lunedì 20 aprile 2009

Caro Brunetta, la specialità non si misura con l'economia

Dobbiamo al ministro Brunetta un lucido e coraggioso disegno di ammodernamento dell’amministrazione pubblica. Sono convintissimo che la società italiana sarà, al termine di questo processo di razionalizzazione, più efficiente e democratica, una casa comune dalle pareti di vetro. Ma l’amico Brunetta sbaglia nel pensare applicabili alle specialità regionali gli stessi criteri organizzativi e contabili usati, mi auguro con successo crescente, al resto della pubblica amministrazione, senza per questo mettere in discussione la Costituzione.
C’è, intorno al concetto di specialità, un equivoco di matrice prevalentemente comunista. Secondo tale cultura, le cinque regioni riconosciute speciali dalla Costituzione, deriverebbero la loro peculiarità da ragioni economiche e geopolitiche. Così, la Sardegna è speciale per via del suo differenziale di sviluppo rispetto al Continente; la Sicilia per stroncare il rischio separatista presente ancora negli anni della Costituente; il Sud Tirolo perché la sua autonomia deriva da obblighi internazionali; il Trentino per bilanciare in senso italiano, e all’interno di una regione “inventata”, la forte autonomia altoatesina imposta dal’Onu e garantita dall’Austria; la Valle d’Aosta e il Friuli-Venezia Giulia per la vicinanza rispettivamente con la Francia e la Yugoslavia che volevano tutelate le minoranze francofona, slovena e croata.
Insomma, la cultura comunista non concepiva e non permetteva il riconoscimento di specialità fondate sui caratteri nazionali e culturali della Sardegna, della Valle d’Aosta, del Friuli e del Sud Tirolo, sedi di lingua diverse da quella italiana. Nei primi tre casi solo imparentate con la lingua dello Stato, nel quarto caso neppure questo. Vale la pena ricordare ai molti smemorati la dura lotta del Pci in Sardegna contro l’autonomia dell’Isola nei primi anni dopo la guerra.
Nel pregiudizio di tanta parte della sinistra di matrice comunista e socialista, la lingua è solo un epifenomeno, qualcosa che non ha valore in sé e che vale solo se legata ai fenomeni economici e, al più, culturali. Tant’è che a fare compagnia all’amico Brunetta nella sua campagna contro la vetustà delle regioni speciali, è una parte importante della intelligentsia di sinistra. Ieri lo ha riconosciuto Andrea Pubusa, costituzionalista e intellettuale di spicco della sinistra sarda. La posizione del ministro, ha detto alla Nuova Sardegna, esiste “anche negli ambienti giuridici democratici”.
Gli elementi fondanti della specialità sarda (e anche delle altre regioni differenziate) continuerà ad esistere anche dopo che il gap di sviluppo dovesse essere superato. Lingua, cultura, storia, identità sono elementi ancora più forti della insularità, riconosciuta come dato incontrovertibile di svantaggio. Paradossalmente, i fondamenti della specialità sarda rimarrebbero anche nel fantascientifico caso di un ponte con la Penisola che facesse finire l’insularità della Sardegna.
Fino a quando, però, tali elementi non saranno riconosciuti nel nuovo Statuto sardo, la specialità della nostra autonomia sarà inevitabilmente soggetta agli assalti degli inguaribili economicisti e, l’amico Brunetta ci ricorda, non solo di essi. Di qui l’urgenza che la Sardegna si doti di un nuovo Statuto speciale che superi e si lasci alle spalle le tentazioni di ridurre lingua, cultura, identità, storia a sovrastrutture superflue e, comunque, ininfluenti nella definizione di specialità.

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