sabato 18 aprile 2009

Un piano del lavoro in cultura

È possibile mettere insieme la lotta alla disoccupazione e sviluppo della cultura? Io credo di sì, credo, insomma, che sia profondamente errato pensare che in una economia moderna si possa pensare alla cultura solo una volta sistemati i conti più urgenti. Pensare così e agire di conseguenza è il frutto di un’antica, e un po’ avvilente, filosofia industrialista, secondo cui è solo la produzione materiale a guidare tutti i processi.
I risultati, qui in Sardegna, sono sotto gli occhi di tutti: un’enorme mole di investimenti pubblici e privati ha creato una struttura industriale incapace di marciare in assenza di ulteriori contributi pubblici. Ha ragione il presidente Cappellacci, quando in un’intervista per il sito della Cgil, afferma: «Se avessi la bacchetta magica cancellerei le ciminiere del Sulcis, a patto di poterle rimpiazzare immediatamente con un progetto alternativo». Del resto è quanto io stesso, in questo blog, vado sostenendo da tempo, pensando che proprio in momenti di crisi acuta vale la pena di disegnare un nuovo modello di sviluppo legato alla nostra terra.
È all’interno di questo modello che io vedo possibile coniugare sviluppo dell’occupazione e sviluppo della cultura. Noi viviamo in un’Isola che possiede un patrimonio di beni culturali davvero impressionante, lascito dei nostri antichi dal Neolitico ad avantieri. Diecimila nuraghi, pozzi sacri, tombe dei giganti, monumenti ipogeici, città abitate e sviluppate dai fenici, vestigia romane e bizantine, chiese romaniche, pisane, lombarde, catalane, borghi medioevali di indicibile bellezza, resti della grande civiltà giudicale e via così elencando.
Si tratta di un immenso patrimonio largamente sconosciuto non solo fuori della Sardegna, ma spesso agli stessi sardi. I flussi turistici, per il momento marginali, ci dicono che una accorta politica di promozione potrebbe trasformare questa marginalità in occasione di importante crescita economica. Uno sviluppo che, dettaglio non da poco, non comporta consumo del territorio né rischio di inquinamenti né investimenti dall’incerto futuro.
Che cosa fare? Un’idea, un po’ keynesiana, potrebbe essere quella di trasformare i cosiddetti Lavoratori socialmente utili in operai addetti al recupero dei lasciti dei nostri antichi, naturalmente sotto la guida di archeologi, restauratori ed altri tecnici qualificati. La Regione spenderà, come ha sempre fatto nel passato, una mole di denaro non indifferente: è un atto di solidarietà pubblica che, a volte, rischia, però, di essere fine a se stesso e la cui pubblica utilità è spesso più nominalistico che altro. Questo denaro può essere meglio e più produttivamente speso nell’apertura dei cantieri che dicevo.
Si dirà che non è sufficiente ad un’opera di ripristino in grado di invogliare masse di visitatori, e questo è vero. Sono necessari altri investimenti (nel reclutamento di tecnici e studiosi, per esempio), ma questi non solo produrranno ricchezza e posti di lavoro, ma saranno ripagati da beni duraturi, fruibili da generazioni di turisti esterni ed interni. Potrebbe essere, questo, un primo tassello di quel progetto di sviluppo, alternativo ad una industrializzazione forzata e slegata dalla Sardegna che, lo vediamo sotto i nostri occhi, ha prodotto più disastri di quanti benefici abbia portato.

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