martedì 26 gennaio 2010

Perché Craxi no e Togliatti, Bogino e Bixio sì?

La questione se intitolare una via o una piazza a Bettino Craxi sbarca nella mia città, Cagliari, per merito di un consigliere regionale socialista, Mondo Perra. Sarà un modo di discutere, fra cagliaritani e sardi in genere, di un insieme di problemi: che cosa sia uno statista, che riflessi abbia avuto in città e nell'intera Sardegna la soluzione giudiziaria di questioni prettamente politiche, che cosa sia rimasto qui da noi dello scontro fra giustizialisti e garantisti e altro ancora.
Fra le prime reazioni alla proposta, credo la più condivisibile sia quella dello storico Francesco Cesare Casula: “Sono favorevole, faccio lo storico e non il moralista. A me compete dire se quella di Craxi sia stata una figura meritevole di essere ricordata. Credo che, a questo proposito, non ci possano essere dubbi. E poi sono contrario alla dannatio memoriae”. Se tutti avessimo la capacità di mettere in sottordine le passioni politiche e le pulsioni ideologiche, non ho dubbi che l'impostazione data al problema da Casula sarebbe la più logica. E mi auguro che i miei concittadini, dai rappresentanti ai rappresentati, seguano nel dibattere quella indicazione.
Se si dovesse seguire la logica dei giustizialisti, e non un complessivo giudizio storico, quante vie dovrebbero essere “sbattezzate” e intitolate diversamente? A Elmas esiste una via Bogino, considerato dagli storici un riformatore ma entrato nell'immaginario collettivo dei sardi come crudele impiccatore sia di malviventi sia dei povera gente. E Carlo Felice fu lo statista che gli storici riconoscono essere stato o quel “Carlo feroce” che è rimasto nella memoria dei sardi? E ancora, può Cagliari intitolare uno dei suoi viali più importanti a Cristoforo Colombo, scopritore è vero dell'America, ma anche feroce sterminatore dei nativi di Hispaniola? E Nino Bixio può meritare una via, sapendo della strage che compì fra i contadini di Bronte?
Altrove, a San Sperate come a Maracalagonis, Selargius e in altri paesi della Provincia, vie sono state dedicate a Palmiro Togliatti, sicuramente uno statista, ma anche sicuramente ricettore di finanziamenti da parte di uno stato straniero come l'Unione sovietica
Come si può notare, non cito solo personaggi dalla dubbia moralità pubblica, pur essendo riconosciute persone degne di essere ricordate: sto citando personaggi che si sono macchiati di assassinii. Nel ricordarli come statisti, condottieri, uomini politici, nessuno storico tace dei loro misfatti, ma, nell'indicarli alle commissioni per la toponomastica, non vestono i panni dei moralisti o dei giudici: vestono quelli di chi è chiamato a dare un giudizio complessivo, storico appunto.
Quello su Craxi dovrà essere proprio questo: un giudizio complessivo. Da questo e solo da questo deriva (o non deriva) la caratura di statista meritevole di una piazza o di una via. Tutto il resto è una paccottiglia ideologica.

domenica 24 gennaio 2010

Sos furrighesos di Anela: la risposta del ministro Bondi

Il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha risposto ieri alla mia interrogazione sullo scempio commesso da ignoti nella necropoli di Sos Furrighesos di Anela. Come si leggerà, dall'esame dei documenti in possesso del Ministero risulta essere giusto quel che un lettore aveva segnalato e che, cioè, i danni allo straordinario sito archeologico risalgono agli anni Settanta. Ma la risposta, che si può leggere integralmente qui sotto, da conto anche di quanto importante sia stata la segnalazione fatta al governo. Dopo di essa, il Nucleo dei carabinieri tutela beni culturali ha iniziato le indagini per recuperare i reperti trafugati, si sta per concludere l'espoprio dell'area in cui è la bellissima necropoli e la Soprintendenza insieme al Comune di Anela stanno predisponendo un progetto per la conservazione e il restauro del sito archeologico.
Questa la risposta scritta del ministro Bondi:
Con riferimento all' interrogazione in oggetto, si osserva quanto segue.
Dall'esame degli atti d'ufficio, nonche dal sopralluogo effettuato dai Carabinieri del Nucleo Tutela Beni Culturali della Sardegna lo scorso 11 novembre, è emerso che i danni registrati nella necropoli di Sos Furrighesos denunciati dal "Gruppo ricerche Sardegna", cui fa riferimento il Senatore interrogante, non sono recenti, ma risalgono con certezza in epoca anteriore al 1970.
Tale circostanza, infatti, è desumibile sia dalla relazione allegata al decreto ministeriale 24 novembre 1971 di vincolo della necropoli, sia dalle varie pubblicazioni scientifiche quali ad esempio il "Notiziario" della rivista di Scienze Preistoriche e in un articolo pubblicato il 28 ottobre 1970 nel quotidiano "La Nuova Sardegna".
In particolare, quest'ultimo articolo recita testualmente che "...assieme a numerosi graffiti anneriti dal fumo originato dalla accensione di fuochi da parte di pastori si trovano certi referti, anzi si trovavano... in quanto qualche anno fa i soliti amatori di antichità hanno tentato di asportare, ritagliandola a colpi di scalpello, la sezione di roccia nella quale erano le incisioni, frantumandole purtroppo e rovinandole definitivamente". Si rassicura, comunque, il Senatore interrogante che a seguito della segnalazione da parte del "Gruppo ricerca Sardegna", i Carabinieri del Nucleo tutela beni culturali della Sardegna hanno iniziato tempestivamente delle indagini, tutt'ora in corso, proprio al fine di recuperare i reperti trafugati.
Quanto ai provvedimenti che si intende porre in essere al fine di preservare il patrimonio culturale della Sardegna, si fa presente che di recente è stato avviato in collaborazione con la Regione autonoma della Sardegna un progetto volto a far fronte alle molte emergenze archeologiche esistenti nelle province di Sassari e Nuoro.
In particolare, per la Necropoli di Anela si sta concludendo l'esproprio per la valorizzazione del sito da parte del Comune interessato, che ha collaborato con la Soprintendenza archeologica della Sardegna, alla predisposizione di un progetto di prossima attuazione, relativo alla conservazione ed al restauro del complesso ipogeico di Sos Furrighesos.

sabato 23 gennaio 2010

Ecco perché sono disponibile a candidarmi alla Provincia di Cagliari

“È giunto il momento di chiamare a raccolta le migliori esperienze e capacità dell’Isola, accantonando interessi di parte e ambizioni personali. Una grave crisi, come quella che stiamo attraversando, non può che essere affrontata con scelte coraggiose e con un impegno diretto anche a costo di perdere rendite di posizione”.
È quanto ho detto ieri intervenendo al congresso dell’Ugl, dicendomi disponibile a impegnarmi in prima persona alle prossime consultazioni per il rinnovo della Provincia di Cagliari.
La crisi economica – ho spiegato - stravolge tutto e ci impone quindi delle scelte. Ci troviamo di fronte al bivio: subire gli eventi, portando però la situazione verso il baratro oppure guardare alla crisi come a un’occasione per ridisegnare tutti assieme il futuro economico e occupazionale della Sardegna. Questa azione deve essere portata avanti con l’impegno di tutti, istituzioni, lavoratori, categorie professionali, parti sociali e con un’ampia convergenza della forze politiche. Penso, inoltre, al grande patrimonio di esperienze dei sardi che vivono e lavorano in Italia e all’estero, al loro contributo determinante in questa azione di rilancio dell’economia del territorio.
Proprio la provincia di Cagliari, per il ruolo che ricopre anche a livello regionale e per le emergenze e le situazioni di disagio presenti, ha urgente necessità di essere governata con esperienza e competenza.
Sono consapevole delle responsabilità da affrontare e coerentemente a ciò che chiedo agli altri, ho dato la mia disponibilità a governare questo processo. Non mancherò di spiegare le ragioni della mia scelta anche in questo mio spazio agli amici che seguono i miei interventi.

venerdì 22 gennaio 2010

Una legge che rende più giusta la giustizia

La legge cosiddetta del processo breve, che ho votato con convinzione avantieri al Senato, è una misura di civiltà, ma non mi permetterei mai di pensare e dire che tutta l'opposizione, che la ha avversata, sia favorevole all'inciviltà. In alcuni settori c'è anche questo, ma la gran parte dell'opposizione ha fatto il suo dovere: opporsi ai provvedimenti proposti dalla maggioranza. Si dice: siamo d'accordo per modernizzare la giustizia e per attuare la Costituzione in materia, ma questa legge serve al presidente del Consiglio il quale – ha riconosciuto l'Udc – è vittima di un accanimento giudiziario. Questa legge non è ad essere ad personam, evita che ce ne siano contra personam.
Bene, se anche, quando sarà aprovata definitivamente, dovesse servire solo a far cessare l'accanimento di cui parla l'Udc, sarebbe una buona legge. Non esiste al mondo una situazione del genere, per cui un capo di governo sia costantemente costretto a scegliere fra il difendersi in una mole impressionante di procedimenti e il governare. In cui basta la parola di un pentito pluriomicida a trascinarlo in un tritacarne mediatico dagli effetti devastanti per l'immagine dello Stato che governa. Una politica non infetta dall'antiberlusconismo avrebbe da tempo affrontato e risolto unitariamente questa grave anomalia.
Ma la legge che, ripeto, ho con convinzione votato, non è questo. E a dimostrare l'urgenza che la Repubblica si doti di una legge che limiti a un tempo ragionavole la durata dei processi, non ci sono solo i casi eclatanti degli amministratori di Subiaco (20 anni di attesa per ottenere giustizia) e del parlamentare Calogero Mannino (18 anni di traversie giudiziarie prima di essere riconosciuto innocente). Ci sono anche le storie di “gente normale” come quel Simone Locci, 38 anni, di Orroli, che ha aspettato 14 anni prima che il procuratore generale del Tribunale di Cagliari chiedesse la sua assoluzione. Aveva 24 anni quando fu accusato di essere uno spacciatore, ne ha 38 quando i magistrati riconoscono di averlo accusato ingiustamente.
Sono vicende come questa, purtroppo frequenti, che hanno spinto il governo ad attuare l'articolo 111 della Costituzione che, in materia di processi, sancisce: “La legge ne assicura la ragionevole durata”. Né i venti per gli amministatori di Subiaco, né i 18 per Calogero Mannino, né i 14 per Simone Locci sono una “ragionevole durata”. Sono troppi anche gli oltre sei anni previsti dalla legge, altro che “processo breve”, ma si è dovuto fare i conti con lo stato della giustizia in Italia, quella giustizia che il governo vuole riformare.
Certo, non tutto è risolto da questa legge, ma non è un caso se si è voluto cominciare dal cuore del problema: il diritto dei cittadini a una giustizia se non rapidissima almeno dai tempi ragionevoli. In gioco c'è niente di meno che la libertà personale degli individui. Per la lentezza dei giudizi, qualche colpevole sfuggirà alla pena? Spero e credo di no, ma può darsi. E però io resto dell'idea che è sempre meglio un colpevole libero che un innocente in galera o, anche, un innocente sulla graticola per anni e anni. Il resto è giustizialismo e non appartiene alla mia cultura politica.

giovedì 21 gennaio 2010

I centanni dimenticati di Ennio Porrino

Cento anni fa nasceva a Cagliari Ennio Porrino che non solo è il più grande compositore sardo ma è uno dei più importanti della sua epoca. La sua opera “Sardegna” - ha scritto il grande Leopold Stokowski che la diresse a New York - “è una grande musica e nello stesso tempo un'intensa espressione del sentimento della vera Sardegna”. Da noi rischia di essere solo l'autore della sigla del vecchio “Gazzetino sardo”. La solita storia del “nessuno è profeta in patria”? Forse, ma c'è di peggio: c'è la solita storia dell'inguaribile provincialismo della cultura sarda, troppo a lungo egemonizzata dal “cosmopolitismo” di sinistra.
Del resto, questa negazione di rilievo a ciò che nasce nella nostra Terra non è fenomeno sconosciuto. Lo straordinario “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta rimase a lungo sconosciuto, almeno fino a quando ad accorgersi del capolavoro sattiano non fu il critico letterario di un importante settimanale italiano. Dal giorno dopo, il romanzo entrò nel mondo dei “cosmopoliti” di casa nostra. Paragonato a Bela Bartok, elogiato dal musicologo tedesco Karlinger, oltre che dai direttori di orchestra che diressero “Sardegna”, “I Shardana”, “Il processo di Cristo” e altre composizioni, Ennio Porrino – ricorda lo studioso Giovanni Masala – ricevette in vita poche critiche negative per lo più ideologiche per le scelte politiche del compositore sardo. «I Shardana pare aver imboccato la strada giusta per diventare l’opera nazionale sarda per eccellenza» scrisse il musicologo tedesco. Ahimè, no.
Se il “cosmopolitismo” di sinistra non lo calcolò, anche noi che provinciali non siamo e che di sinistra non siamo non abbiamo avuto la capacità di valorizzare questo grande figlio della Sardegna. A febbraio sarà eseguita a Cagliari l'opera “I Shardana”, ma solo in forma concertistica, quasi non valesse la pena di rappresentare l'opera come all'estero si è fatto. Mi sembra che sia poco, troppo poco.

Nella foto: Ennio Porrino

mercoledì 20 gennaio 2010

Però il nuovo Statuto non è solo economia e geografia

Condivido l'idea dei sindacati che lo status di insularità della Sardegna debba avere rilievo costituzionale. Del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che sull'insularità mi batto da quando ho cominciato a fare il parlamentare. L'inserimento dell'insularità nel nuovo Statuto, e quindi nella Costituzione repubblicana, mette infatti i suoi effetti economici al riparo da possibili interventi dell'Unione europea, la cui azione è a volte avvitata su questioni burocratiche e formali che impediscono, come nel caso della fideiussione della Sfirs, una celere risoluzione di problemi sostanziali. Penso, per dire, alla salvezza di aziende in grave crisi.
Attenti, però, a ridurre la specialità della Sardegna a questioni geografiche o di gap di sviluppo, come pare significare un altra richiesta dei sindacati, quella di un nuovo “Piano di Rinascita”, come prevede l'articolo 13 dello Statuto attuale. Se si tratta di un modo di dire, se, voglio dire, si chiede allo Stato che garantisca “alla Regione autonoma, perché le amministri, le risorse necessarie al suo benessere economico, sociale e culturale”, non si può non essere d'accordo. Nella proposta di Nuovo Statuto (che, come ho ricordato nell'incontro fra i parlamentari sardi e il sindacato, ho presentato in Senato), è scritto, infatti: “La Repubblica riconosce le cause storiche, economiche e politiche della disuguaglianza fra la Sardegna e il complesso delle regioni continentali e garantisce alla Regione autonoma, perché le amministri, le risorse necessarie al suo benessere economico, sociale e culturale”.
Ma, se come temo, nella richiesta dei sindacati c'è la conservazione dell'art. 13 dell'attuale Statuto, si va ben oltre il mantenimento di un articolo, si conferma che “lo Stato col concorso della Regione” predisponga un piano economico e sociale. Continua, cioè, ad essere lo Stato a intervenire sull'economia sarda, sia pure con il concorso della Regione, e, in sostanza, a decidere come e dove i finanziamenti devono andare. Non mi pare, francamente, un passo in avanti verso quello statuto di autogoverno di cui la Sardegna ha bisogno.
Garantire le risorse necessarie non può continuare a significare solo trasferimenti di quattrini, ma soprattutto, come prevede la proposta del Comitato per lo Statuto che io ho fatto mia, garantire alla Sardegna la capacità e titolarità della riscossione di imposte, tasse e tributi, una cui parte vada allo Stato per l'adempimento dei suoi compiti nelle materie di propria competenza. Ho diverse volte sottolineato il mio compiacimento per la svolta del sindacato sardo nel definire prioritaria la riscrittura dello Statuto. Ma riscrittura, oggi, non può significare piccoli aggiustamenti o perifrasi di una Carta invecchiata e inefficace anche, se non soprattutto, per l'ispirazione economicista di chi sessanta anni fa considerò la specialità della Sardegna un semplice problema di mancato sviluppo.

martedì 19 gennaio 2010

La civiltà politica di Napolitano e l'altrui barbarie

Un lettore del mio blog, in evidente disaccordo con quanto ho scritto sull'accanimento contro Bettino Craxi, manda, a mo' di commento, il video di un rumoroso deretano parlante che prende il posto di un commentatore televisivo. Lascio a voi un giudizio sulla raffinatezza delle argomentazioni e sul fatto se dare ad uno della “faccia di c...” sia davvero libertà di stampa.
Certo, leggermente più consono è il commento del dipietrista De Magistris al messaggio del presidente della Repubblica alla vedova di Craxi, un monumento alla civiltà politica che ha ricevuto da quell'ex magistrato un commento lapidario: la lettera di Napolitano è “uno sfregio alla storia”. Siamo, insomma, ancora una volta di fronte non al giudizio politico ma all'accanimento barbaro contro il nemico che, neppure dopo morto, merita una articolata considerazione politica. Gente così non fa prigionieri, è per quella che nell'Ottocento si chiamava “giustizia economica”. Dio ci scampi da tanta barbarie.
Questi giustizialisti, va da sé, sono anche garantisti, quando ad essere toccato è uno del proprio club giacobino. Le voci malevole che girano da qualche giorno sul giustizialista principe (e che io, da garantista sempre e con tutti, ritengo poco più di gossip) sono per essi naturalmente infamie che fanno parte di un gioco politico. Anche gli alleati di Di Pietro, i pd, sentono profondo imbarazzo nell'assecondare la levata di scudi contro tali voci malevole. E stanno zitti, ricordando, forse con un po' di pudore, le campagne mediatiche e politiche contro il presidente del Consiglio fondate su pettegolezzi, gossip, informazioni false.
Ma forse non è solo imbarazzo, forse c'è una consapevolezza che prima di giudicare qualcuno colpevole, bisogna aspettare che sia la magistratura attraverso tre gradi di giudizio a dirlo. Se una volta bastava un avviso di garanzia contro un avversario per chiederne le dimissioni, ora non più. Forse perché quel che sembrava colpire solo i nemici, può colpire anche gli amici. “Una persona che riceve un avviso di garanzia continua a essere innocente” è il commento del sindaco di Sassari, destinatario di un tale avviso, come ha appreso prima dai giornali che dalla Procura. Come non essere d'accordo con Gianfranco Ganau?
Certo, quella giustissima considerazione avrebbe avuto ancora più valore se negli ambienti del suo partito se ne fosse stata fatta uso anche nei confronti degli avversari. Ma forse siamo sulla strada giusta.

lunedì 18 gennaio 2010

Quelle 59 procure dimezzate e l'agitazione dei magistrati

È del tutto legittimo che un sindacato abbia il diritto di difendere i propri iscritti e la propria categoria. Ed è persino comprensibile che, in questa difesa, si alzino i toni, si faccia ricorso a iperboli e si enfatizzi “lo scontro”. Ma ci sono categorie e categorie e sinceramente non riesco ad associare quella dei magistrati alla categoria dei lavoratori dell'Alcoa o dei metalmeccanici di Termini Imerese a rischio del posto di lavoro. Non solo perché il dramma della perdita del lavoro non è equiparabile al disagio che qualcuno può trovare nell'essere trasferito da una città all'altra.
La mobilitazione dell'associazione magistrati, che minaccia lo sciopero contro il decreto del ministro Alfano sul trasferimento d'ufficio di pm nelle sedi deserte in cui nessun pm vorrebbe andare, è decisamente sopra le righe. I lettori di questo blog sanno di che si tratta, ma vale la pena ricordarlo. Ci sono nel territorio della Repubblica 59 procure in cui mancano complessivamente 190 pubblici ministeri e i bandi del Consiglio superiore della magistratura vanno costantemente deserti. E c'è una norma di legge ( fatta del centrosinistra, non dal centrodestra) che inibisce ai magistrati di prima nomina di ricoprire le sedi vacanti.
Fossi un irresponsabile, potrei limitarmi a cavalcare la protesta dell'Anm, additando il governo Prodi come responsabile del grande disordine. Ma non lo sono e condivido le preoccupazioni del legislatore: un pubblico ministero di prima nomina non può avere le competenze e le conoscenze necessarie per svolgere uno dei compiti più delicati che una persona ha: quello di decidere sulla vita di un proprio simile. A volte, come dimostrano i casi di cui ho recentemente parlato ed altri ancora più drammatici, queste competenze e conoscenze non le hanno neppure pm più anziani, figurarsi un giovane alla prima uscita.
C'è, in più, una considerazione fondamentale: i magistrati sono tenuti ad applicare la legge, non a modificarle. Come tutti i cittadini, anche essi hanno il diritto di criticare le leggi e di cercare di modificarle. Ma questo compito spetta al Parlamento, non a una categoria, quella tutela dal sindacato dei magistrati che così agendo sembra volersi costituire in casta. Minacciare uno sciopero contro un provvedimento che in quattro anni tende a risolvere una grave questione di libertà e di democrazia sfiora l'atto eversivo. E che la situazione delle 59 procure semi deserte sia davvero grave lo dimostra lo sciopero degli avvocati di Nuoro, in agitazione perché il 67% dei posti in Procura è scoperto. Ma non è il solo caso: a Enna sono scoperti il 100% dei posti, a Crotone l'83%, a Gela l'80%, a Vigevano il 75%, e così via, per un totale, dicevo, di 59 sedi e di 190 posti di pm.
Certo, so benissimo che un conto è essere magistrato a Milano o a Roma e un conto è esserlo a Nuoro, a Locri o a Paola. Ma a noi tutti è stato insegnato che quella di un magistrato assomiglia più ad una missione delicatissima che ad un posto di impiegato o di funzionario o di medico. Questi, secondo le necessità, possono essere spostati, con tutti i disagi che possiamo comprendere, ma anche con l'acquisto di nuove conoscenze, professionalità e umanità. Perché un magistrato no?

domenica 17 gennaio 2010

Ma che libertà è inneggiare alla mafia in Internet?

È arrivato anche a me, insieme credo a migliaia di altre persone, il grido di dolore dell'Anonima indignati permanenti per lo tsunami che il centrodestra e parte dell'opposizione stanno per abbattere sulla libertà di stampa. Un grido da ultima spieggia: “Fate girare il più possibile, almeno finchè non ci bloccano anche la posta elettronica”. E, siccome l'allarme è ancora poco, ecco ancora: “Il potere si sta dotando delle armi necessarie per bloccare in Italia tutti i blog che al momento rappresentano in Italia l'unica informazione non condizionata e/o censurata”.
Dio mio, che cosa è successo per far scattare in piedi l'Anonima indignati? È successo - “informa” l'Anonima – che il Senato, nell'approvare il Disegno di legge 733 (il cosiddetto pacchetto sicurezza), ha anche approvato un emendamento del senatore Gianpiero D'Alia (UDC): “Repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”.
Il senatore Gianpiero D'Alia” dice il messaggio “non fa parte della maggioranza al Governo e ciò la dice lunga sulla trasversalità del disegno liberticida della "Casta". In pratica in base a questo emendamento se un qualunque cittadino dovesse invitare attraverso un blog a disobbedire (o a criticare?) ad una legge che ritiene ingiusta, i “providers” dovranno bloccare il blog”.
Come tutti sappiamo, l'istigazione a disubbidire alle leggi e l'apologia di reato sono sanzionati dalla legge. Ci mancherebbe altro che uno Stato, qualsiasi stato, sia retto dalla sinistra o dalla destra, consentisse impunemente che qualcuno inciti gli altri cittadini a violare le leggi o che qualcun altro, impunemente faccia l'apologia di un reato. Le norme che impediscono ciò già esistono nel codice penale, ma fra gli strumenti con cui si compiono quei reati non era, fino ad ora, compresa l'Internet, per il semplice motivo che, quando si pensò di sanzionare quei gravi reati, di Rete neppure si parlava.
La stampa già non poteva impunemente invitare i suoi lettori a disubbidire alle leggi né poteva impunemente inneggiare a chi ha commesso un reato. L'Internet è stata ed è luogo di grandi sacrosante libertà, consente a sterminate quantità di persone di avere una voce che prima non aveva e nessuno, tranne che nei regimi comunisti e nelle satrapie orientali, pensa di poter limitare questa libertà. Ma la Rete è anche luogo di scorribande che con la libertà di espressione hanno niente a che fare e che invece l'Anonima indignati vorrebbe perpetuare. È il luogo in cui si inneggia alla Mafia, si fa del razzismo senza pudore (“Utilizziamo i sardi come cavie”, ad esempio), si fa allegramente invito a costruire bombe carta e molotov, si invita con altrettanta spensieratezza ad usare pallotole per uccidere il nemico, si diffama e si infama qualsiasi avversario, politico o sportivo o anche solo personale.
La prima libertà, quella delle opinioni e delle informazioni, è sacra e certo non mi tirerei indietro se mai si dovesse difenderla. La seconda, quella che pare piacere all'Anonima indignati, è solo arbitrio e barbarie che devono essere repressi con decisione.

venerdì 15 gennaio 2010

Quell'odio incredibile e patologico contro Craxi

Trovo che ha dell'incredibile e del patologico l'odio che gli ambienti giustizialisti (a volte schiettamente forcaioli) nutrono contro Bettino Craxi anni dopo la sua morte. Non si sentono neppure toccati dalle notizie di questi giorni sull'assoluzione di esseri umani stritolati dalla mala giustizia. L'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, sbattuto in galera per un ingiusto sospetto di corruzione, e ora assolto dopo anni; sei amministratori di Subiaco, sospettati e incarcerati per una storia di tangenti, liberati da ogni sospetto e assolti dopo venti anni; il parlamentare Calogero Mannino, accusato di concorso esterno alla mafia e assolto ieri dopo diciassette anni di calvari giudiziari.
Consiglierei a tutti, per non essere sospettato di difesa di casta, di leggere la vicenda degli amministratori di Subiaco, sindaci e assessori di un paesone di 9.000 abitanti, non tanto quelle degli altri due personaggi politici famosi cui, comunque, sono stati tolti pezzi di vita che, comunque, sono stati additati al pubblico disprezzo sulla base di teoremi non dimostrati. Questo significa, naturalmente, come si dice con espressione enfatica ma condivisibile, che la giustizia ha trionfato. Certo, ma a costo di quante sofferenze di persone innocenti. E significa anche che uno Stato moderno non può permettersi costi sociali così alti. Vent'anni sono un tempo mostruosamente lungo per chi aspetta, sapendosi innocente, che questa innocenza sia riconosciuta.
Qualcuno potrebbe obiettare come sia improprio accostare gli amministratori di Subiaco, Del Turco e Mannino (per stare all'oggi) allo statista socialista. I primi sono stati assolti, il secondo condannato con sentenza definitiva. Il che è storicamente vero. Ma ci sono un paio di considerazioni che rendono la questione assai meno limpida di quel che le vicende storiche ci hanno tramandato.
La prima la fece lo stesso Craxi in una intervista che solo ieri ho visto: È impossibile difendersi quando si è in balia a un clan di magistrati e a un clan di giornalisti. La seconda è che, curiosamente, gli ambienti giustizialisti di cui dicevo non hanno perso occasione, in questi giorni di polemica su Craxi, per mettere insieme il suo nome a quello del presidente del Consiglio. E allora diventa legittimo il sospetto (che in me è certezza) che questi stessi ambienti pensino: “L'operazione Craxi è andata bene, andrà bene anche quella contro Berlusconi”. Ma, purtroppo per loro, qualcosa è cambiato anche in chi ha, per un lungo periodo, pensato possibile utilizzare il combinato disposto di certa magistratura politicizzata e di stampa-partito per rovesciare il risultato elettorale.
Nel mio lavoro quotidiano al Senato, sento sempre più avversari riconoscere che c'è un solo modo legittimo di cambiare governo: le elezioni. E interrogarsi sui propri trascorsi giustizialisti; peccato che diventino garantisti mano a mano che è la propria parte politica ad essere coinvolta in inchieste dei Pm. Allora, ai tempi di Craxi, né il garantismo né tale consapevolezza erano maggioritari e vinsero coloro i quali pensavano che magistratura e stampa, per parafrasare von Clausewitz, potessero essere la continuazione della politica con altri mezzi.

giovedì 14 gennaio 2010

Storie di bufere, guerre e inciuci

C'è una ragione per cui una discussione interna al Pdl è una “bufera”, una “burrasca” o una “guerra” e una che avviene all'interno del Pd è uno scambio di idee o, al massimo, un contrasto? Parlo, si sarà capito, del modo in cui certi media riferiscono dell'attività politica. Naturalmente la ragione c'è e ha a che vedere non con la cronaca politica, ma con le simpatie di chi, smessa la veste di giornalista, indossa quella dell'uomo di parte. Questo avviene quando un organo di stampa si trasforma o tende a presentarsi come partito mediatico che vuole dettare una linea politica a chi lo legge.
“Inciucio”, parola che in sé contiene il peggio del concetto di compromesso, è usato da questa stampa non per descrivere un compromesso di basso profilo, ma per segnalare disapprovazione del solo fatto che avversari si parlino, anziché armarsi l'uno contro l'altro. Eugenio Scalfari, l'inventore del partito mediatico La Repubblica, da questa definizione della parola: L’inciucio è un accordo tra malandrini per spartirsi un bottino sconveniente. Ed ecco che anche in Sardegna quella scuola sembra trovare discenti: “Cappellacci e Lai si rivedono, sarà inciucio”, ha titolato La Nuova Sardegna.
Provate ad applicare la definizione di Scalfari allo scambio di opinioni fra il leder del Pd in Sardegna e il presidente della Regione: i due malandrini si sono incontrati per spartirsi un bottino sconveniente. Forse no, anzi certamente non è quella definizione ad essere modello per il titolo del quotidiano sardo; forse l'autore dell'articolo, che conosco e apprezzo, pensava ad altro. Sarebbe davvero singolare che si definisse alla maniera scalfariana il dialogo, in un momento in cui da tutti si fa richiamo alla necessità dell'unità di fronte alle sfide che alla Sardegna pone la grave crisi economica e di fronte alla necessità condivisa di riforme.

martedì 12 gennaio 2010

Non sprechiamo l'occasione di pensare ad un nuovo sviluppo

Con quelli dell'Alcoa, entrati ieri in cassa integrazione, sono oltre centomila i sardi che sono costretti ad “utilizzare tutta la gamma degli ammortizzatori sociali, dall’indennità di disoccupazione agli ammortizzatori in deroga”. La drammatica analisi è del segretario della Cisl sarda Mario Medde e fornisce un quadro complessivo di una crisi economica di proporzioni molto più che preoccupanti. È come se in Sardegna siano aperte contemporaneamente 50 questioni Alcoa, anche se non tutte hanno la forza simbolica della minacciata chiusura della fabbrica di Portovesme.
È chiaro a tutti che la difficile soluzione della questione Alcoa, per la quale è mobilitata l'intera Sardegna, non sarebbe affatto indifferente. Anzi sarebbe un importantissimo segnale di quanto possa l'unitarietà politica, sociale e culturale di una intera regione, oltre che una vittoria per centinaia e centinaia di lavoratori sottratti ai rischi della disoccupazione.
Ma sarebbe la soluzione di una vertenza, non la soluzione del complesso dei problemi denunciati da Medde. Resterebbe immutata la pesantezza delle cifre portate all'attenzione della politica e della società sarda. Con non moltissimi altri, da tempo sostengo anche su questo blog che è proprio nei periodi di crisi epocali come quella in cui siamo che si misura la qualità delle classi dirigenti, la loro capacità di uscire da un modello di sviluppo per entrare in un modello diverso, capace di mettere a profitto errori e scelte spesso prevalentemente ideologiche o dettate da poca lungimiranza.
Detto con franchezza, a me pare che, invece, siamo complessivamente tutti pronti a tappare i buchi delle emergenze, ma poco pronti a pensare a modelli di sviluppo diversi da quelli conosciuti. Il tutto all'interno di una scarsa capacità, prima di tutto dei sindacati, di fare autocritica sulle scelte fatte nel passato. Così, oggi c'è chi chiede di stabilizzare i Lavoratori socialmente utili nelle pubbliche amministrazioni, chi di utilizzare il carbone per produrre energia, chi è pronto a rilanciare la Sardegna centrale nell'avventura della petrolchimica.
Per carità, capisco ovviamente i buoni motivi di chi cerca comunque di tamponare le falle industriali, dentro le quali ci sono esseri umani e non ragionamenti su possibili modelli alternativi. Ma avverto il rischio che poi tutto si risolva nella soddisfazione per le tamponature, che comunque non potranno essere permanenti, fino a quando il mondo globalizzato permetterà spostamenti e trasferimenti di iniziative laddove il lavoro, l'energia, le materie prime costino di meno.
Noi abbiamo un sistema di welfare fra i migliori del mondo che comunque, anche in momenti di crisi acuta come quella che viviamo, assicura almeno la sussistenza a chi si trovi disoccupato. Ma mi trovo d'accordo con quanto scrive oggi su Il Corriere della Sera Pietro Ichino: “Se il trattamento offerto ai disoccupati consiste soltanto in un sostegno del loro reddito, questo rischia di produrre l'effetto di rallentare la ricerca del nuovo lavoro, allungando i periodi di disoccupazione”. Un circolo infernale in cui oggi, in Sardegna ma non solo, ci troviamo. Il reddito di tutti coloro i quali sono fra i centomila contati da Medde, va naturalmente assicurato, ma non perdiamo l'occasione che la crisi ci da di pensare a un nuovo modello di sviluppo che sia anche un nuovo modello di civiltà della nostra terra.

sabato 9 gennaio 2010

Una grande lezione di unitarietà

Il capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Mario Bruno, sa come attirare l'attenzione su di sé: mostrare la sua diversità anche nel momento, drammatico, in cui la sorte dei lavoratori dell'Alcoa è appesa ad una sottile speranza di resipiscenza del colosso americano. Ha avuto la sua brava citazione sulla stampa per una frase infelice e sarà contento. Buon per lui.
Per il resto, Regione, Governo, partiti, sindacati e lavoratori (questi mostrando un encomiabile senso di responsabilità), tutti d'accordo nell'affermare che questi sono momenti di grande unità popolare, politica, sindacale e, perché no?, culturale. Già, culturale. Perché è la cultura che è il luogo di elaborazione di una strategia che coniughi la difesa del lavoro, gli strumenti dell'unità del popolo sardo, un modello di sviluppo che sottragga il più possibile l'economia sarda dalle bizze di una colossale azienda capace di aprire e chiudere fabbriche secondo i propri criteri unilaterali.
Il fronte comune fra le istituzioni, la politica, il sindacato e i lavoratori non consente all'Alcoa di contare su divisioni e di utilizzarle a proprio beneficio. Nei dieci giorni che l'azienda si è presa per valutare le proposte del governo italiano, credo sarà indotta a riflettere sull'appoggio e il plauso che il governo ha ricevuto da tutte le parti in causa e la decisione, quale che sia, non sarà la stessa che avrebbe assunto davanti alla divisione fra istituzioni, forze politiche, sindacati e lavoratori.
Nessuno, credo, si può fare oggi illusioni sul fatto che l'Alcoa receda dai suoi intendimenti di abbandonare l'Europa e i suoi istituti di tutela dei lavoratori a favore del Terzo mondo dove questa tutela o manca o è debole, dove, cioè, trova mano d'opera a basso prezzo e meccanismi di aiuti pubblici sottratti alle leggi dell'Unione europea. Così come non c'è da illudersi che non tenti la carta della discriminazione dei territori interessati: premiare Fusina a discapito di Portovesme, o viceversa. Sta a tutti noi non cedere a eventuali tentazioni.
Ma non mi stancherò di ripetere che, se anche tutti insieme vincessimo questa battaglia per il mantenimento della fabbrica e dei lavoratori impiegati, subito dopo avremo il dovere di elaborare un modello di sviluppo della nostra Terra diverso da quello che questo tipo di industrializzazione ci ha regalato con tutte le sue incertezze, i suoi pericoli di inquinamento, di precarietà di una intera economia.

giovedì 7 gennaio 2010

Cari sardi, ma che Statuto vi potete aspettare da gente così?

Basterebbe porsi una domanda e darle una risposta onesta e non isterica per capire quanti strumentalismi si annidino nell'allarmismo provocato intorno alla riforma della Costituzione italiana. La domanda è: “In un sistema dell'alternanza qual è quello vigente in tutta l'Europa comunitaria, quale schieramento sarebbe tanto folle da consegnare una Costituzione autoritaria allo schieramento che prima o poi gli si avvicenderà?”. In altre parole: si può pensare che il centrodestra si accinga a introdurre nella Costituzione strumenti autoritari che domani saranno usati dal centrosinistra contro di esso?
Naturalmente un ragionamento del genere può esser fatto fra forze politiche responsabili e riflessive, non inquinate dall'odio e dal preconcetto. Non ha senso farlo con chi, pashdaran dell'opposizione sempre e comunque, ha deciso che la maggioranza si accinge a fare un golpe. Con quella vicesindachessa dipietrista di Reggio Emilia che ha deciso di non accogliere la seconda carica della Repubblica, il presidente del Senato Schifani, in visita nella città. Di non accoglierlo e di neppure presenziare alla celebrazione dell'anniversario del Tricolore della Repubblica cisalpina.
Né ha senso pensar di dialogare con gli epigoni del dipietrismo che su Facebook scrivono: “C'è puzza di Argentina e Cile anni 70-80. Prima che inizino a far scomparire le persone che si espongono: io ci sono!”. Il sindaco Pd di Reggio Emilia ha naturalmente preso le distanze dall'esagitata sua vice, tanto presa nel vortice di odio da non rendersi conto del gesto eversivo. Ma basta prendere le distanze? Basta, voglio dire, che con sempre maggiore frequenza il Pd mostri il suo imbarazzo per la spiacevole contiguità con il dipietrismo? Una ricerca demoscopica della Ipsos dello scorso dicembre segnalava che fra gli elettori del Pd e dell'Idv, l'83% è contrario alla modifica della Costituzione contro il 28% che ha espresso la stessa opinione fra i votanti Pdl e Lega. Un risultato che può essere variamente interpretato, ma anche che gli isterismi dipietristi hanno fatto breccia nell'elettorato del Pd.
La disponibilità del partito di Bersani di contribuire, con le sue proposte, le sue idee, le sue contrarietà, certo, alle idee del governo è una buona cosa. Ma ha bisogno di una campagna di disintossicazione interna dalla propaganda dipietrista alla quale si accoda l'estremismo di sinistra. In Sardegna si è accodato il movimento che si riconosce in Andrea Pubusa che, per penna di Antonello Murgia, “Coordinatore del Comitato in difesa della Costituzione di Cagliari”, invita ad aderire alla campagna che su Facebook ha prodotto la frase che ho riportato, quella che affianca l'Italia alle dittature argentina e cilena.
Questo per dire che cosa il popolo sardo si può aspettare da quegli ambienti, quando si tratterà di modificare la Costituzione con il nuovo Statuto speciale. La difesa della Costituzione, un'ottima Carta che però sente addosso i suoi 60 anni, può essere attuata solo con un suo aggiornamento alle necessità dell'oggi, alle esigenze di una società completamente diversa da quella che 60 anni fa interpretò. Imbalsamarla avrebbe il solo risultato, per quanto riguarda i sardi, per esempio, di bloccare la spinta largamente condivisa ad una soggettività nuova della nazione sarda.
Non so se è questo che la sinistra estrema e i diprietristi sardi vogliono, ma a questo conduce la campagna ideologica di pura mistificazione lanciata in Italia.

mercoledì 6 gennaio 2010

Attenti alle vestali della Costituzione: fanno allarmismo

Chi confonde la difesa della Costituzione con la intangibilità della Costituzione può esser mosso da motivi diversi e non tutti nobili. Fra questi ultimi, il meno commendevole è di ordine partitico, di schieramento, e si racchiude in questo ragionamento pregiudiziale: solo “noi” possiamo modificarla, gli “altri” vogliono solo “fare un golpe” e “noi” dobbiamo starne fuori, pronti alla Resistenza (con la R maiuscola, naturalmente).
Quando fu al governo, il centrosinistra modificò, con una maggioranza di soli 4 voti, un intero Titolo della Costituzione, il Quinto. Si chiuse completamente al dialogo con chi, come me e i colleghi dell'opposizione, tentarono di emendare il testo, bocciando anche una serie di proposte che io avanzai per rendere più agevole la strada del nuovo Statuto sardo. Un referendum confermativo sottoscrisse la modifica. Anche il centrodestra approvò una modifica costituzionale, quella, per capirci, che cercò di introdurre la cosiddetta devolution. Il centrosinistra ebbe buon gioco nello sfruttare sia le incertezze del centrodestra sia la sua egemonia sul sistema mediatico per scatenare una campagna di disinformazione credo senza precedenti. Punto di forza fu l'accusa rivolta al centrodestra di voler sfasciare l'unità della Repubblica. E vinse.
Oggi la parte riformista del centrosinistra ha atteggiamenti più riflessivi ed è la sua ala estremista e giustizialista a giocare cinicamente la carta dell'allarmismo: si vuole minare l'unità della Repubblica e – dicono i più esagitati – fare un “golpe democratatico”. Questo oltranzismo ha solo apparentemente lo scopo di difendere l'idea moderna e nobile di una Carta che fissi regole condivise di convivenza frai cittadini.
Il fine vero è quello di imbalsamare un concetto di stato accentratore e invasivo, interventista in economia e cultura. Uno stato, in più, in cui la divisione dei poteri rischia sempre di più di essere solo formale, come dimostrano le tentazioni di una piccola parte della magistratura di supplenza della politica e, anche, del Parlamento.
C'è un aspetto, in questo clima di allarmismo, che riguarda molto da vicino noi sardi e la necessità urgente che la Sardegna si doti di un nuovo Statuto speciale. Nel momento in cui presenteremo al Parlamento il progetto sardo di Statuto, staremo chiedendo ad esso di modificare la Costituzione. E di modificare certo la sua seconda parte, ma anche, forse, la prima. Una Costituzione rispettosa delle autonomie non per forza è rispettosa delle nazionalità e, per dire, nel mio disegno di legge per il nuovo Statuto la Sardegna è una Nazione, distinta dall'italiana all'interno della Repubblica.
Le vestali, per la verità di non difficili costumi, della Costituzione hanno in questi giorni gridato allo scandalo perché il ministro Brunetta ha introdotto la legittima proposta di modifica dell'articolo 1. Qualcuno può davvero vedere lo sfascio dell'unità della Repubblica, se la si definisce fondata sulla democrazia e la libertà, anziché sul lavoro, come il Pci pretese parafrasando la Costituzione sovietica? Il diritto alla democrazia e alla libertà è esigibile da tutti coloro che firmano il patto costituzionale; quel del lavoro è solo una espressione enfatica. Senza democrazia e libertà nessuna costituzione moderna si tiene; senza il lavoro per tutti, sì, come purtroppo vediamo in questa temperie economica.
Siamo seri. Forse è inopportuno cambiare il primo articolo, ma certo un suo cambio non intacca il principio fondamentale dell'unità della Repubblica. Così come non sarebbe un attentato ad essa se dalla scrittura dello Statuto sardo risulterà, per dire, che alla buona fortuna della Sardegna è necessario assicurare alla Regione competenza primaria sui beni culturali lasciatici dai nostri antichi.

martedì 5 gennaio 2010

I cattivi maestri del golpe preventivo

Le due notizie sono di per sé banali: l'Italia dei valori sospetta di connivenza i magistrati palermitani che hanno sospeso l'isolamento diurno del mafioso Gaviano (quello che ha rovinato il teorema di Berlusconi fiancheggiatore della mafia); Di Pietro attacca il presidente della Repubblica colpevole di aver messo 'il vento in poppa alla barca dei pirati', quella di Berlusconi. Straordinario e inedito sarebbe stato che l'ossessione dipietrista si fosse presa un momento di pausa per riflettere, che so?, sull'opportunità del gioco al massacro cominciato nel momento stesso in cui Di Pietro si è reso conto che il clima politico stava cambiando.
Nel suo lucido cinismo, si è reso conto che nell'abbassamento dei toni dopo l'aggressione a Berlusconi egli può lucrare voti in quella parte della sinistra radicale che concepisce la battaglia politica come scontro all'arma bianca e che, perciò, mal sopporterebbe una svolta riformista del Pd. Di Pietro è cosciente, va da sé, che il suo becerume rafforza il centrodestra e, in genere, il mondo dei moderati, ma a lui interessa chiamare a raccolta il radicalismo che, secondo stime dei politologi, rappresenterebbe il 25 per cento del corpo elettorale.
Dentro c'è un po' di tutto: da chi plaude al regicidio come mezzo per conquistare il potere a chi pensa di poter utilizzare allo stesso scopo la magistratura politicizzata, da chi pensa alla creazione di un comitato di liberazione nazionale per rovesciare il “governo fascista” a chi sposa le campagne dell'impero mediatico di Repubblica-Espresso e del travaglismo. Il tutto è unito non solo dall'odio contro Berlusconi, ma dal profondo disprezzo nei confronti del popolo bue che vince con i numeri sulla Ragione di cui le élites cospiratrici sono legittime depositarie.
Di fronte al rischio che la battaglia politica rientri nella normalità del reciproco riconoscimento fra le forze della maggioranza e quelle delle opposizioni, ecco la necessità impellente di alzare il tiro. Ecco allora che nel mirino della jacquerie dipietrista entrano i magistrati che fanno il loro dovere senza badare agli interessi potici di alcuni loro colleghi ed ecco, soprattutto, l'uso della categoria “colpo di stato” come spauracchio da agitare per organizzare la “resistenza” che, in vista del pericolo di golpe, non può non essere armata ed organizzata, appunto, in un Comitato di liberazione nazionale.
Nelle parole esagitate di Di Pietro si legge, ad esempio, che “il 2010 costringe già a disseppellire l'ascia di guerra contro il solito manipolo golpista che vuole stravolgere la Costituzione”. Il dipietrista Luigi De Magistris, anch'egli ex magistrato, non è da meno. Sulla rivista MicroMega, portavoce del giustizialismo e dell'odio civile, si leggono questi vaneggiamenti, ripresi in una intera pagina da un quotidiano del gruppo La Repubblica-L'Espresso: “Lo squadrismo dei berluscones alla Cicchitto che rappresentano la frangia più eversiva del golpismo in atto”.
E ancora: “La legittimazione del potere deve essere garantita dall’elezione diretta da parte del popolo del capo: il ritorno del Führerprinzip di novecentesca memoria, che ha legittimato le leadership del «secolo breve» giustificando ogni scelta del potere, anche la più abominevole e arbitraria, in virtù di un mandato popolare plebiscitario usato come alibi”. E infine, in un crescendo di disprezzo dell'elettorato: “L’informazione eterodiretta garantisce al regime di accrescere il consenso e di produrre campagne mediatiche fondanti per la costruzione di coscienze drogate e narcotizzate, utili per esser manipolate a fine politico-populistico”.
Siamo, come si vede, all'appello rivolto alle aristocrazie intellettuali di sinistra a disfarsi dell'incomodo dell'elettorato di massa e ad assumersi il compito di governare direttamente nel nome della Ragione. Forse, a molti di noi, queste sciocchezze possono apparire solo degli imbarazzanti folclorismi della politica, in grado, tutt'al più, di aumentare il numero di parlamentari dipietristi. Temo che così non sia: il fatto che il dipietrismo non possa prevalere non è in grado di evitare alla nostra società il rischio che la violenza lasci la strada dell'esasperazione verbale. Questa filosofia dell'eversione va isolata al più presto, come nel passato è capitato per altri cattivi maestri.