mercoledì 3 giugno 2009

Cultura contro l'agonia dei villaggi dell'interno

Fra i comuni sardi in cui domenica si vota, c’è un piccolo villaggio alle falde del Montalbo tra Bitti e Lula, che è il paradigma non solo dello spopolamento delle Terre interne della Sardegna, ma anche del divario esistente fra possibilità e realtà di sviluppo. Onanì ha oggi 467 abitanti, ne aveva quasi tre volte di più (1391) nel 1961, quando era paese anche di minatori. Recentemente è salito alla ribalta come il paese sardo a più alta densità di poveri: il 76,6 per cento dei suoi abitanti lo è. O meglio lo sarebbe, visto che la qualità di vita non rientra fra le misure dei freddi indicatori del Pil.
Onanì ha però un singolare e sconosciuto primato: è il paese a più alta densità di murales e di opere d’arte moderne. Fra queste lo splendido portale di bronzo della chiesa, opera di Pinuccio Sciola, i due affreschi di Diego Asproni nelle chiesette di San Francesco e dei santi Cosma e Damiano, in più, appunto, delle decine di muri dipinti con bellissime pitture. Una ricchezza culturale che altri paesi sono riusciti a mettere a profitto come richiamo turistico e, quindi, come occasione di lavoro.
Scrivevo qualche giorno fa su questo blog che per arrestare l’agonia dei piccoli centri delle Terre interne e per invertire la tendenza non basta l’economia, intesa come produzione di beni materiali naturalmente, visto che anche i beni non materiali sono capaci di creare economia. Naturalmente bisogna volerlo, bisogna accorgersi del valore non solo immateriale del patrimonio che si ha. Un discorso, questo, che coinvolge solo parzialmente i piccoli centri e le loro amministrazioni, posto che non è pensabile che le piccole risorse in loro possesso bastino a lanciare i propri patrimoni nel mercato del turismo.
Una classe dirigente seria, quella politica ma soprattutto quella culturale, sociale, imprenditoriale, ha il dovere di accorgersi e di valorizzare anche ad Onanì beni come i murales, gli affreschi, quel piccolo gioiello di arte romanica che è la chiesa in pietra di San Pietro e il patrimonio archeologico sparso nei 71 chilometri quadrati di quel comune. E soprattutto dovrebbe farlo oggi che la crisi internazionale sta costringendo la Sardegna a ripensare l’ideologia industrialista che qui ha dominato.
La nostra isola ha un’invidiabile concentrazione di beni culturali, ambientali, antopologici e linguistici. La loro valorizzazione non basta da sola a creare prosperità, naturalmente, e nessuno pensa di sostituire la monocultura industriale con una monocultura turistica. Ma sarebbe da irresponsabili non fare tutto il possibile affinché il turismo, da quello tradizionale a quello colto, sia tanto forte quanto forti sono le occasioni che la natura, la cultura, la lingua, l’ambiente umano e la qualità dei prodotti mette a nostra disposizione.

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