupato in questo blog della notizia secondo cui in Valle d’Aosta crescono gli impieghi di maestri nelle scuole elementari mentre altrove diminuiscono. Ciò che fa la differenza fra i maestri valdostani (e la complessiva società della Vale d’Aosta) e gli insegnanti sardi (e la nostra società) è, appunto, la consapevolezza che ad uno status di bilinguismo reale deve corrispondere uno status legale di bilinguismo.
So benissimo che una buona soluzione di questo problema non comporta di per sé l’arresto dei processi di spopolamento e di degrado. Ma so che la conservazione di scuole nei piccoli centri sarebbe un importante segnale di attenzione che alimenta, insieme a misure economiche che da sole non bastano, la speranza che ci sarà un futuro per i paesi altrimenti condannati.
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