La legge cosiddetta del processo breve, che ho votato con convinzione avantieri al Senato, è una misura di civiltà, ma non mi permetterei mai di pensare e dire che tutta l'opposizione, che la ha avversata, sia favorevole all'inciviltà. In alcuni settori c'è anche questo, ma la gran parte dell'opposizione ha fatto il suo dovere: opporsi ai provvedimenti proposti dalla maggioranza. Si dice: siamo d'accordo per modernizzare la giustizia e per attuare la Costituzione in materia, ma questa legge serve al presidente del Consiglio il quale – ha riconosciuto l'Udc – è vittima di un accanimento giudiziario. Questa legge non è ad essere ad personam, evita che ce ne siano contra personam.
Bene, se anche, quando sarà aprovata definitivamente, dovesse servire solo a far cessare l'accanimento di cui parla l'Udc, sarebbe una buona legge. Non esiste al mondo una situazione del genere, per cui un capo di governo sia costantemente costretto a scegliere fra il difendersi in una mole impressionante di procedimenti e il governare. In cui basta la parola di un pentito pluriomicida a trascinarlo in un tritacarne mediatico dagli effetti devastanti per l'immagine dello Stato che governa. Una politica non infetta dall'antiberlusconismo avrebbe da tempo affrontato e risolto unitariamente questa grave anomalia.
Ma la legge che, ripeto, ho con convinzione votato, non è questo. E a dimostrare l'urgenza che la Repubblica si doti di una legge che limiti a un tempo ragionavole la durata dei processi, non ci sono solo i casi eclatanti degli amministratori di Subiaco (20 anni di attesa per ottenere giustizia) e del parlamentare Calogero Mannino (18 anni di traversie giudiziarie prima di essere riconosciuto innocente). Ci sono anche le storie di “gente normale” come quel Simone Locci, 38 anni, di Orroli, che ha aspettato 14 anni prima che il procuratore generale del Tribunale di Cagliari chiedesse la sua assoluzione. Aveva 24 anni quando fu accusato di essere uno spacciatore, ne ha 38 quando i magistrati riconoscono di averlo accusato ingiustamente.
Sono vicende come questa, purtroppo frequenti, che hanno spinto il governo ad attuare l'articolo 111 della Costituzione che, in materia di processi, sancisce: “La legge ne assicura la ragionevole durata”. Né i venti per gli amministatori di Subiaco, né i 18 per Calogero Mannino, né i 14 per Simone Locci sono una “ragionevole durata”. Sono troppi anche gli oltre sei anni previsti dalla legge, altro che “processo breve”, ma si è dovuto fare i conti con lo stato della giustizia in Italia, quella giustizia che il governo vuole riformare.
Certo, non tutto è risolto da questa legge, ma non è un caso se si è voluto cominciare dal cuore del problema: il diritto dei cittadini a una giustizia se non rapidissima almeno dai tempi ragionevoli. In gioco c'è niente di meno che la libertà personale degli individui. Per la lentezza dei giudizi, qualche colpevole sfuggirà alla pena? Spero e credo di no, ma può darsi. E però io resto dell'idea che è sempre meglio un colpevole libero che un innocente in galera o, anche, un innocente sulla graticola per anni e anni. Il resto è giustizialismo e non appartiene alla mia cultura politica.
Nessun commento:
Posta un commento