venerdì 19 giugno 2009

I sindacati sardi e lo Statuto speciale

È passato quasi inosservato, e comunque senza particolari commenti, il cambio di marcia dei sindacati sardi nell’annunciare lo sciopero generale del 10 luglio. Non entro in merito, ci mancherebbe altro, delle motivazioni della manifestazione sindacale che si annuncia vigorosa. Mi interessa di più una dichiarazione che, ripeto, avrebbe meritato ben altro rilievo che non la citazione in fondo agli articoli di giornale. Lo sciopero di luglio, dicono Cgil, Cisl e Uil, è il primo passo verso un’assemblea del popolo sardo che dia forza a una nuova stagione costituente per riscrivere lo Statuto speciale e avviare le necessarie riforme istituzionali.
Per chi, come me, è fermamente convinto che non tutto possa e debba essere ridotto alle questioni economiche e finanziarie, che una società civile debba badare a riformare il quadro istituzionale entro cui si agitano “anche” le questioni economiche, quelle dei sindacati sono parole sacrosante. E non sto neppure a discutere se siano tardive o tempestive. Io ho appoggiato e appoggio sia il progetto di Nuovo Statuto speciale (tant’è che l’ho presentato in Senato) sia la decisione con cui il presidente della Regione ha fatto della riscrittura della nostra Carta una priorità.
C’è più di una ovvia banalità nel vetusto dire che prima bisogna mangiare e poi filosofare, cioè occuparsi di cose apparentemente immateriali. È ovvio, e persino scontato, che una persona indebilitata dalla propria condizione materiale non sia portata a ragionare sulle riforme, anche se da queste riforme venga la possibilità di un futuro benessere e una speranza di prosperità. Ma è inutile sperare che ci possa essere pane se non si pensa a costruire e a far funzionare i forni.
Ecco, il rapporto fra la condizione materiale attuale e un nuovo quadro di poteri e di competenze istituzionali è proprio quello della metafora pane e forni. Le vecchie concezioni economiciste hanno nel passato combinato guai enormi: lo sviluppo economico è stato messo in conflitto con i problemi della nostra identità nel senso che bisognava scegliere fra la presunta arcaicità della cultura sarda e la modernità più o meno cosmopolita e, comunque, progressista. Il nostro obsoleto Statuto è stato fatto passare, fuori ma soprattuto dentro la Sardegna, come una concessione statale tesa al riequilibrio fra sviluppo continentale e sottosviluppo isolano. Le questioni della identità (lingua, cultura, maniera di rapportarsi dentro le comunità e fra comunità, senso del giusto, rapporto con l’ambiente) non hanno avuto, e nello Statuto attuale non hanno ancora) alcun rilievo, secondo il vecchio pregiudizio economicista che si tratta sempre e solo di questioni “sovrastrutturali”, epifenomeni delle uniche cose che contano: l’economia e i rapporti di produzioni.
Ecco perché a me sembra di enorme rilievo il richiamo dei sindacati alla opportunità di un nuovo congresso del popolo sardo e alla necessità di “riscrivere” (e non solo riformare, dunque) lo Statuto speciale.

1 commento:

Daniele Addis ha detto...

Anche a me da fastidio il fatto che il richiamo alla riscrittura dello statuto che oramai viene da più parti stia passando sotto silenzio. In questo caso non ne faccio tanto una colpa degli organi di informazione che comunque la notizia l'hanno data (parlo soprattutto dei giornali), quanto dei soggetti politici che dovrebbero farla propria. Ho sentito da parte di Cappellacci e della giunta dei discorsi interessanti che parlano proprio di riscrittura dello statuto, quindi ora, visto che mi pare la volontà quanto meno di parlarne ci sia, sta a loro muoversi.
Potrebbe essere il primo vero atto importante di una giunta che, diciamoci la verità, nei primi mesi ha lasciato un po' a desiderare, soprattutto alla luce delle roboanti premesse e promesse della campagna elettorale.