giovedì 2 luglio 2009

Di Pietro e lo sberleffo contro Napolitano

Lo sberleffo con cui Di Pietro ha accolto l’invito del presidente della Repubblica ad “una tregua” in vista del G8, segnala che da quella parte ci si può attendere solo una escalation di barbarie politica. Per ora solo verbale, ma non è detto che le pulsioni giustizialiste e peroniste non convincano qualche testa calda a fare un salto di qualità.
Il pretesto per sbeffeggiare l’appello di Napolitano è di dominio pubblico: un giudice della Corte costituzionale ha invitato a cena un suo collega, il ministro della Giustizia e il presidente del Consiglio. Una cosa normalissima che in uno Stato normale non avrebbe meritato neppure una noticina nelle cronache rosa di un giornaletto di provincia. Come non hanno avuto alcun rilievo le numerose cene fra magistrati e dirigenti politici di centrosinistra, considerate di assoluta normalità, dato che – dicevano i politici di centro sinistra – non si può sospettare della serietà e imparzialità dei giudici. Certo l’invito a cena di Mazzella è più normale dell’affidamento di un processo ad un giudice che ha pubblicamente manifestato in piazza contro la persona che si accingeva a giudicare.
Una cena normalissima, dicevo, fin quando, involta da un settimanale in una confezione scandalistica, non approda sulla scrivania di chi non aspettava altro per poter andare lancia in resta contro Napolitano che della terziarietà ha fatto un punto di onore. Di Pietro fa finta di attaccare i magistrati suoi colleghi che osano frequentare i suoi nemici Alfano e Barlusconi, in realtà esercita un’intollerabile pressione sulla Consulta e attacca proprio l’imparzialità del presidente della Repubblica. Come per dire che Napolitano non può osare chiedere alla politica una tregua sia pure temporanea tra l’opposizione e la maggioranza, in vista di un appuntamento internazionale, il G8, in cui il governo Berlusconi “rischia” di fare bella figura.
È proprio questo rischio che Di Pietro vorrebbe scansare: non ha fatto mistero del suo desiderio che all’Aquila il governo arrivi se non dimissionario, almeno fortemente delegittimato. Il giustizialista principe ha tentato di cavalcare tutti gli schizzi di fango, tutti i pettegolezzi, tutti i gossip, tutti i falsi scandali montati con fredda determinazione da giornalisti a lui vicini. Gli è andata male, anche se la sua IdV è riuscita a rosicchiare qualche voto al Pd che, in preda alla sindrome di Stoccolma, continua ad esserne succube.
Adesso, quando manca una settimana al vertice dei capi di stato e di governo, non gli resta che tentare la delegittimazione del capo dello Stato, reo di aver chiesto una tregua alla politica e, dunque, anche a chi, come Di Pietro, non si rassegna a vedere Berlusconi rappresentare la Repubblica italiana al G8. Lo fa trottando sul cavallo fornito da L’Espresso che definisce “carbonara” una cena alla quale i convitati sono arrivati con un corteo di auto e di guardie del corpo. Neppure davanti al ridicolo si ferma certa stampa scandalistica.
In preda ad una disperata ansietà, Di Pietro arriva a chiedere ai due magistrati della Consulta, rei di amicizia con il presidente del Consiglio, di ritirarsi o di astenersi nel giudizio che, insieme a molti altri giudizi costituzionali, dovranno dare del cosiddetto Lodo Alfano. Con ciò ottenendo due risultati: gettare sui due giudici l’infamante sospetto di non poter essere imparziali; sobillarli a compiere un atto illegittimo e comunque non contemplato nelle cause della Consulta. Non è un caso che il giudice Mazzella, solitamente sobrio nelle sue parole, abbia usato espressioni come “nuovo totalitarismo” e “pratiche dell’Ovra”, la quale Ovra, lo dico per i più giovani, era la polizia segreta fascista.

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