martedì 8 giugno 2010

Come Di Pietro finì nella sua ragnatela

Non provo alcuna soddisfazione, sinceramente, per il fatto che Antonio Di Pietro sia costretto ad inghiottire bocconi amarissimi, approntati nella cucina del giustizialismo. Quella stessa cucina in cui per anni è stato maitre, cuoco e anche addetto al servizio ai tavoli. Né, come potrei fare con un minimo di applicazione della sua scuola di pensiero, chiederò la sue dimissioni da parlamentare della Repubblica.
Nel silenzio dei media suoi fiancheggiatori, la dirittura morale del principe dei giustizialisti è messa in dubbio non da quotidiani vicini a Berlusconi, ma dal maggiore quotidiano italiano cui tutti, egli stesso, riconosce imparzialità e rigore. Come altri finiti nella sua gogna, anche Di Pietro esibisce sentenze di assoluzione e immacolatezza della sua fedina penale. Ma si rifiuta di rispondere alle questioni, poste dal Corriere della Sera e da Antonio di Domenico, cofondatore dell'Italia dei Valori, riguardanti aspetti non penali ma morali.
Di Domenico ha scritto un libro che si annuncia molto ben documentato sulle ombre diprietriste e, a quel che il suo ex amico denuncia, Di Pietro è intervenuto varie volte sull'editore per impedirne l'uscita e, comunque, per cancellare alcune foto non particolarmente innocenti. Questo avrebbe fatto, insomma, una persona che è sempre in prima fila in manifestazioni, più o meno strumentali, in difesa della libertà di stampa. Purché abbia l'onestà intellettuale di dare risposte alle domande imbarazzanti che gli vengono poste, gli auguro di trovarne delle convincenti. La macelleria mediatica non mi piace neppure se sul bancone finisce un avversario urticante come Di Pietro.
C'è molta saggezza nel detto sardo: “Non dire di quell'acqua non berrò mai”. Qui in Sardegna è intervenuto con tutta la sua forza su Federico Palomba perché compisse il rito dell'ostracismo contro un candidato alle Provinciali, assolto in primo grado, condannato in secondo e quindi innocente fino al giudizio di Cassazione. Tutto nel nome della illibatezza morale che deve avere chi si presenta al cospetto del principe del giustizialismo. Temo che non succederà mai, ma auguro a Di Pietro e al clan dei giustizialisti di avere, dopo quest'ultima caduta di stile, la capacità di capire che uno Stato di diritto è cosa diversa dallo Stato etico che essi sognano per la Repubblica italiana, per loro sfortuna ancora laica.

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