Ero uno dei cinquantamila sardi che ieri hanno manifestato a Cagliari e sono orgoglioso di essere parte del popolo sardo. Sono stato nel corteo fra manifestanti della mia parte politica e della parte avversaria: sono stato felice dei loro apprezzamenti e delle loro critiche, sempre pacate, che mi aiuteranno a capire come la ragione, indipendentemente dalla mia buona fede, non sempre è in quello che penso e faccio. Forse è vero che dopo la dimostrazione di composta forza unitaria nulla sarà come prima. E lo sarà nonostante i pochi tentativi di trasformare uno sciopero “per” in una manifestazione “contro”, contro il governo Berlusconi e contro il governo Cappellacci, e l'isolata provocazione subito sedata dai sindacalisti.
Mettono tristezza, non certo rabbia, i comizi politici di pochi, afflitti da un antiberlusconismo che stonavano in quel clima di unità di intenti che i più colpiti dalla crisi, i lavoratori, sentono necessaria come l'aria che si respira. Così come triste è leggere, oggi, l'attacco del segretario sardo del Pd contro il governo accusato di “ comportamento irresponsabile sulla crisi” e la visionaria interpretazione del suo capogruppo in Consiglio regionale secondo cui “ lo sciopero ha bocciato drasticamente l’operato del governo Berlusconi e della giunta Cappellacci”.
Dubito che l'on Mario Bruno abbia consapevolezza che le sue parole sconfessano i sindacati, i quali hanno sempre affermato che il loro non sarebbe stato uno sciopero contro i governi sardo e italiano, ma una manifestazione di proposta. Che c'è stata, più nei sindacalisti sardi che in quelli venuti da fuori, ma c'è stata. Si tratta, naturalmente, di discuterne francamente tutti insieme, sapendo che nella critica del passato nessuna parte può esibire patenti di innocenza. La politica, la grande accusata, ha certo le sue responsabilità, ma ne hanno i sindacati con la loro poca disponibilità a ragionare sul modello industriale paracadutato in Sardegna, ne ha l'ideologia operaista di tanta parte della cultura, ne ha l'imprenditoria non sempre capace di intendere la specificità della Sardegna pur in una economia globalizzata.
È insomma tutta la classe dirigente sarda, non solo quella politica, che è chiamata a prendere atto che il modello di sviluppo esistente fa acqua da tutte le parti. Ogni lavoratore deve essere assicurato che non perderà i mezzi di sussistenza per essi e per le loro famiglie. Questo è, certo, l'impegno più importante. Ma sarebbe da irresponsabili far finta che superate le emergenze, posto che sia possibile, i problemi siano risolti. Quello industriale è un settore vitale per l'economia della Sardegna, così come lo sono gli altri settori dal primario al terziario, ma non c'è alcuna ragione per pensare che l'industria sarda sia quella energivora della chimica e quella inquinante dell'alluminio.
Così come non c'è alcuna ragione – è anzi irragionevole – per pensare che un nuovo Piano di Rinascita, predisposto dallo Stato “con il concorso” della Regione, risolva il problema principe della Sardegna: darsi uno Statuto di autogoverno che, nell'ambito della Repubblica, attribuisca alla Regione tutte le competenze che non siano in conflitto con l'unità della stessa Repubblica. Le competenze e, naturalmente, le risorse necessarie ad esercitarle. Siamo in ritardo nell'affrontare questa questione, ma è importante e forse decisivo che anche il sindacato della riscrittura dello Statuto abbia fatto un suo punto di impegno.
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