Quella di ieri a Roma è stata una grande vittoria politica, che sia anche una vittoria in campo economico è presto per dirlo. Una vittoria dell’unità del popolo sardo e delle sue classi dirigenti che però rischia di essere indebolita da certe pulsioni al protagonismo di chi pretende di ascriverla a una parte del tutto. Per fortuna (ma anche per assennatezza dei più), si tratta di esternazioni di primi attori di non grande rilevanza e, mi auguro, presto saranno ricondotte alla ragione dell’unità.
La mobilitazione unitaria di tutta la società sarda, dai partiti ai sindacati, dagli imprenditori alla Chiesa, dalle famiglie dei lavoratori alle assemblee elettive, nell’assordante silenzio – mi duole dirlo – dell’intellettualità sarda, è la vera protagonista di questa prima vittoria. E bene ha fatto il presidente della Regione ha metterlo in evidenza. Questa unità è stata raggiunta, come spesso accade in Sardegna, come momento di resistenza (“costante resistenziale” la chiama il prof. Giovanni Lilliu) ad un pericolo imminente. Al 90° minuto, per mutuare un linguaggio non politico, ce l’abbiamo fatta, insomma.
Adesso la Sardegna ha però bisogno di unità non per resistere ma per proporre un modello di sviluppo che prescinda il più possibile dalle emergenze. Qua e là, nelle reazioni politiche e sindacali, affiora questa necessità che nasce da una considerazione che, prima o poi, tutti saremo costretti a fare. L’unità raggiunta ha impedito all’Eni di attuare il suo progetto arrogante di chiusura, ma non è in grado di rovesciare i meccanismi del mercato. L’Eni ha tentato di sfruttarli senza criterio e le ha andata male, ma le ragioni che l’hanno indotta a farlo continuano ad esistere.
Vorrei citare l’articolo di un uomo politico assai lontano dai miei ideali e dalla mia cultura politica, Andrea Pubusa. “Sul disastro industriale, non c’è da farsi illusioni: chiuderà P. Torres e seguirà a ruota P. Vesme. L’intervento statale” scrive Pubusa nel suo sito “può allungare l’agonia come per i malati terminali, ma non resuscitare aziende già defunte. Ciò che colpisce in queste vicende non è tanto l’incapacità di porre rimedio poiché la situazione non è certamente nella disponibilità né di questa né della precedente giunta e forse neppure del governo dopo la distruzione dello stato sociale con le privatizzazioni selvagge. Ciò che manca è un’idea alternativa su cui lavorare, su cui pensare il futuro. Davanti alla crisi delle miniere, negli anni ‘50 e ‘60, ci fu l’alternativa dell’industrializzazione per poli, dislocata in tutta l’isola. Era un’idea discutibile, discussa e criticata, ma era un’idea di sviluppo. Si pensava di dare il via ad un ‘industrializzazione accelerata per guidare la transizione da una arretrata economia agropastorale ad una moderna società industriale. Oggi, la tragedia nasce dal fatto che si chiude e basta, senza prospettiva, senza un progetto su cui battersi.”
Invece, il progetto deve esserci e svilupparsi, come da tempo sostengo in questo blog. Deve essere frutto di un importante dibattito in tutta la società sarda al quale tutti dobbiamo dare il nostro contributo mirando non agli interessi della propria bottega politica o sociale, ma al bene comune del popolo sardo. Sarebbe insensato pensare, però, che questo possa avvenire senza un cambiamento radicale del rapporto fra Regione sarda e Stato italiano, elementi equiordinati della Repubblica secondo quanto detta la Costituzione e invece ancora disposti su piani gerarchicamente ordinati.
La scrittura di un Nuovo statuto di autogoverno non è un capriccio intellettuale e politico; se non è la precondizione per adottare e attuare un nuovo modello di civiltà della Sardegna, di certo i due processi devono andare avanti insieme. Precondizione è, semmai, l’unità del popolo sardo e delle sue classi dirigenti che devono imparare ad incontrarsi (e perché no?, a scontrarsi) sulla concretezza delle scelte da fare qui e subito.
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