giovedì 9 luglio 2009

Il primo impegno: salvare il lavoro

A ventiquattr’ore dalla seduta straordinaria a Roma del Governo sardo insieme a senatori e deputati sardi, non saprei certo dire quale sarà l’esito della mobilitazione dell’intera Sardegna a difesa dei posti di lavoro. Né è facile prevedere se prevarranno nella classe dirigente sarda le ragioni dell’unità o i distinguo che qua e là si sono affacciati nelle cronache dei giornali. È chiaro che quando parlo di classe dirigente non pensando solo alla politica, ma anche al sindacato, all’imprenditoria, alla cultura, ai mass media, alcuni dei quali ancora oggi paiono restii a mettere da parte l’invettiva, il sarcasmo, la voglia di trovare il conflitto dovunque e comunque.
Quel di cui sono sicuro è che il popolo sardo si merita una classe dirigente concorde nell’evitare la disoccupazione di massa indotta dalla chiusura dell’Eni di Portotorres, pedina in un gioco di domino al cui termine potrebbe esserci il deserto dell’occupazione industriale in Sardegna. Ci sono, in questi momenti, parole non ben meditate, come la richiesta di dimissioni del Parlamento sardo o come la minaccia di scioperi che rischiano di mettere in ginocchio l’intera economia dell’Isola, la sua agricoltura, il suo turismo, la sua pastorizia, il suo artigianato. Ma si tratta, mi auguro, di una reazione irritata a un annuncio arrogante. Gli operai hanno bisogno di solidarietà, non di antagonisti fra i sardi.
Il compito di tutto, l’impegno morale di ogni cittadino sardo, è quello di evitare, come dicevo, il pericolo di una disoccupazione di massa. A questo obiettivo tutto deve tendere. Ma non saremmo responsabili se illudessimo noi stessi che in una economia di mercato, in uno stato democratico, in mancanza di quella eticità dell’economia di cui si è cominciato a discutere al G8, un governo possa bloccare una crisi, quella della chimica, ormai apertasi da tempo. Anche in Sardegna, qualche voce solitaria si leva nel sindacato per avvertire che è necessario pensare ad altro, da subito.
Ed è così. Chi dice che la chimica non si tocca, che alla chimica la Sardegna non può rinunciare sbaglia, pur se comprendo i motivi nobili che lo spinge a dirlo. Il fatto è che proprio in un momento di crisi acuta come quello che viviamo e che nel futuro potremmo vivere in maniera ancora più accentuata, è necessario prendere atto che una storia sta finendo e che bisogna aprire capitoli nuovi. Il fallimento dell’avventura petrolchimica ad Ottana, solo quantitativamente meno grave di quello di Portotorres, è stato lasciato passare invano, senza che quel segnale fosse colto come inizio di un processo e, quindi, come pungolo ad inventare un modello nuovo di sviluppo.
Si è preferito illudere i cittadini e i lavoratori del Nuorese che la fine della petrolchimica fosse un incidente e che, comunque, attraverso accordi di programma, spesso menzogneri, l’industrializzazione della Media Valle del Tirso fosse ancora possibile. Senza progetto, senza sapere che cosa Ottana fosse vocata ad accogliere e seguendo l’illusione che bastasse regalare un po’ di denaro ad imprenditori perché questi creassero industrie fiorenti in grado di soddisfare l’offerta di lavoro.
Anche intorno a Portotorres si sono create illusioni di poco momento fino a quando la chiusura (per due mesi, ma non illudiamoci) del Petrolchimico ci è caduta addosso. Quello di non consentire l’immiserimento di migliaia di famiglie è un impegno che va mantenuto ad ogni costo e una Sardegna unita su questo obiettivo è in grado di farcela. Ma già da oggi è necessario mettersi in testa che dalla crisi si esce solo se si ha la capacità di vedere quale domani dovrà essere lo sviluppo della Sardegna. All’interno del quale stanno Portotorres, Ottana, Portovesme e tutte le realtà industriali oggi in coma.

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